lunedì 30 marzo 2015

Tradurre. Ma ancor di più difficile è farsi pagare

Risultati immagini per Bocchiola: Mai più come ti ho vistoMassimo Bocchiola: Mai più come ti ho visto, Einaudi Stile Libero

Risvolto
«Tradurre testi letterari è bello. Consente di impossessarsene a proprio uso, e nel contempo - se lo vogliamo, se ne siamo capaci, molto o poco - di farne dono ad altri. Inoltre, dopo tutti questi anni, il pensiero di non tradurre nulla per un periodo prolungato mi dà un inevitabile senso di vuoto, di routine sconvolta. Di una routine, peraltro, che ha una sua natura molto specifica che potrei definire la felicità del traduttore».
Massimo Bocchiola racconta il suo mestiere di traduttore letterario, colui che insegue per centinaia, migliaia di pagine le parole degli altri, senza mai davvero raggiungerle, come un Achille «che rincorra Achille». E riflette sul legame fra la traduzione e il tempo. Restituire un testo in un'altra lingua significa far rivivere il passato, modificarlo, rendere la sua eco infinita, e quindi in qualche modo superare il limite, sconfiggere la morte. Mai piú come ti ho visto è uno splendido saggio-memoir, ma anche una entusiasmante scorribanda letteraria, da Omero a Gadda a Beckett, da Ritsos a Lorca a Chateaubriand, da Nabokov a Auden a Borges, passando per il rugby, i gangster, il canto dei dugonghi e la Turandot.

Traduttori, nobil razza dannata
Come in un memoir, Massimo Bocchiola racconta gioie e dolori del suo lavoro: tradurre, come scrivere, significa sconfiggere la morte attraverso la parola

di Giuseppe Culicchia La Stampa 30.3.15
Che cosa hanno in comune, a parte naturalmente la professione, Stephen King e Samuel Beckett, Martin Amis e Irvine Welsh, Thomas Pynchon e Paul Auster? Semplice: in molti li abbiamo letti nelle traduzioni di Massimo Bocchiola, che dopo il romanzo Il treno dell’assedio (Il Saggiatore 2014) e le raccolte di poesie pubblicate per Marcos y Marcos e Guanda, ha scritto per Einaudi Stile Libero Mai più come ti ho visto, saggio sotto forma di scorribanda, o volendo di memoir, nel quale ripercorre passo passo le tappe del suo percorso di traduttore, raccontando il dietro le quinte di un mestiere bellissimo, difficilissimo e per certi versi impossibile - trattandosi ogni volta di inseguire per decine, centinaia, migliaia di pagine le parole altrui senza raggiungerle davvero mai -, eppure piacevole. 

