giovedì 5 marzo 2015
Scasciu chi mmi hannu i truvaturi! E' originale calabrese la Chanson de geste
Un’antica
cantata grecanica, declamata in Calabria per i crociati di Riccardo
Cuor di Leone, alle origini delle chanson de geste carolingie e
dell’Orlando furioso
di Mimmo Gangemi La Stampa 5.3.15
Galiziella e Ruggieri
Mugugnava a mezze labbra e a mo’ di cantilena ricordi sprofondati nelle
viscere del secolo appena svoltato, ascoltate dal nonno attorno alla
ruota del braciere nelle serate di levantina. Erano versi in ottave. Vi
comparivano un imperatore, la donna guerriera Galiziella, Ruggieri di
Risa, con Risa che è l’antica Reggio, guerrieri della montagna, e le
loro gesta epiche, anche con armi fiammeggianti - il fuoco greco. «Una
volta li sapevo meglio» si giustificò quando gli si incepparono i
ricordi. Non era a conoscenza di stare recitando brani di una cantata in
grecanico che in seguito, in normanno, divenne la Chanson d’Aspremont,
una delle prime chanson de geste, del ciclo carolingio, partorita poco
dopo la Chanson de Roland e su cui Ariosto mise gli occhi e attinse per
l’Orlando furioso.
La tradizione orale
Le prime notizie sulla Chanson d’Aspremont risalgono all’inverno 1190-1,
declamata in Aspromonte per le truppe crociate di Riccardo Cuor di
Leone e di Filippo Augusto di Francia in procinto d’imbarcarsi per la
terza crociata contro Saladino, lui intenzionato a invadere il Meridione
d’Italia e ad avanzare da lì alla conquista dell’Europa. Nella chanson i
saraceni combattono contro Carlo Magno - la storia ci dice che invece
si scontrarono con i Bizantini e che Carlo Magno mai scese tanto a Sud, e
infatti nella ballata don Peppe non dà un nome all’imperatore. Era
propaganda in favore della crociata, e un modo per intrattenere e
allietare i soldati.
Esistono parecchie versioni. Le più antiche sono quella anglo-normanna
della fine del secolo XII e quella franco-normanna del XIII. Ce ne sono
anche in italiano, una in forma manoscritta del XIV, un’altra della
prima metà del XV, una terza, in stampa, del XVI – edizioni Bindoni di
Venezia. Nessuna nel grecanico di don Peppe. Eppure a lui era giunta
così, tramandata di generazione in generazione. Significa che, ancor
prima dei Normanni, esisteva la tradizione orale, nel grecanico parlato
nei luoghi delle vicende. Vi si esibivano i contastorie e i giullari -
le stesse descrizioni geografiche sono talmente aderenti alla realtà da
palesare che, comunque, la stesura avvenne in Aspromonte, e la presenza,
nella prima versione manoscritta, dei dromoni, navi bizantine che già
non ci sono dopo l’arrivo dei Normanni, indica che l’autore ha attinto
dai cantastorie e che nella traduzione gli è sfuggito di eliminare
particolari che tradiscono l’«appropriazione indebita». Quindi, gli
stranieri in armi di fede se ne impadroniscono, la modellano a loro
utile e ne fanno una sorta di propaganda politica, filo inglese la prima
e filo francese la seconda, con piccole differenze - il franco-normanno
ha sostituito le ottave che acclamavano l’Inghilterra con altre pro
Francia.
Una luce fiammeggiante
Peccato che non sia stata manoscritta nella lingua madre. O, meglio,
peccato che a oggi non se ne sia trovata traccia su pergamena. Ma non si
dispera, finalmente studiosi di rilievo - la professoressa Sicari di
Reggio, il professor Gangemi dell’Università di Padova, il professor
Castrizio dell’Università di Messina, tutti d’accordo con il nostro don
Peppe - si attivano su un patrimonio letterario, tra gli 11 e i 13 mila
versi, a seconda della stesura, che appartiene specialmente
all’Aspromonte, di grande valore poetico e sociale. E anche fondamentale
sul tema dell’evoluzione della lingua, se si pensa che, dopo la morte
di Petrarca e Boccaccio, quando ci fu una levata di scudi delle
università italiane contro la «lingua da ciabattini», i Toscani, per
stabilizzare il loro volgare, tradussero e diffusero molte opere,
compresa la Chanson d’Aspremont, che intitolarono Cantari d’Aspromonte, e
in essa compare la donna guerriero Galiziella, assente nella versione
normanna, un’ulteriore prova, questa, che attinsero, traducendoli,
direttamente ai versi originali dei cantastorie, in grecanico.
Nella Chanson d’Aspremont compare la Santa Croce: viene portata sul
campo di battaglia e lì sprigiona una luce fiammeggiante, alta fino in
cima al cielo, che disorienta i nemici e li scompagina. Si fa anche
menzione di un’abbazia realizzata dal duca Girart per seppellire i morti
- in realtà edificata dai monaci basiliani. Non può trattarsi che
dell’abbazia di Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, dove, al tempo, era in
uso il rito della Santa Croce e non ancora quello mariano, della
Madonna della Montagna. Polsi, simbolo quindi della cristianità e
rifugio dell’anima per i soldati diretti alle guerre sante, quella
stessa Polsi che oggi, ingiustamente, spogliano del culto e della fede,
sprezzandola come luogo di ’ndrangheta e di perdizione.
L’ultimo cantastorie
Storie di quaggiù, che finiscono nel dimenticatoio. Storie di un
profondo Meridione che non interessano all’Italia schizzinosa. Storie
che è giusto risuscitare, perché patrimonio dell’umanità. Storie su cui
le grandi università europee - naturalmente tutte d’accordo con i
Normanni - hanno sviluppato e continuano a sviluppare studi importanti e
a stanziare fondi per la ricerca. Storie che sono nostre e che però da
noi si tacciono.
Don Peppe non lo si vede più seduto sulla panchina della piazza al
tiepido sole di primavera o all’ombra dei tigli nei tardi pomeriggi
d’estate, con la voce raschiosa di gola in una lingua dal sapore della
civiltà e con il vezzo di muovere rumorose, sciacquettanti e rapide le
labbra come quando rinvigoriva la brace del sigaro, che l’età non gli
consentiva più. Ha consumato i fiati mentre si accendevano i vividi
colori delle foglie morte, nel primo autunno del nuovo millennio. Con
lui se n’è andato l’ultimo cantastorie.
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