domenica 5 aprile 2015

Di domenica, la Guerra fredda anticinese dei media italiani raggiunge un picco

Questo è assai figo:


Questo invece è culto della personalità totalitario:




Papà Xi
Nella grotta del nuovo Mao 

A Liangjiahe tra i pellegrini in adorazione davanti al forcone che da ragazzo impugnò “colui che non ha paura del cielo né della terra”. Nessun leader cinese aveva mai osato oscurare il mito del Grande Timoniere, prima di Jinping Ma cosa si nasconde dietro questo culto della personalità?
 LIANGJIAHE «LACINA HA GENERATO PAPÀ XI. Egli osa affrontare qualsiasi tigre, non importa quanto sia grande la tigre. Non ha paura del cielo e della terra. Il nostro sogno è incontrarlo». Liangjiahe, nascosto tra le colline dello Shaanxi, resta un villaggio con l’odore resistente della campagna. Squadre di muratori vivono però ora sospese su vertiginose impalcature di bambù. Per arrivare fino a sera cantano inni al «nostro nuovo Grande Timoniere». Costruiscono un hotel e un centro commerciale: le comitive di pellegrini, impegnati a visitare i nuovi luoghi sacri della nazione, desiderano passare almeno una notte «sotto le stesse stelle che guardava papà Xi». Il tour segue le tappe che hanno

segnato «il cammino verso il cielo» del presidente Xi Jinping.
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«Un dio è sceso in terra accanto a me, oggi è un grande giorno, ho visto papà Xi, la felicità sta bussando alla mia porta». Il museo è dietro una stalla affondata tra campi di granoturco. È allestito nella grotta in cui Xi Jinping, durante la Rivoluzione culturale, è diventato maggiorenne. Mao Zedong lo spedì qui a spalare letame, lavorare la terra e alzare dighe. Per sette anni il giovane Xi ha dormito sul pavimento, coperto da una stuoia di paglia. Il cimelio è ora protetto da una corda e i pellegrini si inchinano anche davanti alle altre reliquie: una lampada a olio, un forcone, una coperta, una bottiglia verde. Lu Housheng racconta agli ammirati visitatori di aver dormito molte volte accanto a colui che sarebbe diventato il “nuovo Mao”. «Gli ho insegnato come si pianta il grano», dice, «e come si ripara un tetto: aveva quindici anni, ma ha sempre mangiato amaro in silenzio». La grotta-museo di Xi Jinping sarà presto un parco a tema della «gloria socialista». Entro l’anno un’autostrada a otto corsie la collegherà alla grotta scavata nel tufo giallo di Yan’an, culla della rivoluzione maoista, e a Shaoshan, luogo di nascita di Mao, nello Hunan. Anche il presidente, alla vigilia del capodanno lunare, è tornato nei luoghi del suo esilio di gioventù. Il padre, Xi Zhongxun, nel 1962 rimase vittima delle purghe di Mao: era uno degli eroi della rivoluzione, finì in carcere con l’accusa di «sovversione». Sulla parete della sua grotta viene ora proiettato un video no stop. Mostra Xi Jinping fermo che guarda il sole lontano, poi mentre cammina con soldati e contadini, mentre regge l’ombrello da solo, mentre si cala sul capo l’elmetto di un operaio, mentre tira calci a un pallone. L’ultima immagine è riservata a una passeggiata assieme alla moglie Peng Liyuan. Un coro di tenori l’accompagna intonando «Io ti offro il mio cuore», invocando “papà Xi” e “mamma Peng”.
