François Villon: Il testamento e altre poesie, Einaudi
Risvolto
Vous nous voiez cy attachez, cinq, six:
Quant de la chair que trop avons
nourrie,
El est pieça devoree et pourrie,
Et nous, les os, devenons cendre et
pouldre.
Universalmente considerato come uno dei piú grandi poeti di
tutti i tempi, Villon è stato spesso interpretato dai critici e dai
traduttori come un poeta maledetto, antesignano degli eroi romantici.
Oggi sappiamo che Villon non era affatto un poeta ingenuo
e istintivo, che padroneggiava straordinariamente gli strumenti
tecnici e retorici della poesia del suo tempo. Però è pur
vero che la sua opera contiene in sé un germe di deviazione e di
provocazione che va al di là dei generi letterari codificati a cui
appartiene. E questo germe ha continuato a svilupparsi nei secoli,
fino ai rapper di oggi, come azzarda suggestivamente Aurelio
Principato nella sua introduzione, facendo di Villon l'archetipo
di una «funzione» poetica che ha attraversato e segnato la storia
della cultura occidentale.
In questa nuova edizione delle sue poesie piú importanti la traduzione
è condotta in versi, recuperando il piú possibile anche
le rime e il tessuto sonoro dei testi. La scommessa è reinterpretare
fedelmente Villon restituendone anche la forza ritmica che
permette alle sue parole di risuonare fino a noi, e oltre.
***
«In questa celebrazione della vita e di piaceri poco spirituali
c'è una malinconia vera, un senso di precarietà e di decadenza.
Un'allegria sfrenata gremisce quadri pittoreschi sul cui sfondo
traspare una danza macabra, o pendono gli impiccati in mezzo
al paesaggio, come in certe tavole di Bruegel. Sulla caricatura e
la parodia, è la melanconia che si impone». Cesare Segre
François Villon è diventato un rapperLa Parigi stremata del ’400 e la rabbia del Bronx di oggi Il gesto sovversivo del «briccone» unisce mondi lontani
di Sandro Modeo Corriere La Lettura 8.3.15
François Villon come antefatto remoto dei rapper? Il legame, accennato
en passant nella folta introduzione di Aurelio Principato a Il
testamento e altre poesie (Einaudi) può suonare spericolato. In effetti,
ci si domanda, c’è qualcosa che possa avvicinare paesaggi tra loro
alieni come la Parigi di metà Quattrocento — la stessa di Notre-Dame di
Hugo — e il South Bronx di metà anni Settanta, fucina dell’hip-hop?
Qualcosa che vada oltre il semplice rispecchiarsi depressivo tra una
capitale stremata dalla guerra dei Cent’anni, dalle epidemie e dal gelo —
le case circondate da lupi che «si nutrono di vento» — e un ghetto nel
ghetto, concentrato di degrado e di violenza? Ed è davvero possibile
sentire risuonare nelle rime baciate di certi rapper quel «germe di
deviazione e provocazione» contenuto in quelle alternate di un poeta
molto più sofisticato di quanto vorrebbe la rilettura romantica, tesa a
esaurirlo solo nella matrice «maledetta»?
Per provare a rispondere, bisogna risalire alla fonte del fiume-Villon e
vederne le sterminate ramificazioni globali, estese a ogni campo: alla
letteratura (Stevenson e Osamu Dazai ne fanno personaggio di racconto);
alla scultura (la Bella Elmiera di Rodin); al teatro (le ballate nell’
Opera da tre soldi di Brecht); al cinema hollywoodiano (che vede Villon
interpretato da attori opposti come John Barrymore o Errol Flynn); alla
musica «alta» (il libretto operistico di Ezra Pound) e a quella
folk-rock (dalle influenze su Bob Dylan agli omaggi di Brassens e De
André); fino ai recenti richiami in giochi di ruolo e serial tv, che
collocano Villon — un po’ come succede a Dante — lungo le tante location
falso-medievali.
Di tutte queste ramificazioni, la più interessante — non solo in ottica
italiana — è forse quella di De André, in quanto anche la più efficace
per seguire quel «germe di deviazione e provocazione». Autore di
un’intensa prefazione all’edizione Feltrinelli delle Poesie (’66), De
André fa di Villon la stella polare della propria visione, molto oltre
la ripresa esplicita della Ballata degli impiccati in Tutti morimmo a
stento , disco del ’68, lo stesso anno in cui porta in musica anche S’i
fosse foco di Cecco Angiolieri, il «gemello» toscano di Villon. Certo,
non si può negare che quel contesto storico-sociale faciliti e acuisca
un’interpretazione anarco-ribellista come quella del Villon di De André;
né che questo rientri in parte in quell’uso «ideologico» del Medioevo
analizzato da Tommaso di Carpegna Falconieri nel recente Medioevo
militante (Einaudi) e pronunciato tanto a sinistra (vedi Dario Fo)
quanto a destra (le caricature leghiste), pur con evidenti asimmetrie di
livello culturale. Ma è altrettanto indubbio che la componente
anarco-ribellista sia carattere oggettivo e «in lunga durata» della
poesia di Villon; così come il fatto che De André ne colga — con intuito
«filologico» — anche il rigore della sottostante tessitura
ritmico-metrica.
