Risvolto
La storia della nostra cucina è parte
imprescindibile della nostra storia complessiva e non meno importante
rispetto all'economia e alla politica che, nel corso del tempo, ne hanno
segnato il passo. Come non pensare all'alimentazione degli italiani
nell'immediato dopoguerra o nel momento in cui il boom economico degli
anni Sessanta aveva instillato nella società aspettative e speranze che
trovavano a tavola la loro naturale epifania? Una storia a tratti
complessa e drammatica, che a volte si legge come una sorta di trattato
di antropologia ben documentato (com'eravamo e come siamo diventati a
tavola e nei confronti del cibo) e altre come un piccolo compendio della
storia dell'editoria gastronomica, con numerose incursioni nel cinema,
nel mondo dei blogger e della TV, con i nuovi canali del digitale
terrestre (finestre sempre aperte sulla gastronomia e sul modo di
comunicarla nel resto del mondo). Un libro per gli appassionati, i
ricercatori e i semplici curiosi.
Da "La Gola" a "Slow Food" di Petrini la sinistra conquistò il centro della tavola negli anni Ottanta, in epoca di riflusso
Camillo Langone - Mar, 07/04/2015
"La tv ha rovinato la cucina, lo chef non lavora al circo"
Al re dei fornelli non piace la nuova moda che ha stregato i giovani: «Pensano sia un mestiere facile ma serve fatica, studio e tanta umiltà Cracco e Oldani? Allievi, non discepoli»Mimmo Di Marzio - il Giornale Mar, 07/04/2015
"La tv ha rovinato la cucina, lo chef non lavora al circo"
Al re dei fornelli non piace la nuova moda che ha stregato i giovani: «Pensano sia un mestiere facile ma serve fatica, studio e tanta umiltà Cracco e Oldani? Allievi, non discepoli»Mimmo Di Marzio - il Giornale Mar, 07/04/2015
Dopo le polemiche sui compensi del curatore Celant apre Arts & Foods. Effetto Euro-Disney ma c'è da divertirsi
Luca Beatrice
- Mer, 08/04/2015
Eatalyanità Fenomenologia di Oscar Farinetti
di Gilberto Corbellini Il Sole Domenica 12.4.15
Oscar Farinetti, ex mister Unieuro e oggi patron di Eataly, ha quasi preso il posto di Mike Bongiorno nell’immaginario collettivo del Paese. Come prototipo dell’italiano di successo. Per Umberto Eco, autore di un memorabile saggio sulla “fenomenologia” del grande Mike, questi incarnava con le sue memorabili gaffe la mediocrità dell’uomo medio, ed era questa la fonte del suo successo. Farinetti racchiude quel mix di presunzione disinformata, simpatica aggressività da piazzista, vittimismo di fronte alle critiche, furberia e intrallazzi politico-amicali che è la cifra dell’irresponsabilità del self made man italiota. Che si fa giustamente e bellamente gli affari suoi, ma vuole allo stesso tempo apparire un modello etico.
Intervistato da un Giovanni Minoli apparentemente perplesso e professionalmente incalzante, di fronte alla domanda se avrebbe preferito guadagnarsi gli 8mila mq di Expo attraverso una gara pubblica piuttosto che per assegnazione diretta come è avvenuto, ha risposto che gli va bene così. Cosa poteva dire? Non è colpa sua se qualcuno gli ha fatto un “regalo”.
Ora però egli preferirebbe non dover avere a che fare con le critiche che gli sarebbero mosse da persone erose internamente da un “rospo”, cioè dall’invidia per il suo successo. Che ci sia di mezzo una questione di legalità, nemmeno lo sfiora. Ovvero preferirebbe vivere in un altro Paese. Evidentemente in un paese ancora meno civile di questo. Perché dove la legge fosse davvero uguale per tutti, lui e molti altri non sarebbero riusciti a imporre a una politica incompetente di trasformare l’occasione unica di EXPO2015 in una patetica, nostalgica e tragicamente fallimentare fiera paesana – perché questo è il rischio che si sta correndo - che si propone come antitesi dell’innovazione.
Nel corso dell’intervista è riuscito anche a dire che si usa «troppa scienza e coscienza». Quindi, il suo sogno sarebbe di tornare al medioevo, all’età dell’ignoranza e dell’irrazionalità, o anche più indietro. Forse nelle sue fantasie di onnipotenza ci vede come sudditi da lasciar manipolare ai giullari e ciarlatani che ronzano intorno questuando prebende, cioè ai bravi narratori del vuoto che sembran dei cloni (altro che biodiversità). Quando mi capita di ascoltare o leggere Farinetti o simili capisco perché molti fra i giovani migliori a cui ho insegnato non sono più in Italia e perché, se non cambia rapidamente qualcosa, probabilmente molti altri non vorranno trascorrere qui la loro vita.
