domenica 5 aprile 2015
Talleyrand e Fouché tra rivoluzione e restaurazione
Alessandra Necci: Il diavolo zoppo e il suo compare. Talleyrand e Fouché, o la politica del tradimento, Marsilio Editori 2015.
Risvolto
Due celebri uomini politici, Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord e
Joseph Fouché, vissuti a cavallo fra il '700 e '800 in Francia.
Cresciuti entrambi in seno alla Chiesa, che hanno poi rinnegato,
Ministro degli Esteri del Direttorio, di Napoleone e della Restaurazione
l'uno, Ministro della Polizia l'altro, nemici quindi complici a seconda
delle convenienze, sono divenuti il paradigma stesso dell'opportunismo
politico, tanto da essere soprannominati "banderuole". In realtà,
Talleyrand e Fouché sono molto più di questo. Protagonisti di un'epoca
straordinaria, quella fra Ancien Regime e Restaurazione, nella quale si è
costruita la Francia e anche l'Europa moderna, sono riusciti a
sopravvivere al crollo della monarchia, alla Rivoluzione, al Terrore, al
Direttorio, all'Impero, alla Restaurazione, rivestendo quasi sempre
ruoli di primissimo grado. Dichiaratamente infedeli ai regimi e agli
uomini, hanno cercato di essere, soprattutto nel caso di Talleyrand,
fedeli alla Francia. Intorno a loro, dietro di loro, c'è tutto un mondo
che si muove e cambia, in una fase tragica e travagliata, densa di genio
e di grandezza ma anche di drammi e atrocità. Freddi e sofisticati
tessitori di strategie e intrighi, sono stati determinanti per far
cadere il loro signore, Napoleone Bonaparte, ma anche per restituire
alla Francia un ruolo centrale nell'Europa della Restaurazione.
Traditori? Certo; ma in questa storia, tutti tradiscono tutti, a volte
con qualche giustificazione, altre senza.
Vite di Talleyrand e Fouché i grandi camaleonti della politica
Prima monarchici, poi repubblicani, napoleonici, infine vicini alla Restaurazione. Sempre in primo piano
di Sergio Romano Corriere 18.5.15
Nel
suo libro su due protagonisti della Francia rivoluzionaria e
napoleonica — Talleyrand e Fouché — Alessandra Necci si chiede «quale
sia la dote, la capacità che permette ai due personaggi di sopravvivere,
mentre altri apparentemente più forti, più eroici, “migliori”, passano
come meteore, per poi sparire». La domanda non è banale e suggerisce
qualche riflessione sulla rivoluzione francese. La Francia dell ’Ancien
Régime era un’enorme «azienda» che dava lavoro, denaro e potere a
parecchie migliaia di persone legate, per un verso o per l’altro,
all’istituzione monarchica: ministri, funzionari, militari,
ecclesiastici, magistrati, membri dei Parlamenti regionali e delle
corporazioni professionali. La rivoluzione non fu soltanto la nascita di
nuove istituzioni. Fu anche un enorme terremoto al vertice dello Stato
che ebbe per risultato, nel giro di pochissimi anni, l’apparizione di
una nuova classe dirigente.
Era inevitabile che questo gigantesco
«rimpasto» suscitasse un’ondata di piccole e grandi ambizioni. Senza la
rivoluzione Charles-Maurice de Talleyrand Périgord, vescovo di Autun,
sarebbe divenuto cardinale e si sarebbe distinto soprattutto per le sue
spiccate doti mondane nei salotti di Parigi; mentre il piccolo Joseph
Fouché avrebbe fatto una mediocre carriera nei collegi religiosi (dove
insegnava matematica e latino) e nei ranghi minori delle gerarchie
ecclesiastiche. Ma gli Stati Generali, convocati da Luigi XVI nel giugno
del 1789, schiusero nuove prospettive, mentre il Terrore, quando i
giacobini conquistarono il potere, istillò nei più intraprendenti una
inebriante miscela di scaltrezza, audacia e voglia di vivere.
Per
alcuni mesi, fra il 1792 e il 1794, la selezione di questa nuova classe
dirigente avvenne principalmente grazie alla fuga della nobiltà dalla
Francia rivoluzionaria e allo sfrenato uso di uno strumento che il
deputato Guillotin aveva brevettato per ragioni umanitarie e per la
gioia della plebe parigina. Fu così che dopo il soprassalto
contro-rivoluzionario di Termidoro, nel luglio del 1794, Talleyrand e
Fouché poterono cominciare, ciascuno a suo modo, la scalata del potere.