La chiave di quella componente consiste nell’incidenza di due
figure-archetipi, sfumanti l’una nell’altra. La prima è il fowl (il fool
shakespeariano, il francese sot ), cioè il «buffone»: a questa figura,
Villon non delega solo una denuncia-irrisione contro la borghesia
ascendente (commercianti, usurai, evasori) che ricorda la furia dantesca
contro «la nova gente e i subiti guadagni»; ne fa anche il campo di
tensione tra piacere e angoscia, tra un vitalismo da Carmina Burana
(taverne, dadi, puttane) e la permanente danza macabra che corrode corpi
e oggetti: un memento mori che ha impressionanti coincidenze con quello
delle Stanze di Jorge Manrique, contemporaneo spagnolo di Villon. Da
questo campo di tensione se ne irradiano molti altri, come quello tra la
vera fede (vedi la toccante Ballata alla Vergine Maria , dove il poeta
si immedesima nella madre che prega) e una Chiesa così ottusa da
rinsaldare le tentazioni di una latente miscredenza (se davanti ai
nonsense della vita, «Nostro Signore se ne sta ben zitto/ Che a
rispondere avrebbe la peggio»).
La seconda figura è il trickster (il «briccone»), archetipo
mitico-religioso universale (dio come Loki, titano come Prometeo,
animale come la volpe Renart) che si declina anche in «tipi» del
folklore (da Pulcinella al Malandro brasiliano) accomunati da astuzia,
inganno e strategie amorali, sempre nel segno dell’insubordinazione
all’ordine costituito. Spesso, il trickster è anche un ladro, ma in
accezione «redistributiva» (vedi Robin Hood): così come ladri sono
Villon stesso o Geordie, il giovane bracconiere portato alla forca
(nonostante l’intercessione dell’amata) in una ballata inglese del
Cinquecento che De André volge in una struggente versione italiana
modulata su quella di Joan Baez.
Non solo. Il trickster riesce anche a riportarci al rap. Una delle sue
molte incarnazioni è infatti l’Anansi, il dio-ragno dell’Africa
occidentale che accompagna gli schiavi in Giamaica; e il big bang
dell’hip-hop nel South Bronx si realizza proprio partendo da ritmi e
riti giamaicani. Se quindi tra Villon e certo rap (per esempio i Padri
Fondatori Public Enemy) risaltano analogie esterne (i nomi propri nelle
invettive, il gergo criptico, più di un’ombra di misoginia) il nucleo
comune consiste nel gesto amorale e sovversivo del trickster : nella
«grande povertà» — dice Villon — che «poco si impegola con l’onestà» e
osa «parole sferzanti». In quest’ottica, il «germe di deviazione e
provocazione» trova senz’altro una sua continuità.
Dopo di che, la suggestione deve essere filtrata da differenze e
distinzioni. Sul piano formale, sia Villon che i rapper lottano con le
forme chiuse dei loro codici: ma è incolmabile la distanza tra un
contrappunto di ottave che converte anche l’osceno e il blasfemo in
geometrie rarefatte da Messa di Josquin e le soluzioni
segmentate-sincopate della ritmica hip-hop. Così come, sul piano delle
implicazioni sociali, l’insofferenza individuale del «bon follastre» è
lontana anni luce dalle rivendicazioni collettive (prima di razza, poi
di classe) che innervano il ribellismo rap.
Anche se, resta inteso, leggere Villon non significa ripiegarsi sulla
rivolta come semplice testimonianza. Se «il mondo è un’illusione»,
altrettanto lo è la possibilità di correggerlo («questo mondo, sappiamo,
è una prigione/ per chi coltiva pazienza e virtù»); e un’illusione,
alla fine, è anche la poesia, come quella di Villon, che pretende a ogni
verso di contrastare quell’impossibilità. Ma il modo in cui la
contrasta — anche solo con una rima o un’assonanza — ne fa una delle
poche illusioni davvero necessarie, una di quelle illusioni di cui —
scrive Proust — «vorremmo essere le vittime».
Non un rivoluzionario Forse una maschera
Corriere La Lettura 8.3.15
François Villon è una leggenda. Il poeta eretico e vagabondo, il poeta
delle taverne, dei bordelli, dell’umanità più bassa, calda, oscura, il
poeta degli impiccati e condannato, lui pure, all’impiccagione; il primo
dei poeti maledetti, il poeta assassino... Del resto, la più
convenzionale delle arti, la poesia, ha sempre avuto fame di realtà e
d’innesti irregolari, di annettersi il sangue caldo e non ancora
addomesticato della vita. Nel caso di Villon tutto sembra aver favorito
la creazione del mito, dalla fortissima caratterizzazione tematica e
ambientale all’incertezza di molti riferimenti o allusioni a personaggi e
fatti dell’epoca, dalla natura a volte criptica dell’ argot (il gergo,
nel Medioevo chiamato jargon ) alla problematicità della tradizione
testuale, con le relative attribuzioni, all’incertezza dei dati
biografici e del nome stesso del poeta.