Viaggio intorno al cibo: i rituali della tavola e l'invasione "aliena"
Dimenticate i compensi stellari, la mostra di Celant farà la storia
Ma chissenefrega dei compensi stellari del curatore, la mostra Arts&Foods è bellissima e passerà alla storia
La Commedia del cibo dallo stomaco all’anima
Alla Triennale di Milano si inaugura oggi “Arts&Foods” la grande mostra curata da Germano Celant in occasione dell’Expo. Dai coltelli dei cannibali alle installazioni di Fischer un percorso tra i rituali dell’alimentazione dal 1851 ad oggi Rocco Moliterni La Stampa 8 4 2015
«Sia laudato il nome di Albina in tutte le sante cucine del Paradiso. Questo piatto di uova è un meraviglioso capolavoro» così Gabriele d’Annunzio scriveva in una lettera alla sua cuoca che campeggia dietro la Zambracca, la scrivania-studio-tavolo del Vate collocata da Germano Celant a metà della prima sezione di «Arts&Foods». L’imponente mostra curata dal padre dell’Arte Povera (non poche polemiche ci furono l’anno scorso sul suo costo e sul compenso del curatore) si apre oggi alla Triennale come «primo padiglione di Expo Milano 2015».
L’esposizione vuol essere «un’indagine sul rapporto tra le arti e i diversi rituali del cibo nel mondo» dal 1851 ad oggi e offrire «una lettura storica dell’influenza estetica e funzionale dell’alimentazione sui linguaggi della creatività, un percorso in cui l’arte in tutte le sue forme si incontra con i temi della nutrizione». Non basta una visita al cantiere ancora aperto con lavori sovente senza didascalie per dire se gli obiettivi siano centrati pienamente oppure no. Certo il dispiegamento di 2000 opere d’arte visiva, architettura, design, scultura, arti applicate, fotografia, cinema è spettacolare. Si direbbe che Celant abbia realizzato la sua Divina Commedia sul cibo, in tre sezioni, che grosso modo corrispondono anche alle diverse percezioni che del cibo abbiamo avuto dal 1851 ad oggi.
La cuoca del Vate
D’Annunzio citava il Paradiso nella lettera alla sua cuoca e si può anche dire che la prima sezione (nella Curva della Triennale) sia quella, dal 1851 alla fine della seconda guerra mondiale, della visione «paradisiaca» del cibo. Il cibo agognato da chi non ce l’ha e messo in scena dalle classi borghesi in ascesa. La mostra si apre con la cucina di una famiglia povera accanto a quella di una famiglia borghese dell’800. In questa prima sezione abbondano gli ambienti e tra cucine art deco, futuriste, cubiste si rimane incantati.
Il macellaio
Ci sono anche le case d’avanguardia progettate da Jean Prouvé e quelle firmate da Le Corbusier, ma non mancano la ricostruzione di una bottega di macellaio, una cucina da campo militare e anche un caffè della Belle Epoque. Molti qui i quadri dell’800 e del ’900 non solo italiano, da Ensor a De Nittis, da Léger a Braque, da Kirchner a Morandi, ci sono ceramiche di Picasso e Fontana, molte le collezioni di utensili, dai coltelli (anche quelli usati dai cannibali) ai frullatori. A ricordarci la nascita o l’affermarsi ben prima di Masterchef della figura sociale del cuoco c’è Le chef Père Paul di Monetdel 1882 accanto allo Chef de l’Hotel Chatam di Parigi realizzato da William Orpen nel 1921.
La seconda sezione, nella Galleria Aulenti, possiamo immaginarla (grazie anche ai colori acidi delle pareti, in primis il giallo, scelti da Italo Rota che firma l’intero allestimento), come una sorta di Purgatorio.
La pop-art di Warhol
Qui c’è il trionfo della Pop Art di Warhol, Wasselmann, Lichtenstein, Oldenburg. Ci sono tanto un Eat luminoso di Richard Indiana, quanto un geniale omaggio di George Segal a Cézanne, John Cage che raccoglie funghi, le scatolette di Beuys, le cozze di Marcel Broodthaers. Il cibo ormai è un prodotto industriale e nella sua serialità inizia a mettere un po’ di inquietudine (magari dà anche qualche problema fisico come ricorda la pubblicità del digestivo Antonetto firmata da Armando Testa). Certo almeno in Italia si passa in pochi anni dal ragazzo che porta il pane a Matera (la splendida foto Anni 50 di Nino Migliori) al boom dei supermercati e dei carrelli riempiti di ogni ben di Dio. Fa tenerezza una foto Anni 70 di Ghirri dove nella Trattoria da Salso, in qualche posto in Emilia, c’è un pranzo fisso a mille lire e gli spaghetti al pomodoro sono segnati in carta sotto le «minestre» .
L’ultima sezione è quella dove il cibo nel mondo a cavallo del terzo millennio si è trasformato, per molti artisti, quasi in un inferno. Certo c’è ancora spazio per i giochi surreali di De Dominicis con la sua Mozzarella in carrozza e i sogni spiazzanti di Sandy Skoglund, ma ben presto si passa agli incubi, che siano le foto di ragazze obese (di Jen Davis) o quelle di bambini africani denutriti (di McCullin). Ci sono le modelle vagamente anoressiche di Vanessa Beecroft (la celebre performance al Castello di Rivoli) e la catena di montaggio di una fabbrica di «polli». La donna nei confronti del cibo non ha più la gioia della massaia Anni 60 come ci dicono gli Home Works di Miles Aldridge. E inquietanti sono sia la Casa di
pane di Urs Fischer, dove le favole non sembrano destinate a buon fine, quanto il gigantesco hamburger di Tom Friedman.
