domenica 8 marzo 2015
Uso politico e strumentale della storia: il "jihad" dell'anno 846
Roma 846, l’Isis è già arrivato
Uno dei periodi meno noti della storia della Penisola La jihad investì l’Italia con lo sbarco di mille saraceni La basilica di San Pietro fu saccheggiata e distrutta Profanazioni e massacri. Soltanto i contadini seppero resistere
di Amedeo Feniello Corriere La Lettura 8.3.15
Bisogna fare attenzione alle minacce dell’Isis e non fermarsi alla
superficie. Dietro di esse c’è qualcosa di più profondo della semplice
propaganda. C’è una consapevolezza, un richiamo continuo a una
legittimità che ha radici profonde nell’idea del califfato, globale e
pervasivo. Con obiettivi e nemici chiari e condivisi dai loro
confratelli: Israele, i «crociati» occidentali, la cristianità in
genere. E, naturalmente, il suo maggiore simbolo, Roma. Con un sogno:
prenderla e distruggerla.
Oggi, la minaccia crea turbamenti e timori. Ma anche, fortunatamente,
ironie: «Come perdere Roma? Impossibile: ci si perde, ma sul Grande
Raccordo anulare…». Eppure c’è stato un momento nella storia in cui la
città fu quasi a un passo dal diventare musulmana. Tutto accade molto
tempo fa, più di mille anni fa, nell’846. In quegli anni la Penisola fu
investita dalla jihad , con una lunga e terribile contabilità fatta di
centinaia di raid, tanto sulle coste quanto nell’interno. La Sicilia era
stata appena invasa. La Sardegna e la Corsica erano soggette ad
attacchi continui. I tratti tirrenici e adriatici — fino a Genova; fino a
Grado e alle coste dalmate — sotto scacco. E nell’interno le scorrerie
toccarono gli Abruzzi, Spoleto, la Lunigiana, il Piemonte. Episodi che
fecero scalpore. Ma niente fece tanto scalpore come l’assalto a Roma.
«Nel mese di agosto 846 — scrive Prudenzio di Troyes — i saraceni e i
mauri investirono Roma devastando la basilica del beato Pietro principe
degli Apostoli, asportando insieme all’altare che sovrastava la sua
tomba tutti gli ornamenti e i tesori. Alcuni duchi dell’imperatore
Lotario furono empiamente tagliati a pezzi». Da Harun ibn Yahya sappiamo
quale fosse la loro provenienza: venivano dalla Spagna. Mentre il Liber
pontificalis riporta come fosse composta la flotta e quanti gli armati:
arriva ad Ostia un gruppo di 63 navi, da cui scendono cinquecento
cavalieri e altrettanti fanti.
I fatti si svolsero così: i saraceni, dapprincipio, risalgono il Tevere,
senza trovare alcuna resistenza. Indisturbati, assaltano le sedi dei
forestieri, le scholae dei pellegrini sassoni, frisoni e franchi.
Saccheggiano tutta la zona fuori dalle mura aureliane. Profanano le
basiliche di San Pietro e San Paolo. Le locuste, si disse, sono arrivate
a distruggere le messi. L’unica reazione arriva dai contadini romani:
respingono la truppa saracena, che scappa via, scompaginata. Il gruppo
di predoni, una volta lasciata la città, però si riunisce di nuovo. Si
avvia lungo l’Appia. Arriva a Fondi. A settembre comincia ad assediare
Gaeta. Da Amalfi e da Napoli partono dei rinforzi, guidati dal console
Cesario. Un contingente dell’imperatore franco corre in aiuto di Roma,
ma cade in un agguato. Vengono trucidati tutti. I saraceni allora si
dirigono verso l’abbazia di Montecassino, un boccone ghiottissimo. Per
strada bruciano e rapinano tutto quello che trovano, chiese, cappelle,
villaggi. Li blocca solo un violento nubifragio. Si avvicina l’inverno.