Una Cina orfana oggi è impegnata a costruire il culto paternalistico del leader. È una tradizione millenaria. I cinesi sentono il bisogno di un condottiero, di un imperatore, di un rivoluzionario, di un dittatore da chiamare presidente. Sono quasi 1,4 miliardi, ma per restare insieme serve un solo semidio. In due anni e mezzo la costruzione dello “Xi Cult” ha qualcosa di prodigioso. Deng Xiaoping fece ogni sforzo per abbattere il mito di Mao: odiava il suo mausoleo su piazza Tienanmen, si spinse a farsi cremare. Jiang Zemin e Hu Jintao hanno scelto di restare tecnocrati del partito, più grigi dei rossi per trasformare in forza la propria debolezza. Con Xi Jinping la storia del Paese promette di scrivere una pagina totalmente nuova. Un altro dio, padre di tutti, scelto dal partito-Stato tra i figli degli intoccabili, per salvare la Cina e non farla esplodere come l’Unione sovietica. È una missione epocale, occorre l’immagine di uomo capace di segnare un’era. Lo strumento è classico: l’adulazione, un rinnovato culto della personalità, una fede di massa prossima all’isteria, l’orgoglio cieco di obbedire a ogni capriccio del vate. A Liangjiahe i funzionari un errore l’hanno fatto. Uno dei grandi immobiliaristi del partito, a proprie spese, per onorare “papà Xi” aveva accettato di realizzare un teatro. Avrebbe ospitato il nuovo musical sulla vita del presidente. Xi ha visto il progetto e purtroppo l’ha definito «eccentrico», osservando che «troppi edifici in Cina oggi sono moderni e ispirati all’Occidente». I lavori sono fermi, nessuno sa cosa fare, chi chiamare, se è meglio abbattere e rifare, o finire e mettere subito in scena l’apologia presidenziale. L’invenzione di un luogo-santuario, secondo la propaganda, ancora non basta per proiettare subito Xi Jinping tra gli «immortali». Anche Pechino, il cuore del potere, deve offrire al popolo un tour connesso al leader del «sogno cinese ». Il passato sono la Città Proibita e il Mausoleo di Mao. Il presente, da piazza Tienanmen, conduce in un anonimo fast-food, altrimenti introvabile, confuso ai margini degli hutong . Fino a pochi mesi fa Qingfeng vendeva panini al vapore e fegato di maiale stufato agli abitanti del quartiere. Un giorno si è presentato Xi Jinping. Ha fatto la fila con i migranti, ha ritirato il suo vassoio, ha pagato, si è seduto a un traballante tavolino pieghevole e, ripreso dalla tivù di Stato, per l’equivalente di tre euro ha divorato una ciotola di combo, specialità della casa. Qingfeng, in poche ore, è diventato il ristorante più ambito della Cina e i pellegrini vengono condotti qui in risciò. Funzionari, studenti e operai si fanno fotografare davanti alle ciotole su cui è impressa l’immagine del presidente. Un piccolo negozio vende busti, tshirt, bandiere, creme, cappelli, ventagli e souvenir, tutti con il ritratto di “papà Xi”. Un brano soft-rock accoglie le comitive. Il ritornello recita: «I figli e le figlie della Cina ti seguono mano nella mano, grande segretario generale, amato presidente Xi, la nazione cinese è sicura di ringiovanire perché abbiamo Voi». Dalla «visione scientifica dello sviluppo » di Hu Jintao, la seconda economia del mondo viene proiettata direttamente nel «sogno cinese» di Xi Jinping. I colletti bianchi, acquistata la berlina tedesca, hanno cura di appendere immediatamente allo specchietto retrovisore un ciondolo di seta rossa con la fotografia plastificata del leader. Sulle scrivanie degli uffici, i piccoli Buddha di bronzo e le statuette stagnate di Mao finiscono prudentemente nel cassetto, sostituite dalle teste dorate di Xi. I tre predecessori, fino a quando sono rimasti in carica, non si sono sognati di fare concorrenza al Libretto Rosso, astenendosi per oltre un decennio dalla vanità della scrittura. “Papà Xi” è già al terzo libro: autobiografia, massime e il manifesto politico Il governo della Cina, ricco dei «Quattro Complessivi», cardini della sua «Linea di massa»: Sogno cinese, Sviluppo economico sostenibile, Stato di diritto e Sradicamento della corruzione. Per un cinese leggere questi tomi, esibirne il possesso, indulgere in qualche citazione sapientemente distratta, non è obbligatorio ma consigliabile. Il professor David Sambaugh, uno dei più profondi conoscitori della Cina contempora- nea, racconta che nella pausa pranzo di una conferenza nella Scuola centrale del partito è entrato in una libreria. Le opere di Marx, di Lenin e di Mao erano negli scaffali più bassi. A portata di mano, pile alzate con volumi di Xi freschi di stampa. Ha chiesto come andassero le vendite e il commesso ha risposto: «Oh, non sono in vendita, li regaliamo». Centinaia di milioni di libri in omaggio, in ogni città e in ogni villaggio, quasi ad autorizzare il sospetto del timore di un fallimento. L’ossessione di affermare lo “Xi Cult”, ideale di superiorità personale quasi in opposizione allo sfacelo collettivo di un partito corrotto e disprezzato, tradisce una speranza, ma pure più di uno scricchiolio. Nella libreria PageOne, la più chic di Pechino nel quartiere diplomatico di Sanlitun, si trovano i più importanti magazine stranieri. Da mesi, gli articoli anti-cinesi si moltiplicano. Qualcuno strappa da ogni copia i pezzi che criticano il presidente e le sue purghe contro gli avversari “corrotti”, o che evidenziano i limiti delle sue riforme. L’indice però non viene tagliato: i clienti così leggono il titolo di un servizio che poi all’interno non trovano. La domanda comune che nessuno pubblicamente osa fare è perché la Cina, al vertice del proprio successo globale, abbia deciso di archiviare il dominio diffuso dei gerarchi del politburo, per riabbracciare il potere individuale di un condottiero-eroe solo al comando. Gli osservatori americani lo chiamano «effetto Superman». Assicurano che negli autoritarismi si manifesta alla vigilia dell’implosione, che «il finale di partita del regime comunista cinese è iniziato» e che «la sua morte rischia di essere lenta, disordinata e violenta». La realtà visibile è invece che per la maggioranza dei cinesi lasciare generare un “papà Xi” e praticarne il culto, rappresenta per ora la sola speranza di smentire le profezie dei futurologi stranieri. Una divinità, se viene venerata, scatena energie inimmaginabili, smentisce i fatti, rovescia i pronostici, fino a cambiare la realtà. La condizione, dalla prima dinastia Qin, è l’abnegazione assoluta. Durante una tavola rotonda con alcuni governatori di regione, a Pechino per l’Assemblea nazionale del popolo, Xi Jinping ha chiesto quante tigri siberiane sopravvivono nel Paese, cosa mangiano e quanti cinghiali restano sul monte Changbai. L’agenzia Xinhua ha subito battuto la «straordinaria curiosità del presidente Xi» per la natura. Per settimane, dopo l’evento, tivù e giornali sono stati monopolizzati da documentari e reportage sulla salvaguardia delle tigri e dei cinghiali. Parlarne è diventato di moda e qualche imbarazzo è filtrato tra gli stessi alti funzionari, costretti a imparare a memoria che in Asia rimangono «non più di quattrocentocinquanta tigri siberiane ». Il problema non è la foga della propaganda, con l’istintiva predisposizione dell’apparato ad adulare il leader maximo. A turbare non solo il partito è il fatto che “papà Xi” non faccia nulla per fermarla, o almeno qualcosa per rendere presentabili gli eccessi. Incoronato un nuovo imperatore, chi lo tirerà giù dal trono? Morto Mao, la regola non scritta è che in Cina il segretario generale del partito resti in carica per due mandati, un decennio. Già oggi i cinesi, per la prima volta, si chiedono cosa accadrà tra sette anni e come potrà ritirarsi a «dignitosa vita privata», e designare un erede, un essere divino come Xi Jinping. Il suo perenne