Senza profumi
Non rassicuranti sono gli hot dog antropomorfizzati di Oppenheim così come la donna che torna dalla spesa di Ron Mueck. Forse solo nei Paesi orientali il cibo è ancora dolce nostalgia come ci ricordano le installazioni di Gupta, ma già la rappresentazione che ne fa Tiravanjia non ti fa star bene. Altrettanto si può dire di Shonibare e dei grandi quadri di Jeff Koons. Per non parlare dei fratelli Chapman.
Per chi ama oltre l’arte anche il cibo si avverte in questa mostra ricchissima un’assenza: sono i profumi e gli odori sui quali Celant l’anno scorso in sede di presentazione aveva annunciato un percorso ad hoc. Sembrano una magra consolazione la Personal Cloaca di Wim Delvoye, che a regime dovrebbe odorare realisticamente o il profumo del pane o del caffè che emaneranno dalle installazioni di Penone e di Kounellis.
Il manifesto contadino del barone ingleseLunedì 13 Aprile, 2015 CORRIERE DELLA SERA
Nell’era del biologico a tutti i costi, nel secolo in cui le legittime aspettative verso un’agricoltura sana e un’alimentazione salubre si diffondono sempre più e danno addirittura vita al mercato parallelo dei falsi cibi bio, rileggere il testo di uno dei fondatori dell’ organic farming ha un sapore particolare.
Pochi sanno che Lord Northbourne — al secolo Walter Ernest Christopher James (1896-1982), quarto barone nell’omonima contea di Kent — è stato un teorico dell’ecosostenibilità e uno degli ispiratori della passione del Principe Carlo per l’agricoltura biologica. Degna di plauso è, dunque, la scelta di pubblicare — 75 anni dopo la sua prima uscita — la traduzione italiana di Considera la terra (Castelvecchi): un manifesto dei bio contadini, un saggio che anticipava la degenerazione del rapporto tra uomo e terra alla vigilia della grande industrializzazione delle campagne.
Contrario alla chimica in agricoltura, Lord Northbourne — ecologista ante litteram e appassionato studioso di religioni — tracciava, tre quarti di secolo fa, una guida alla tutela della terra, lanciando moniti contro gli errori dell’agricoltura intensiva, ipotizzando tecniche di coltura compatibili con il rispetto dell’ambiente.
Precursore della moderna «permacoltura» e del ritorno alla produzione a chilometro zero, Northbourne disegna una visione dell’agricoltura bio non scevra da una profonda analisi spirituale nella quale Dio, l’Umanità e il Suolo (inteso come «entità vivente») sono un’unità inscindibile. Ma analizza anche i danni che il «potere distruttivo degli interessi del mondo finanziario», con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, avrebbe portato (e ancora porta) all’«agricoltura frugale» in pace con la natura.
Le cornucopie del consumismo Alimentazione. Un’intervista con Wolf Bukowski, autore del volume «La danza delle mozzarelle», una serrata e documentata critica del modello Eataly, i templi dell’alimentazione di qualità fondati sulla precarietà lavorativa e sui rapporti di dipendenza dei piccoli produttoriSamir Hassan e Alessandro Barile, il Manifesto 15.4.2015
Nella prime pagine de La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre), Il libro di Wolf Bukowski, blogger e «esperto» di cultura alimentare, compare una lista di nomi e sigle fin troppo note. Ci sono il Partito Democratico, Slow Food, Matteo Renzi, Lega Coop, Benetton, Eataly: sono loro i protagonisti del volume. Se si trattasse di una trama lineare e fiabesca sarebbero i cattivi di tutte le storie che iniziano con «c’era una volta». I personaggi con le sopracciglia aggrottate e un ghigno sinistro, perennemente arrabbiati. E arrabbiati lo sono, perché le pagine scritte da Wolf Bukowski, vegetariano seppur bolognese, (s)parlano di loro. E di come la retorica del consumo che stanno producendo sia uno tsunami da fermare prima che infranga la cultura alimentare di qualità.
Un’inchiesta, una denuncia, una serrata critica politica: come definirebbe il suo libro?
Non si tratta di un’inchiesta. Mi piace pensarla, semmai, come una storia del presente che si pone l’obiettivo di mettere a nudo il punto di vista in base al quale Petrini e Farinetti hanno costruito il proprio impero economico: cambiare il modo di mangiare significa cambiare la società. In meglio.
Sono molti gli spunti che hai trattato in questo libro. Da dove e quando nasce l’idea di questa pubblicazione?
L’occasione più prossima che ha dato il là al progetto editoriale (curato da Wu Ming1, consulente editoriale della collana «Tempi moderni» delle edizioni Alegre, NdR) è stato un post che ho fatto su Giap, il sito dei Wu Ming, a proposito di Eataly a Bologna, del progetto Fico (Fabbrica Italiana Contadina), della «Disneyland del cibo». Poi tutto è andato come ha recentemente raccontato Wu Ming 1: la necessità di un ragionamento complessivo, di un filo che tenesse uniti il renzismo e il farinettismo, di una critica serrata alla precarietà che c’è dietro la facciata di queste operazioni, quella stessa manodopera a basso costo che ritroviamo nella vicenda dell’Expo di Milano».