In
Il Diavolo zoppo e il suo Compare (Marsilio) Alessandra Necci descrive
brillantemente questi percorsi intrecciandoli con quelli della storia
francese e europea sino al ritorno dei Borbone sul trono di Francia e,
per Talleyrand, sino alla fine della sua vita durante il regno di Luigi
Filippo.
Il giudizio sui protagonisti del suo libro è spesso severo.
Talleyrand è uno spregiudicato libertino. Ha offeso la sua Chiesa con
leggi, come quella sulla costituzione civile del clero, che in altri
tempi avrebbero meritato il rogo. Non ha mai smesso, nemmeno quando
ancora diceva messa nella sua diocesi o sul campo di Marte, a Parigi,
nella prima fase della rivoluzione, di passare da un letto all’altro. È
venale e ha sempre approfittato dei suoi incarichi pubblici per
accumulare una cospicua fortuna. Ha tradito tutti i suoi «datori di
lavoro»: la Chiesa, il re, Barras, Napoleone. Fouché è spregevole. Ha
fatto carriera, durante il Terrore massacrando i cittadini di Lione, ha
avvolto la Francia in una fitta rete di spie, ha cospirato con i nemici
del governo ogni qualvolta il potere cominciava a traballare.
Eppure
il libro chiarisce bene le ragioni per cui i due personaggi
sopravvissero alla scomparsa dei regimi di cui erano autorevoli
servitori. Talleyrand fu uno dei più acuti e disincantati osservatori
della politica nazionale e internazionale, spesso il primo ad accorgersi
che l’evoluzione degli avvenimenti esigeva un rapido cambiamento di
rotta. Fouché fu un eccezionale ministro di polizia, depositario di
tutti i segreti del regime, infallibile scopritore e orditore di
congiure e complotti. Napoleone non li usò perché sapevano corteggiare e
adulare, ma perché erano, ciascuno nel suo mestiere, i migliori.
Dovremmo considerare tradimento, quindi, la relazione segreta di
Talleyrand con lo zar Alessandro nella fase del declino imperiale tra la
campagna di Spagna e quella di Russia? Dovremmo considerare tradimento
l’agilità con cui Fouché saltò sul carro dei Borbone dopo la sconfitta
di Waterloo?
Nel caso del ministro di polizia la parola è
probabilmente appropriata. Ma nel caso di Talleyrand il giudizio mi
sembra troppo sommario. Sarebbe stato tradimento se in quella fase
turbolenta della storia francese il vescovo spretato non avesse
dimostrato, sin dai primi passi della sua carriera politica, di essere
fedele soprattutto a se stesso e alla propria intelligenza. A chi lo
accusava di avere tradito Luigi XVI avrebbe potuto ricordare l’udienza
durante la quale aveva esortato il re a interrompere coraggiosamente la
deriva rivoluzionaria sciogliendo gli Stati generali. A chi lo accusava
di avere tradito Bonaparte, avrebbe potuto rispondere che il continuo
ricorso alla guerra stava coalizzando l’Europa contro la Francia ed era
ormai una minaccia per il futuro del Paese. Se i padroni si dimostravano
incapaci di fare un buon uso della sua intelligenza, era una colpa
abbandonarli al loro destino?
Fouché sopravvisse durante la
Restaurazione, ma aveva votato per la morte durante il processo a Luigi
XVI, era inviso ai Borbone, fu proscritto nel 1818 e morì due anni dopo a
Trieste. Talleyrand invece rese ancora due servizi al suo Paese. A
Vienna, nel 1814, ottenne che i vincitori (Inghilterra, Russia, Prussia e
Paesi Bassi) lasciassero alla Francia i confini del 1792. A Londra,
dove fu ambasciatore dal 1830 al 1834, dopo l’ascesa al trono di Luigi
Filippo, vinse un’altra battaglia, lavorando con gli inglesi alla
creazione di un nuovo Stato: il Belgio neutrale. Vi era ancora un
padrone tradito, la Chiesa Romana, con cui lo scomunicato vescovo di
Autun non aveva ancora fatto i conti.
Fu un negoziato durissimo, condotto sul letto di morte, ma alla fine Dio cedette e gli consentì di morire con l’estrema unzione.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento