lunedì 13 aprile 2015

Gelij Koržev


























Il realismo oltre quello socialista 

La straordinaria avventura poetica e stilistica di Gelij Koržev Cantore sovietico, pittore di derelitti, interprete di Goya e Bosch 

Domenica 12 Aprile, 2015 LA LETTURA

Prendi la linea verde della metropolitana dal centro di Mosca e dopo poche fermate scendi a Paveleckaja. Dalla stazione emergi a Zamoskvorec’e, un quartiere non ancora periferico ma certo non rilucente come il cuore un po’ kitsch della capitale. In dieci minuti a piedi raggiungi un complesso di fabbriche tessili riadattato a centro commerciale secondo uno stile non ignoto anche da noi. Lì, un grande murale che raffigura in modo inequivocabile una famiglia sorridente con lo sguardo teso al sol dell’avvenire ti indirizza verso l’Istituto dell’Arte Realista Russa, un museo aperto alla fine del 2011. Nelle sale disposte su tre piani si trova la più grande raccolta al mondo di questo tipo di tendenza: tutta proveniente, al contrario di quello che uno penserebbe, da collezioni private. 
Nella pinacoteca, sorvegliata da custodi sonnacchiosi che sembrano loro stessi installazioni di gusto sovietico, ci trovi quello che ti immagini; ma non solo. Insieme agli Stalin benedicenti e alle celebrazioni del lavoro, decine di opere articolano in modo profondo il radicamento del realismo russo nella tradizione, di cui quella socialista è solo una delle tante varianti. 
E poi c’è la sorpresa: le sale dedicate a Gelij Koržev (1925-2012). A prima vista Koržev è il tipico esponente della pittura comunista degli anni 50 e 60. Il suo ciclo di grandi dipinti sulla guerra gli procurò fama e onori sovietici: venne dichiarato Artista del Popolo e nominato membro ufficiale dell’Accademia delle Arti Russe. I suoi quadri venivano trasformati in edificanti soggetti per cartoline, come il famoso Amanti . Però, guardando bene, anche nelle opere di questo periodo di pittura ufficiale Koržev — al quale la Galleria Tret’jakov di Mosca dedicherà il prossimo anno una grande retrospettiva — dimostra un approccio particolare, ricco di risonanze per niente realiste o celebrative. Spesso i suoi personaggi hanno poco di eroico, sembrano tutti piuttosto colti sulla soglia di un dubbio, di un turbamento. Se c’è esibizione di patriottismo, come nel ritratto di un soldato col volto sfigurato dalla guerra, il dipinto adombra domande molto più oscure sul senso del vivere e del morire. 
Ma la vera sorpresa arriva nelle sale che raccolgono i lavori di Koržev posteriori alla caduta del comunismo. Da una parte si intuisce che il pittore non si è pentito della sua fede politica. Dall’altra — ed è ciò che a livello artistico lo rende davvero interessante — è che Koržev non ha mai cambiato il suo stile. L’ha soltanto adattato al mutamento dei tempi: e così il rapporto tra forma e contenuto produce risultati del tutto inattesi. La rappresentazione grafica è sempre quella ispirata ai canoni del realismo socialista: tagli di inquadratura frontali oppure espressionisticamente forzati; una pittura vigorosa; dimensioni dei quadri sempre imponenti, da parete di luogo pubblico piuttosto che da salotto. Ma non ci sono più i kolkhoziani dal sorriso radioso o i soldati frementi di amor patrio: ci sono gli ubriachi, i kommunalki impoveriti, le madri che ricevono la lettera con cui viene comunicata la sottrazione del figlio per indigenza… Il titolo di alcuni lavori tradisce un intento polemico: il ritratto di un uomo steso per terra lungo la strada con una bottiglia di vodka vuota in mano si intitola Svegliati, Ivan! Ma le immagini comunicano altro rispetto alla semplice denuncia sociale: sono vertiginosi cortocircuiti tra la citazione formale di un mondo passato e la violenta rappresentazione della contemporaneità. Un tipo con la barba lunga che parla in un telefono giallo sembra l’avatar di un personaggio di Edward Hopper riapparso inaspettatamente in un condominio sulle rive della Neva. E una magnifica serie di nudi di donne del popolo — goffe, sovrappeso, trasandate — trasmette una malinconia astrale, ma anche un tangibile affetto per l’umanità. 
Non è un caso che proprio durante gli anni 90 Koržev sviluppi compiutamente un ciclo, abbozzato nei 70, dedicato a Don Chisciotte, personaggio con il quale — nella Russia degli oligarchi — l’artista ormai settantenne deve aver sentito una forte consonanza. L’eroe di Cervantes è l’archetipo del sognatore sconfitto ma alla fine immortale, come immortali sono i suoi ideali. Koržev gli dà le fattezze del padre, un famoso architetto paesaggista, fiero e malinconico, talvolta steso a terra ammaccato e pesto. Così come dello stesso periodo sono una serie di scene dalla vita di Cristo. Un soprassalto religioso? Chissà. Però una deposizione chiarisce le cose, con un ulteriore giro di vite stilistico. La donna che compiange il crocefisso non ha nulla di melodrammatico o trascendente. Guarda attonita e rassegnata il cadavere come chi osserva un caduto in guerra. E il cerchio si chiude. Koržev dimostra che il suo vero interesse sta negli sconfitti, e in questa luce la sua fase «classica» cambia senso. 
Se uno poi va a visitare il sito della fondazione a lui dedicata (http://korzhev.com), fa una scoperta ancora più sorprendente. Già con la perestrojka l’ex campione del realismo socialista si mette a dipingere quadri che potrebbero essere firmati dal Goya dei Caprichos . Le fattezze umane delle figure ingobbiscono, diventano flaccide, si deformano. Al posto delle teste compaiono becchi d’uccello. Strani esseri mutanti mezzi uomini e mezze bestie si ritrovano a consumare arcani incontri. In un grande tela, una creatura armata di spada che sembra uscita da un incubo di Hieronymus Bosch si dà convegno con dei soldati in mimetica e due tipi a torso nudo che ricordano i vecchi video di Ciprì e Maresco. In un altro, un mostriciattolo orribilmente dentato abbraccia la sua vittima (o ci sta lottando, visto che quest’ultimo indossa delle mutande da wrestling) e contemporaneamente la morde alla spalla. Si sente tutta l’angoscia di Koržev per un mondo impazzito, brutale e assurdo dove, per tornare inesorabilmente a Goya, «il sonno della ragione genera mostri». 
In un angolo buio dell’ultima sala del museo trovi un quadro, più piccolo degli altri, che raffigura una falce e martello. Si intitola Natura morta : e suona come una perfetta epigrafe.

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