Nella ricostruzione che lei fa – che segue un filo cronologico dagli anni ’80 ad oggi – dopo i passaggi sulla Torino di Eataly, sulla Bologna terra di conquista della Coop, affronta anche l’Expo 2015 di Milano…
È stato fin troppo facile dedicare la parte finale di questo ragionamento alla questione dell’Expo. Anzitutto perché Slow Food è dentro questo progetto che ha proprio tutte le caratteristiche del grande evento come siamo soliti intenderlo noi in Italia: cementificazione selvaggia, rapporti lavorativi all’insegna della precarietà, esaltazione del lavoro volontario come paradigma e sperimentazione di nuove forme di schiavitù salariata. Ma soprattutto ci è dentro in maniera trainante, prima avendo sottoscritto il manifesto dell’Expo dei Popoli che vuole «rappresentare la complessità della società civile impegnata sui temi della sovranità alimentare, del diritto al cibo, all’acqua, alla terra e alle altre risorse». Poi per l’adesione critica all’Expo: nel dicembre 2013 presentano la partecipazione all’Esposizione Universale di Slow Food, cinque mesi dopo Petrini ritratta definendo Expo una «ferita sul territorio», fino ad arrivare a giugno scorso quando annuncia la partecipazione critica.
Tra i punti di partenza del suo ragionamento c’è il recupero della critica che Gramsci fece a Feuerbach a proposito dell’affermazione «l’uomo è ciò che mangia». In un certo senso la critica di Gramsci oggi sarebbe rivolta a Farinetti, non crede?
La critica gramsciana è di un’attualità incredibile. Ciò che quella narrazione tossica ignora è che una società migliore, più equa, non passa dal cambio delle abitudini alimentari, come se questo fosse un processo meccanico. La possibilità di cambiare il modello di consumo è legata alla possibilità economica di consumare. Le situazioni di sfruttamento, i rapporti produttivi che ancora oggi regolano le azioni di mercato, non permettono a chi lavora di accedere a quel paniere così esoso, così moralmente giusto.
Facendo un giro tra gli scaffali di Eataly sembra quasi che debba essere migliore ed equo ciò che costa a caro prezzo…
Purtroppo si. Il concetto di migliore non può essere legato esclusivamente a parametri economici. Insomma, il fatto è che non si può dire che se spendo di più contribuisco a rendere migliore questo mondo. Non è vero, anche perché persiste un’iniquità che non è legata solo al fattore alimentare, ma riguarda l’accesso al reddito, al diritto all’abitare e a tanto altre cose puntualmente ignorate.
Il titolo del testo è davvero curioso, e sembra nascondere una certa ilarità. Quali i motivi che l’hanno portata a sceglierlo?
Verso la fine del libro racconto un aneddoto che è indicativo di come questo mondo migliore ci viene spacciato e dell’importanza del modo in cui viene raccontato. Lo scorso anno, alla Festa dell’Unità di Bologna, un agricoltore siciliano chiese a Farinetti come fosse possibile che il grossista pagasse 70 centesimi per la sua uva, ritrovandola poi nei negozi a prezzo quintuplicato. Per tutta risposta, Farinetti ignorò la domanda e iniziò una lunga filippica sul concetto di narrazione, affermando che un prodotto non ha valore se tu non si è capaci di narrarlo. Aggiunse poi l’esempio della mozzarella di bufala, lavorata al mattino e rivenduta nel giro della giornata per mantenerne la freschezza: secondo lui l’immediatezza della transazione sarebbe stata frutto di una migliore narrazione del prodotto.
Questo ci dice due cose. Prima di tutto, Farinetti imputa agli agricoltori l’incapacità di narrare e quindi di saper vendere i prodotti al giusto prezzo. Un modo come tanti per far pesare la gravità dello sfruttamento contadino su chi ne è egli stesso vittima. In più è un modo subdolo di narrare anche i rapporti sociali che risiedono in una merce. Raccontare la storia delle mozzarelle è stato un modo per eludere i processi materiali di sfruttamento che risiedono dietro quella produzione di merce, un modo per far si che quei rapporti sociali fossero in linea con l’interesse padronale.
Una delle caratteristiche forti del libro è la critica a quella sinistra complice di aver partecipato allo sdoganamento del Farinetti-pensiero. E tra queste complicità viene citata anche quella del «Gambero Rosso», nel 1986 inserto de il manifesto e poi diventata attività editoriale che ha preso un’altra strada..
Negli anni Ottanta la sinistra italiana si cullava nell’idea che il conflitto fosse sparito, che c’erano ancora piccole sacche di sfruttamento da combattere, ma che il più fosse fatto. In questo senso, il Gambero Rosso ha partecipato a questo processo in cui l’ossessione per il cibo ha assunto un significato di redenzione e appagamento taumaturgico. Nel testo però faccio notare come questo passaggio epocale, che in nuce nascondeva il germe di quello che poi è diventato in Slow Food, non fosse stato privo di ripercussioni. Sia Petrini che Stefano Bonilli (allora direttore del Gambero Rosso, Ndr) raccontano come tra molti redattori e lettori del giornale serpeggiava una sorta di malumore. Bonilli, in particolare, cita le testimonianze di alcuni edicolanti secondo cui «c’era gente che comprava il manifesto, teneva l’inserto e buttava il giornale. Succedeva anche il contrario per la verità. Cioè tenevano il giornale e buttavano l’inserto». Posso confessare che da adolescente io ero uno di quelli che teneva in tasca solo il giornale.