Un mestiere sfibrante
«Tradurre testi letterari è molto bello», scrive Bocchiola. «Consente di impossessarsene a proprio uso, e nel contempo - se lo vogliamo, se ne siamo capaci - di farne dono ad altri». Già: in Italia com’è noto si traduce tantissimo, eppure è piuttosto raro che il lavoro del traduttore venga menzionato se non di sfuggita in una recensione; quanto al compenso, che di norma viene stabilito «a cartella», da noi si attesta sui dieci o dodici euro, mentre in Paesi come la Germania - dove i traduttori hanno un loro sindacato in grado di trattare con gli editori - arriva anche a trenta e oltre; per tacere del resto del lavoro editoriale, ovvero delle revisioni e delle eventuali correzioni che almeno in teoria dovrebbero competere alla redazione della casa editrice: non da oggi, ma oggi più che mai, queste mansioni sono spesso appaltate all’esterno per ragione di costi, e sempre per ragione di costi si dà addirittura il caso che una traduzione non venga né rivista né corretta, ma pubblicata in fretta e furia così com’è, di modo che a farne le spese sono naturalmente innanzitutto l’autore e il lettore, ma anche il traduttore, che vede mortificato in questo modo il lavoro di mesi. 
Un lavoro duro, a tratti perfino sfibrante, che richiede una grande concentrazione e che talvolta non conosce orari. «Tradurre è un po’ come spalare carbone», scrive non a caso Paul Auster, citato da Bocchiola e ripreso nella quarta di copertina. «Lo sollevi con il badile e lo rovesci nella fornace. Ogni pezzo è una parola, ogni palata è una nuova frase, e se hai la schiena abbastanza forte, e la resistenza che serve a continuare per otto o dieci ore al giorno, riuscirai a tenere acceso il fuoco». Tutto vero, posso confermare: da parte mia, malgrado i dieci anni trascorsi in libreria ad aprire scatoloni e fare rese, non ho mai faticato tanto come quando ho tradotto i Racconti dell’età del jazz di Francis Scott Fitzgerald.
Dare nuova vita
Ma Bocchiola non si limita a mostrare più che generosamente l’officina del traduttore, con tutta una serie di esempi pratici ed escursioni in territori quali il cinema, il calcio o la guerra, nonché ammissioni di richieste di consulenza a esperti delle varie discipline, tra cui suo padre, medico, per una scena di Stella del mare di Joseph O’Connor in cui viene diagnosticato un caso di sifilide, e un ex compagno di scuola diventato agronomo per venire a capo di una parola usata in una poesia da Blake Morrison. In questo saggio densissimo, assai divertente e sempre interessante, prova anche a ragionare sul legame tra la traduzione e il tempo, a partire dal fatto che la traduzione di un testo letterario contribuisce a dare nuova vita, oltre che alle parole, anche a quella che è a tutti gli effetti un’esperienza passata, trasformandola e perciò stesso dandole una seconda occasione, restituendone l’eco infinita. Per arrivare alla conclusione che tradurre, come scrivere, corrisponde in un certo senso a sconfiggere la morte attraverso la parola. 
I due Moby Dick
Può darsi che le cose stiano davvero così, se non altro quando le parole sono destinate a rimanere: vedi l’Infinito di Leopardi, che a un certo punto Bocchiola decide di ritradurre dalla traduzione in inglese di Tim Parks anche per il gusto di sfidare se stesso. Sta di fatto che almeno su una cosa non posso dirmi d’accordo con lui, quando scrive che «ogni scrittore può ricevere critiche, attacchi, insulti ben peggiori di chi traduce, e su un terreno oggettivamente più personale. Ma al traduttore è statutariamente negato il diritto primario di ogni artista, cioè quello di produrre un’opera che piaccia prima di tutto a lui stesso. Forse è proprio per questa ragione, come per nessun’altra, che non si può definire un artista». Beh: senza tirare in ballo qui il caso del Moby Dick tradotto da Pavese, che bene o male da generazioni fa sì che ci siano due Moby Dick, quello di Melville e quello appunto di Pavese, ci sono al contrario traduttori che meritano senza dubbio tale definizione. E credo di poter dire che l’autore di Mai più come ti ho visto - un testo che certo sarà adottato in ogni corso di traduzione che si rispetti e che comunque andrebbe letto da chiunque ami leggere - possa essere annoverato tra questi.

«Il bravo traduttore è come il dottor Watson» 
Bocchiola spiega i segreti di un m estiere difficile. Per rendere in un’altra lingua versi o prosa non serve lo spirito intuitivo di Holm es m a il buon senso e il pragm atism o del suo collaboratore 
11 apr 2015  Libero PAOLO BIANCHI 
Tradurre non è un’azione banale, tuttavia può essere un gioco. A volte, un gioco subdolo. A spiegarlo è un traduttore d’eccellenza come Massim o Bocchiola in Mai più come ti ho visto. Gli occhi del traduttore e il tempo ( Einaudi, pp. 216, euro 18). Sarebbe riduttivo definire questo saggio come un manuale tecnico. È vero che contiene numerose informazioni utili a chi svolga o voglia svolgere questa professione. Ma è perlopiù un viaggio nella memoria dell’autore, attraverso brani di letteratura, e soprattutto di poesia, che compongono un catalogo o un sunto di un’attività pluridecennale. Di questo lavoro Bocchiola conosce la routine quotidiana, l’asprezza inventiva, ma anche la felicità della scoperta. Di fatto, la scoperta del mondo attraverso «la necessità di colmare dei vuoti». 
Tradurre non è un gesto pedissequo, né meccanico. È decifrare un testo e restituirlo nella lingua di destinazione attraverso una foresta di possibilità semantiche, una «pattuglia disperata di quasi sinonimi», dove si tratta continuamente di operare scelte e di dare risposte. Ecco perché «viene il sospetto che, come spesso succede, spiegare sia più semplice che tradurre». 
Se poi si considera la poesia, che può contenere in sé rime, cadenze, onomatopee, rimandi fonici, metrica, si può intuire come il compito sia arduo. E soggettivo. Chi traduce scrive, anzi riscrive, prendendo a riferimento un proprio mondo di significati, qualcosa che comprende l’esperienza soggettiva di vita e di linguaggio. Non a caso l’autore, pur infiorettando la sua prosa di continue corrispondenze con scrittori a lui cari, da Nabokov a Borges, ritorna sempre alla terra, all’origine, e la sua è situata nella Bassa pavese, dove è nato e dove risiede, e di cui ha assimilato il dialetto, tanto da riuscire a tradurre proprio in quello anche brani di alta letteratura. E magari proprio dall’italiano. 
Ma si diceva della traduzione come gioco. Un gioco che può essere anche poco divertente, e che anche quando è divertente non è detto che metta allegria. Eppure al traduttore è data una libertà, che non è proprio quella dell’artista, essendo una libertà condizionata, ma è la libertà di perdersi nella vastità di corridoi e labirinti, scegliendo e decidendo di volta in volta quale direzione prendere. Un lavoro a suo modo estenuante. 
Bocchiola rispolvera una definizione ben riuscita di Paul Auster, contenuta nel Libro delle illusioni: «Tradurre è un po’ come spalare carbone. Lo sollevi con il badile e lo rovesci nella fornace. Ogni pezzo è una parola, ogni palata è una nuova frase, e se hai la schiena abbastanza forte e la resistenza che serve a continuare per otto o dieci ore al giorno, riuscirai a tenere acceso il fuoco». 
Un parallelismo ardito e calzante è quello che Bocchiola propone fra la figura del traduttore e il dottor Watson, amico e fedele collaboratore di Sherlock Holmes. Watson non ha il brillante spirito intuitivo del detective, ma è a lui che viene formulato il celebre precetto: «Eliminato l'impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità». Ecco, è una massima che può benissimo essere adottata, in casi estremi, dal traduttore smaliziato e non incline a soluzioni illogiche. Watson, con il suo buon senso e il suo pragmatismo, è un vettore di conoscenza, un traghettatore di verità.  
E ovviamente anche un indagatore. L’autore racconta di essere figlio di un medico di base e di rivedere il padre dottore nel se stesso traduttore, per via di un analogo «accanimento investigativo non  esente da un senso di colpa» sia pure nella «coscienza che comunque, se diagnosi e cura vanno storte, il paziente che ci rimetterà sarà una parola, o nel peggiore dei casi un testo, un libro». 
Di questo saggio/memoriale restano impresse le pagine che trattano del tradurre in poesia lo sport e la morte. Quest’ultima in particolare nella declinazione della guerra. Qui si ha a che fare con la trasmissione di un certo effetto emotivo, laddove a volte è solo la posizione di una parola a stabilire il tono di un intero componimento. 
Per quanto riguarda la prosa, viene preso a esempio paradigmatico, tra gli altri, un brano di Irvine Welsh, scrittore scozzese, autore del romanzo di culto Il lercio. Ci troviamo di fronte a un testo in prima persona (il personaggio è una specie di psicopatico), con un tono che riproduce la cadenza del parlato, anche attraverso un uso massiccio dello slang. Rendere in italiano ciò che è per sua natura carico di riferimenti colloquiali, pop, e tipici di una cultura specifica, richiede uno sforzo interpretativo tale da render conto dell’originale esattezza e pulizia della lingua. E questo riguarda anche termini molto disinvolti, o apertamente scurrili, la cui valenza non può andare perduta. 
Il traduttore, perciò, dev’essere capace, entro lo spazio che gli è consentito, di ripetere un intero mondo. O, in altre parole, di creare a sua volta una letteratura.

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