Nato verso il 1430 e laureatosi a Parigi, ha frequentato la corte di
Charles d’Orléans. Fu condannato a morte nel 1463, ma la pena venne
commutata in una messa al bando. Da quel momento di lui non si sa più
nulla. Ammesso che si tratti di dati affidabili, è comunque tutto qui.
Leggendo la nuova edizione dei componimenti più significativi di Villon,
Il testamento e altre poesie , uscita da Einaudi a cura di Aurelio
Principato (la traduzione, che mi sembra notevole, è di Antonio
Garibaldi), si viene posti una volta di più di fronte all’immagine del
poeta che credo molti portino con sé fin dalle prime letture
scolastiche: un’immagine che sembra inscalfibile e che coincide
perfettamente con quella che la tradizione poetica ha definito via via
attraverso i suoi tanti, spesso autorevoli lettori. Di conseguenza la
frase con cui ho aperto queste considerazioni ritorna subito a porsi
come un problema. Quella di Villon, poeta in ogni senso eslege, fuori
dalla legge, è davvero una leggenda?
Giustamente, allora, il curatore ha sottolineato come in questa poesia
sia ancora attivo il tipico procedimento allegorico medioevale «che
impedisce di prendere i riferimenti troppo alla lettera», o anche,
d’altro canto, come la stessa, inusuale ricchezza degli autoriferimenti
faccia nascere il sospetto che si tratti di un Io non autobiografico ma
stilizzato, convenzionale, come una specie di maschera poetica. Villon,
insomma, sembrerebbe un caso rarissimo, forse unico, in cui filologia e
poesia, senso dei fatti e immaginazione, si sconfessano a vicenda.
Eppure, come sempre accade, è vero il contrario. Proprio perché è un
poeta, e quale poeta, Villon non fa eccezione alle nozze, sempre
feconde, tra poesia e filologia. L’estrema padronanza dei mezzi
espressivi, la capacità di governare registri, linguaggi, convenzioni
formali e figurative, la piena consapevolezza dell’artificio poetico,
l’intelligenza della doppiezza e del gioco che la messa in forma della
vita inevitabilmente comporta, costituiscono infatti per Villon un
formidabile strumento di comprensione e di rappresentazione della figura
umana e del suo destino.
Erich Auerbach definì addirittura Villon come «il primo poeta unicamente
tale» (Pasolini rettificherà poi questo giudizio sostenendo che in
realtà il primo poeta-poeta, manco a dirlo, è stato Dante). Siamo dunque
agli antipodi rispetto a una dimensione d’immediatezza espressiva. Se
nei versi di Villon prende vita una sorta di grande commedia umana
tardo-medioevale — una commedia che comprende il sarcasmo, la rabbia,
l’irrisione, l’esuberanza dei sensi, il dolore, il grottesco, la
caricatura, la gioia, la pietà, la malinconia, il compianto —, questo
accade perché non vi si trova nulla di diretto, di non filtrato
dall’intelligenza e dal cuore, e dal mestiere di poeta.
Quanta complicità, quanto distacco, quanta passione e quanta saggezza si
trovano anche solo, ad esempio, nella prima quartina di questa
Canzonetta ? «Appena uscito di dura prigione/ dove quasi ho lasciato la
mia vita,/ se Fortuna si vuole mia nemica,/ ditemi voi se lei non ha
ragione». A me pare insomma che se la leggenda di Villon ha ben motivo
di esistere, questo non sia affatto per la sua presunta esistenza di
fuorilegge o di ribelle alle convenzioni del tempo; quanto invece
proprio per la sua eccellenza nell’arte poetica e, di conseguenza, in
quella particolare, obliqua relazione tra convenzione e innovazione, tra
regolarità e irregolarità che questa comporta. Non a caso proprio
Auerbach ha visto a ragione come nel «realismo creaturale» di Villon non
vi sia alcuna traccia «di forza rivoluzionaria, anzi nessuna volontà di
foggiare il mondo terreno diverso da qual è». Ma è vero altresì che
proprio la sua capacità di aderire, penetrare e, detto nel senso più
pieno, di sentire la materia sensibile del mondo e della vita, esce e
anzi rovescia tutto ciò che poteva apparire prescritto: «Qui ci vedete
in cinque o sei appesi:/ la nostra carne anche troppo nutrita/ da un
pezzo è divorata e imputridita,/ e cenere noi, le ossa, siamo e
polvere».
Villon, ambiguo e insidioso con le sue maschere«Il testamento e altre poesie»: nuova traduzione per Einaudi Martire d’amore, delinquente, venditore ambulante, prosseneta... Antonio Garibaldi fa rivivere in endecasillabi la ‘memoria mortis’ del poeta francese del Quattrocentodi Patrizio Tucci il manifesto 29.3.15
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