Le radici antiche di un produttivismo dal volto benevolo Alimentazione. "La danza delle mozzarelle" di Wolf Bukowski per Edizioni Alegre Samir Hassan e Alessandro Barile, il Manifesto 15.4.2015
L’uso di metafore sul cibo e sulla nutrizione rappresentano un esercizio stilistico che aiuta a comprendere meglio i tempi in cui viviamo. Tutto sembra ruotare intorno al mangiare: siamo letteralmente invasi non solo da programmi tv e via internet legati al cibo, ma da una retorica che trasforma un certo modo di mangiare in un certo modo di pensare e di vivere. Mangiare davanti la Tv, mentre assaporiamo reality sul cibo, sul trend cooking. Oggi come ieri ignoriamo che l’accesso al cibo e ad una alimentazione variegata sono la proiezione nella società del nostro status, attraverso cui leggere e collocare socialmente ed economicamente le nostre abitudini alimentari. Mangio tanto e di più, perché posso. Perché non mangiare anche meglio, allora?
Dietro questa confusa convinzione si sviluppa da un paio di decenni il terreno su cui, a partire dalla metà degli anni Ottanta, le tesi di Slow Food e di Eataly ha trovato consensi. Una costruzione che ha lavorato sull’immaginario prima ancora che sulle abitudini alimentari della gente, e che Wolf Bukowski, bolognese e guest blogger di Giap (sito dei Wu Ming), ha preso di petto nella suo libro La danza delle mozzarelle (Alegre, euro 14).
Nella ricostruzione che Bukowski mette a punto viene chiamata sul banco degli imputati la narrazione di un modello scientemente viziato dall’assunto che oggi, in Italia, la spesa per l’alimentazione è in forte calo, segnando una forte controtendenza con quanto ad esempio avveniva nel decennio degli anni Settanta. L’autore, e qui risiede uno dei maggiori pregi della sua documentata arringa, sgonfia la portata di questa vulgata puntando fin dalle prime pagine non solo a smentirla con numeri e fonti, ma anche smascherando l’idea di fondo di questo nuovo produttivismo benevolo: non si mira tanto ad una cambio radicale dei modi di consumo, quanto ad un incremento del consumo stesso. In altre parole, non c’è nessuna «etica rivoluzionaria» dietro le strategie di marketing improntante sulla logica «seminare, distribuire e consumare in maniera buona, pulita e giusta», a maggior ragione se non avviene nessun meccanismo di rottura con le pratiche di sfruttamento e precarizzazione che si articolano nella filiera produttiva. Ed è proprio nella parte introduttiva del testo che Bukowski centra il punto, richiamando la critica mossa da Gramsci all’affermazione di Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia».
D’altronde, proprio al modello produttivo inerente il brand Eataly afferisce la contraddizione principale tra una narrazione apparentemente progressista e una sostanza concretamente simile al resto della produzione demodé. Dietro la patina nuovista, farinettiana, si celano i soliti rapporti di lavoro precario, sfruttato, mai indeterminato e mai garantito, ma sempre just in time. Il tutto al fine di una produzione d’elite, circoscritta a quel pezzo di società che può permettersi di entrare e acquistare prodotti economicamente alla portata di pochi. Un modello che si è puntualmente trasposto nella costruzione fisica e immaginaria dell’Expo, su cui oggi si sta interrogando il variegato mondo della sinistra: non a caso il Jobs Act renziano non fa altro che recepire quelle sperimentazioni contrattuali attuate nel «laboratorio Expo».
Quella galassia che Wolf Bukowski, all’inizio del libro, ha citato in giudizio perché complice di aver sdoganato le retoriche su cui poi il modello i Farinetti ha proliferato. In questo testo c’è dunque un’analisi che punta a svelare il fatto che la retorica dietro il modello di Eataly è un vero e propri inno al consumismo. Di come la sinistra, intesa come patrimonio comune, possa oggi fare opera di demistificazione ai tempi del turbocapitalismo. Una sinistra che dovrà fare tesoro di riflessioni come quelle che Bukowski ha avuto il coraggio di condividere con lei, andando oltre la patina del politicamente corretto, anche quando riguarda un tema apparentemente secondario come il cibo.
Eatalyanità Fenomenologia di Oscar Farinetti
di Gilberto Corbellini Il Sole Domenica 12.4.15
Oscar Farinetti, ex mister Unieuro e oggi patron di Eataly, ha quasi preso il posto di Mike Bongiorno nell’immaginario collettivo del Paese. Come prototipo dell’italiano di successo. Per Umberto Eco, autore di un memorabile saggio sulla “fenomenologia” del grande Mike, questi incarnava con le sue memorabili gaffe la mediocrità dell’uomo medio, ed era questa la fonte del suo successo. Farinetti racchiude quel mix di presunzione disinformata, simpatica aggressività da piazzista, vittimismo di fronte alle critiche, furberia e intrallazzi politico-amicali che è la cifra dell’irresponsabilità del self made man italiota. Che si fa giustamente e bellamente gli affari suoi, ma vuole allo stesso tempo apparire un modello etico.
Intervistato da un Giovanni Minoli apparentemente perplesso e professionalmente incalzante, di fronte alla domanda se avrebbe preferito guadagnarsi gli 8mila mq di Expo attraverso una gara pubblica piuttosto che per assegnazione diretta come è avvenuto, ha risposto che gli va bene così. Cosa poteva dire? Non è colpa sua se qualcuno gli ha fatto un “regalo”.