sorriso non allegro segue la gente anche per strada, nel metrò, sui treni, nelle scuole e nei cortili dei condomini. Squadre di operai incollano ogni giorno milioni di nuovi manifesti con gli slogan del «sogno cinese»: «armonia», «inclusione », «amore per la patria», «onestà», «fede». Il messaggio è che solo grazie al presidentedio la nazione potrà continuare la sua corsa verso la ricchezza e verso la supremazia del mondo. I pellegrini rossi sono affascinati dalla storia del figlio dell’eroe rivoluzionario, caduto in disgrazia, costretto al confino in campagna, condannato alla fame e capace poi di risorgere fino a conquistare dall’interno il potere che l’aveva punito, autoproclamandosi successore di Mao e primo custode della sua memoria. La fabbrica del consenso, grazie alla «pericolosa influenza del web», ha provveduto a costruire un luogo anche per celebrare la vittoria consumista del presidente. Si chiama Nanluoguxiang ed è una delle vie più antiche della capitale, alle spalle delle torri del Tamburo e della Campana. Mesi fa Xi Jinping l’ha scelta per una passeggiata solitaria. La liturgia prescrive che la macchina della persuasione la descriva come «un prodigio», casuale e improvviso. “Papà Xi” si è mosso tra la gente comune, ha fatto piccoli acquisti nelle botteghe di finto artigianato, ha addentato una mela caramellata. La fotografia del presidente che si rilassa in modo semplice e che cammina come chiunque è ora appesa nel salotto di ogni cinese che abbia a cuore la tranquillità. Il suo shopping tradizionale è diventato un cartone animato, descritto anche nel testo della canzone più ballata dagli anziani.
La Cina non è la Corea del Nord e non ingaggia attori che si commuovano al passaggio del dittatore. Non c’è bisogno del terrore per crescere masse in delirio. L’impressionante e rapido culto di Xi Jinping è l’opera grandiosa di una propaganda nuova, che ha assimilato i meccanismi elettorali occidentali, maestri nella costruzione dell’immagine di un leader mediatico. Rivela però quanto il potere assoluto del capo di un partito unico, fondato sull’esercito, per difendersi dai suoi tutori abbia oggi il disperato bisogno di un reale e quasi democratico consenso popolare. Lo “Xi Cult” è la conseguenza di un super- potere, o il presagio di un’accelerata fragilità? Glorifica il presidente, o serve a salvare la sua nomenclatura? Inaugura l’era dell’influenza globale cinese, o segna l’inizio del «finale di partita» a Pechino? Silenziosamente se lo chiedono anche i turisti dirottati oggi nell’umida grotta presidenziale di Liangjiahe. All’uscita viene chiesto loro, per ricordo, di disegnare un ritratto giovanile di “papà Xi”. Qualcuno, per l’emozione, rischia il malore. Altri fingono di svenire. Nessuno accetta «la sfida con una simile bellezza». «Ma ricevere questa artistica proposta», dice senza incertezze un’enigmatica maestra venuta dal Gansu, «è stata la più grande fortuna della mia vita».

Lezione di maoismo nelle campagne cinesi «Il Sogno è una divisa con la stella rossa»
In una delle 150 scuole dedicate al culto del comunismo: la modernità non è arrivata (il calcio sì)di Guido Santevecchi Corriere 5.4.15
PECHINO La scuola, circondata da una campagna dura, stremata dall’inverno che tarda a finire e dall’inquinamento che non va mai via, è l’unico edificio degno di questo nome nel raggio di chilometri. È intitolata ai «Martiri dell’Armata rossa rivoluzionaria». I bambini di questa elementare di Luannan, distretto rurale nella provincia cinese dello Hebei, hanno in dotazione una divisa celeste carta da zucchero con fazzoletto al collo e berretto con la stella rossa: la copia di quella indossata in guerra dai soldati dell’Esercito contadino e popolare di Mao negli anni Trenta e Quaranta. Alla cerimonia dell’alzabandiera si cantano inni come «Marciamo sempre in avanti, con fermezza».