Per i razziatori è il momento di rientrare alle loro basi. Il blocco di
Gaeta si spegne. Scatta, giocoforza, la tregua.
È la fine del raid, ma l’evento che ha colpito Roma lascia una profonda
ferita, i cui echi si proiettano ancora nel XII secolo, come nella
Destruction de Rome , sorta di proemio alla Chanson de Fierbras . Ma la
città non cadde. Fu quasi per cadere ma non cadde. Comunque, si resta
colpiti da come andarono le cose. Appare, per noi, quasi inconcepibile
che, nel corso di questo rapido e tumultuoso attacco, non sia esistito
alcun meccanismo organizzato di difesa della città santa, salvo da parte
dalla popolazione. Eppure, il gruppo saraceno non era enorme né
invincibile: basta un nubifragio a fermarlo, un po’ poco. Allora che
cosa lo rese quasi imbattibile? Diversi fattori: la capacità di sorpresa
dei saraceni; l’effetto psicologico, legato a una fama (e a una
propaganda) che li rendeva tanto più potenti di quanto non fossero; la
mancanza di una reale forza di dissuasione cristiana, considerata la
lontananza del potere imperiale e l’incertezza dell’atteggiamento degli
alleati locali, in special modo delle città tirreniche di Napoli e
Amalfi, spesso ondivaghi e favorevoli ai musulmani. Fatto sta che essi
rimasero a stazionare, praticamente indisturbati, per quattro mesi, tra
Roma e il basso Lazio. E posero a repentaglio la periferia della
capitale della cristianità, misero alle strette Gaeta e ridussero in
macerie tutta la zona tra Fondi e Montecassino.
Dopo l’incursione, a Roma la vita riprende a fatica. La prima cosa da
fare è ricomporre un tessuto connettivo, per far fronte a un futuro che
si presenta, per molti versi, oscuro e con poche speranze. Nell’assenza
del potere imperiale, il ruolo di promotore viene preso da Papa Leone
IV. Bisognava coordinare le forze, riassestare le difese, operare con
una forte e persuasiva opera di propaganda che rianimasse le popolazioni
avvilite, rinvigorire lo zelo religioso e, in ultimo, ricorrere
all’aiuto dell’allora potente impero bizantino. Intanto un’onda di
commozione fa il giro d’Europa. Era stato violato il centro della
cristianità, i suoi luoghi più sacri che neanche gli unni avevano
profanato. Bisogna far presto. Muoversi. Riorganizzarsi.
Che cosa fare? Il destino, oltre che nelle mani del Papa, è in quelle
dei signori del circondario, dei principi longobardi come delle città di
mare tirreniche. E si opera in due modi, seguendo modalità entrambe
idonee, in chiave difensiva locale e in chiave militare, con la
creazione di una rete di alleanze. Su questa base, Papa Leone dà avvio
alla costruzione delle mura leonine, che sorgono tra l’848 e l’852 a
protezione del colle Vaticano e della basilica di San Pietro: un
bastione che permette la difesa del corpo più sacro di Roma. Nell’849,
invece, le città tirreniche, con l’ausilio del Papa, riportano la
vittoria navale di Ostia: un momento simbolico più che una vera svolta,
che comunque riduce per un po’ la pressione delle incursioni sulla
costa. Un fatto è certo: dopo questi due momenti, nessuna incursione
tocca più direttamente la città pontificia, sebbene il suo hinterland
continui a essere sottoposto a frequenti aggressioni saracene, fino agli
inizi del X secolo.
Questa la storia dell’assalto a Roma, al tempo in cui in Italia ci fu la
jihad : il periodo forse meno conosciuto della nostra storia, quando la
Penisola, punto di giunzione delle tre grandi civiltà franco-latina,
bizantina e musulmana, divenne teatro di uno scontro di civiltà
duraturo, dai caratteri spesso terribili e apocalittici. Un tempo in cui
la minaccia di un califfato senza confini che spazzasse via la città di
Roma sembrò essere davvero dietro l’angolo, quasi sul punto di
avverarsi.
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