Ora però egli preferirebbe non dover avere a che fare con le critiche che gli sarebbero mosse da persone erose internamente da un “rospo”, cioè dall’invidia per il suo successo. Che ci sia di mezzo una questione di legalità, nemmeno lo sfiora. Ovvero preferirebbe vivere in un altro Paese. Evidentemente in un paese ancora meno civile di questo. Perché dove la legge fosse davvero uguale per tutti, lui e molti altri non sarebbero riusciti a imporre a una politica incompetente di trasformare l’occasione unica di EXPO2015 in una patetica, nostalgica e tragicamente fallimentare fiera paesana – perché questo è il rischio che si sta correndo - che si propone come antitesi dell’innovazione.
Nel corso dell’intervista è riuscito anche a dire che si usa «troppa scienza e coscienza». Quindi, il suo sogno sarebbe di tornare al medioevo, all’età dell’ignoranza e dell’irrazionalità, o anche più indietro. Forse nelle sue fantasie di onnipotenza ci vede come sudditi da lasciar manipolare ai giullari e ciarlatani che ronzano intorno questuando prebende, cioè ai bravi narratori del vuoto che sembran dei cloni (altro che biodiversità). Quando mi capita di ascoltare o leggere Farinetti o simili capisco perché molti fra i giovani migliori a cui ho insegnato non sono più in Italia e perché, se non cambia rapidamente qualcosa, probabilmente molti altri non vorranno trascorrere qui la loro vita.
Viaggio intorno al cibo: i rituali della tavola e l'invasione "aliena"
Giuseppe Matarazzo Avvenire 23 aprile 2015
Dimenticate i compensi stellari, la mostra di Celant farà la storia
Ma chissenefrega dei compensi stellari del curatore, la mostra Arts&Foods è bellissima e passerà alla storia
Luigi Mascheroni
- il Giornale Mer, 08/04/2015
La Commedia del cibo dallo stomaco all’anima
Alla Triennale di Milano si inaugura oggi “Arts&Foods” la grande mostra curata da Germano Celant in occasione dell’Expo. Dai coltelli dei cannibali alle installazioni di Fischer un percorso tra i rituali dell’alimentazione dal 1851 ad oggi Rocco Moliterni La Stampa 8 4 2015
«Sia laudato il nome di Albina in tutte le sante cucine del Paradiso. Questo piatto di uova è un meraviglioso capolavoro» così Gabriele d’Annunzio scriveva in una lettera alla sua cuoca che campeggia dietro la Zambracca, la scrivania-studio-tavolo del Vate collocata da Germano Celant a metà della prima sezione di «Arts&Foods». L’imponente mostra curata dal padre dell’Arte Povera (non poche polemiche ci furono l’anno scorso sul suo costo e sul compenso del curatore) si apre oggi alla Triennale come «primo padiglione di Expo Milano 2015».
L’esposizione vuol essere «un’indagine sul rapporto tra le arti e i diversi rituali del cibo nel mondo» dal 1851 ad oggi e offrire «una lettura storica dell’influenza estetica e funzionale dell’alimentazione sui linguaggi della creatività, un percorso in cui l’arte in tutte le sue forme si incontra con i temi della nutrizione». Non basta una visita al cantiere ancora aperto con lavori sovente senza didascalie per dire se gli obiettivi siano centrati pienamente oppure no. Certo il dispiegamento di 2000 opere d’arte visiva, architettura, design, scultura, arti applicate, fotografia, cinema è spettacolare. Si direbbe che Celant abbia realizzato la sua Divina Commedia sul cibo, in tre sezioni, che grosso modo corrispondono anche alle diverse percezioni che del cibo abbiamo avuto dal 1851 ad oggi.
La cuoca del Vate
D’Annunzio citava il Paradiso nella lettera alla sua cuoca e si può anche dire che la prima sezione (nella Curva della Triennale) sia quella, dal 1851 alla fine della seconda guerra mondiale, della visione «paradisiaca» del cibo. Il cibo agognato da chi non ce l’ha e messo in scena dalle classi borghesi in ascesa. La mostra si apre con la cucina di una famiglia povera accanto a quella di una famiglia borghese dell’800. In questa prima sezione abbondano gli ambienti e tra cucine art deco, futuriste, cubiste si rimane incantati.
Il macellaio
Ci sono anche le case d’avanguardia progettate da Jean Prouvé e quelle firmate da Le Corbusier, ma non mancano la ricostruzione di una bottega di macellaio, una cucina da campo militare e anche un caffè della Belle Epoque. Molti qui i quadri dell’800 e del ’900 non solo italiano, da Ensor a De Nittis, da Léger a Braque, da Kirchner a Morandi, ci sono ceramiche di Picasso e Fontana, molte le collezioni di utensili, dai coltelli (anche quelli usati dai cannibali) ai frullatori. A ricordarci la nascita o l’affermarsi ben prima di Masterchef della figura sociale del cuoco c’è Le chef Père Paul di Monetdel 1882 accanto allo Chef de l’Hotel Chatam di Parigi realizzato da William Orpen nel 1921.
La seconda sezione, nella Galleria Aulenti, possiamo immaginarla (grazie anche ai colori acidi delle pareti, in primis il giallo, scelti da Italo Rota che firma l’intero allestimento), come una sorta di Purgatorio.