Del sistema scolastico cinese conosciamo i successi nei test internazionali, che collocano i ragazzi di Shanghai al primo posto mondiale per apprendimento. Ma a Luannan la scuola è dedicata al culto dei patrioti comunisti: ce ne sono 150 sparse nella Repubblica Popolare, soprattutto in luoghi dove l’esercito di Mao combattè contro i nazionalisti e contro gli invasori giapponesi, vincendo. Luannan e gli istituti gemelli sono finanziati dalla «nobiltà rossa», composta dai figli e nipoti dei comandanti delle forze maoiste. È un «principe rosso» anche il presidente Xi Jinping. La nobiltà rossa vorrebbe che ai bambini si insegnasse fedeltà al partito comunista, in tempi di crisi ideologica.
La scuola è una palazzina su due piani, dipinta di giallo ocra e coperta da parole d’ordine scritte in rosso, falci e martelli, stelle a cinque punte. Il direttore, Zhang Shuzhi, 53 anni, ci attende nel piazzale, al suo fianco insegnanti e anche l’assessore. «Abbiamo 280 scolari dai 6 ai 12 anni, 9 classi e 18 insegnanti; lezioni dalle 8 alle 16 con un’ora di pausa per il pranzo, dal lunedì al venerdì». Sulle pareti dei corridoi sono allineate foto in bianco e nero e biografie di eroi rivoluzionari che i ragazzi di Pechino, imborghesiti, ormai non ricordano quasi più. Il direttore ci spiega che la divisa militare gli allievi la indossano solo in giorni speciali, per non rovinarla.
Entriamo in una classe: 24 bambini e bambine di quinta, tutti seduti composti davanti a tavolini quadrati. Naturalmente la maestra li aveva preparati. Quando ho chiesto di fare qualche domanda la signora ha fatto alzare la capoclasse. «Mi chiamo Zhang Likun, ho 12 anni». Dovete fare tanti compiti a casa? «Noo, la maestra è molto brava, ce ne dà pochi». E poi che fai, giochi? «Noo, guardo la tv, ci sono i notiziari». E niente cartoni animati? «Mi piacciono i film storici, come quello sul Piccolo Soldato » (una sorta di P iccola vedetta lombarda di De Amicis in versione maoista). Un’altra domanda banale, di quelle che tutti i bambini del mondo odiano: da grande che cosa vuoi fare? La capoclasse conosce a memoria la risposta: «Realizzare il sogno cinese, facendo l’insegnante». E poi? Qui Likun ha ceduto e ha ammesso di volere anche «una bella macchina, ma bianca». Sai qualcosa dell’Italia? «Certo, l’Europa è a nordovest della Cina e la capitale dell’Italia è Milano».
Poi ho chiesto quanti vogliono fare il soldato: si sono alzate solo tre mani. Un cicciottino, Wu Yulong, ha detto orgoglioso: «Voglio entrare in fanteria, come gli eroi della Lunga Marcia». Ma a nessuno piacerebbe fare il calciatore? Wang Shiy scatta in piedi. E come giochi? «Normale», replica con modestia. Ti piace la divisa dell’Armata Rossa? Gli si illuminano gli occhi: «Sì, tanto». Perché? «È speciale». Ti piace cantare gli inni? «Non tanto, sono stonato». Le aule sono essenziali, riscaldamento già spento e finestre aperte anche se la temperatura è ancora rigida. Nella stanza dei giochi sono allineati carri armati e cannoni di cartone e legno compensato; un diorama della stazione spaziale cinese con le figurine degli astronauti e orsacchiotti di pelu-che. Direttore a che serve una «scuola rossa» come questa? «A formare dei bravi comunisti». E chi è un bravo comunista? «Il bravo comunista salva la Cina». Ma da che cosa dev’essere salvata la Cina? Il direttore di campagna non ha saputo rispondere, ha sorriso.
Certo, impressiona vedere dei bambini nella divisa dei rivoluzionari, allevati a slogan e parole d’ordine. Ma a dire la verità l’ambiente di Luannan ricorda anche quello ingenuo delle nostre scuole elementari di paese com’erano ancora non molti anni fa. Per arrivarci abbiamo attraversato villaggi fatti di casette e catapecchie in strade polverose cosparse di spazzatura e plastica; sui tetti pile di pannocchie di mais lasciate ad asciugare. Niente a che vedere con la Cina seconda potenza economica del mondo.

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