La pop-art di Warhol
Qui c’è il trionfo della Pop Art di Warhol, Wasselmann, Lichtenstein, Oldenburg. Ci sono tanto un Eat luminoso di Richard Indiana, quanto un geniale omaggio di George Segal a Cézanne, John Cage che raccoglie funghi, le scatolette di Beuys, le cozze di Marcel Broodthaers. Il cibo ormai è un prodotto industriale e nella sua serialità inizia a mettere un po’ di inquietudine (magari dà anche qualche problema fisico come ricorda la pubblicità del digestivo Antonetto firmata da Armando Testa). Certo almeno in Italia si passa in pochi anni dal ragazzo che porta il pane a Matera (la splendida foto Anni 50 di Nino Migliori) al boom dei supermercati e dei carrelli riempiti di ogni ben di Dio. Fa tenerezza una foto Anni 70 di Ghirri dove nella Trattoria da Salso, in qualche posto in Emilia, c’è un pranzo fisso a mille lire e gli spaghetti al pomodoro sono segnati in carta sotto le «minestre» .
L’ultima sezione è quella dove il cibo nel mondo a cavallo del terzo millennio si è trasformato, per molti artisti, quasi in un inferno. Certo c’è ancora spazio per i giochi surreali di De Dominicis con la sua Mozzarella in carrozza e i sogni spiazzanti di Sandy Skoglund, ma ben presto si passa agli incubi, che siano le foto di ragazze obese (di Jen Davis) o quelle di bambini africani denutriti (di McCullin). Ci sono le modelle vagamente anoressiche di Vanessa Beecroft (la celebre performance al Castello di Rivoli) e la catena di montaggio di una fabbrica di «polli». La donna nei confronti del cibo non ha più la gioia della massaia Anni 60 come ci dicono gli Home Works di Miles Aldridge. E inquietanti sono sia la Casa di
pane di Urs Fischer, dove le favole non sembrano destinate a buon fine, quanto il gigantesco hamburger di Tom Friedman.
Senza profumi
Non rassicuranti sono gli hot dog antropomorfizzati di Oppenheim così come la donna che torna dalla spesa di Ron Mueck. Forse solo nei Paesi orientali il cibo è ancora dolce nostalgia come ci ricordano le installazioni di Gupta, ma già la rappresentazione che ne fa Tiravanjia non ti fa star bene. Altrettanto si può dire di Shonibare e dei grandi quadri di Jeff Koons. Per non parlare dei fratelli Chapman.
Per chi ama oltre l’arte anche il cibo si avverte in questa mostra ricchissima un’assenza: sono i profumi e gli odori sui quali Celant l’anno scorso in sede di presentazione aveva annunciato un percorso ad hoc. Sembrano una magra consolazione la Personal Cloaca di Wim Delvoye, che a regime dovrebbe odorare realisticamente o il profumo del pane o del caffè che emaneranno dalle installazioni di Penone e di Kounellis.
Il manifesto contadino del barone ingleseLunedì 13 Aprile, 2015 CORRIERE DELLA SERA
Nell’era del biologico a tutti i costi, nel secolo in cui le legittime aspettative verso un’agricoltura sana e un’alimentazione salubre si diffondono sempre più e danno addirittura vita al mercato parallelo dei falsi cibi bio, rileggere il testo di uno dei fondatori dell’ organic farming ha un sapore particolare.
Pochi sanno che Lord Northbourne — al secolo Walter Ernest Christopher James (1896-1982), quarto barone nell’omonima contea di Kent — è stato un teorico dell’ecosostenibilità e uno degli ispiratori della passione del Principe Carlo per l’agricoltura biologica. Degna di plauso è, dunque, la scelta di pubblicare — 75 anni dopo la sua prima uscita — la traduzione italiana di Considera la terra (Castelvecchi): un manifesto dei bio contadini, un saggio che anticipava la degenerazione del rapporto tra uomo e terra alla vigilia della grande industrializzazione delle campagne.
Contrario alla chimica in agricoltura, Lord Northbourne — ecologista ante litteram e appassionato studioso di religioni — tracciava, tre quarti di secolo fa, una guida alla tutela della terra, lanciando moniti contro gli errori dell’agricoltura intensiva, ipotizzando tecniche di coltura compatibili con il rispetto dell’ambiente.
Precursore della moderna «permacoltura» e del ritorno alla produzione a chilometro zero, Northbourne disegna una visione dell’agricoltura bio non scevra da una profonda analisi spirituale nella quale Dio, l’Umanità e il Suolo (inteso come «entità vivente») sono un’unità inscindibile. Ma analizza anche i danni che il «potere distruttivo degli interessi del mondo finanziario», con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, avrebbe portato (e ancora porta) all’«agricoltura frugale» in pace con la natura.
Le cornucopie del consumismo Alimentazione. Un’intervista con Wolf Bukowski, autore del volume «La danza delle mozzarelle», una serrata e documentata critica del modello Eataly, i templi dell’alimentazione di qualità fondati sulla precarietà lavorativa e sui rapporti di dipendenza dei piccoli produttoriSamir Hassan e Alessandro Barile, il Manifesto 15.4.2015
Nella prime pagine de La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre), Il libro di Wolf Bukowski, blogger e «esperto» di cultura alimentare, compare una lista di nomi e sigle fin troppo note. Ci sono il Partito Democratico, Slow Food, Matteo Renzi, Lega Coop, Benetton, Eataly: sono loro i protagonisti del volume. Se si trattasse di una trama lineare e fiabesca sarebbero i cattivi di tutte le storie che iniziano con «c’era una volta». I personaggi con le sopracciglia aggrottate e un ghigno sinistro, perennemente arrabbiati. E arrabbiati lo sono, perché le pagine scritte da Wolf Bukowski, vegetariano seppur bolognese, (s)parlano di loro. E di come la retorica del consumo che stanno producendo sia uno tsunami da fermare prima che infranga la cultura alimentare di qualità.
Un’inchiesta, una denuncia, una serrata critica politica: come definirebbe il suo libro?
Non si tratta di un’inchiesta. Mi piace pensarla, semmai, come una storia del presente che si pone l’obiettivo di mettere a nudo il punto di vista in base al quale Petrini e Farinetti hanno costruito il proprio impero economico: cambiare il modo di mangiare significa cambiare la società. In meglio.
Sono molti gli spunti che hai trattato in questo libro. Da dove e quando nasce l’idea di questa pubblicazione?
L’occasione più prossima che ha dato il là al progetto editoriale (curato da Wu Ming1, consulente editoriale della collana «Tempi moderni» delle edizioni Alegre, NdR) è stato un post che ho fatto su Giap, il sito dei Wu Ming, a proposito di Eataly a Bologna, del progetto Fico (Fabbrica Italiana Contadina), della «Disneyland del cibo». Poi tutto è andato come ha recentemente raccontato Wu Ming 1: la necessità di un ragionamento complessivo, di un filo che tenesse uniti il renzismo e il farinettismo, di una critica serrata alla precarietà che c’è dietro la facciata di queste operazioni, quella stessa manodopera a basso costo che ritroviamo nella vicenda dell’Expo di Milano».
Nella ricostruzione che lei fa – che segue un filo cronologico dagli anni ’80 ad oggi – dopo i passaggi sulla Torino di Eataly, sulla Bologna terra di conquista della Coop, affronta anche l’Expo 2015 di Milano…
È stato fin troppo facile dedicare la parte finale di questo ragionamento alla questione dell’Expo. Anzitutto perché Slow Food è dentro questo progetto che ha proprio tutte le caratteristiche del grande evento come siamo soliti intenderlo noi in Italia: cementificazione selvaggia, rapporti lavorativi all’insegna della precarietà, esaltazione del lavoro volontario come paradigma e sperimentazione di nuove forme di schiavitù salariata. Ma soprattutto ci è dentro in maniera trainante, prima avendo sottoscritto il manifesto dell’Expo dei Popoli che vuole «rappresentare la complessità della società civile impegnata sui temi della sovranità alimentare, del diritto al cibo, all’acqua, alla terra e alle altre risorse». Poi per l’adesione critica all’Expo: nel dicembre 2013 presentano la partecipazione all’Esposizione Universale di Slow Food, cinque mesi dopo Petrini ritratta definendo Expo una «ferita sul territorio», fino ad arrivare a giugno scorso quando annuncia la partecipazione critica.
Tra i punti di partenza del suo ragionamento c’è il recupero della critica che Gramsci fece a Feuerbach a proposito dell’affermazione «l’uomo è ciò che mangia». In un certo senso la critica di Gramsci oggi sarebbe rivolta a Farinetti, non crede?
La critica gramsciana è di un’attualità incredibile. Ciò che quella narrazione tossica ignora è che una società migliore, più equa, non passa dal cambio delle abitudini alimentari, come se questo fosse un processo meccanico. La possibilità di cambiare il modello di consumo è legata alla possibilità economica di consumare. Le situazioni di sfruttamento, i rapporti produttivi che ancora oggi regolano le azioni di mercato, non permettono a chi lavora di accedere a quel paniere così esoso, così moralmente giusto.
Facendo un giro tra gli scaffali di Eataly sembra quasi che debba essere migliore ed equo ciò che costa a caro prezzo…
Purtroppo si. Il concetto di migliore non può essere legato esclusivamente a parametri economici. Insomma, il fatto è che non si può dire che se spendo di più contribuisco a rendere migliore questo mondo. Non è vero, anche perché persiste un’iniquità che non è legata solo al fattore alimentare, ma riguarda l’accesso al reddito, al diritto all’abitare e a tanto altre cose puntualmente ignorate.
Il titolo del testo è davvero curioso, e sembra nascondere una certa ilarità. Quali i motivi che l’hanno portata a sceglierlo?
Verso la fine del libro racconto un aneddoto che è indicativo di come questo mondo migliore ci viene spacciato e dell’importanza del modo in cui viene raccontato. Lo scorso anno, alla Festa dell’Unità di Bologna, un agricoltore siciliano chiese a Farinetti come fosse possibile che il grossista pagasse 70 centesimi per la sua uva, ritrovandola poi nei negozi a prezzo quintuplicato. Per tutta risposta, Farinetti ignorò la domanda e iniziò una lunga filippica sul concetto di narrazione, affermando che un prodotto non ha valore se tu non si è capaci di narrarlo. Aggiunse poi l’esempio della mozzarella di bufala, lavorata al mattino e rivenduta nel giro della giornata per mantenerne la freschezza: secondo lui l’immediatezza della transazione sarebbe stata frutto di una migliore narrazione del prodotto.
Questo ci dice due cose. Prima di tutto, Farinetti imputa agli agricoltori l’incapacità di narrare e quindi di saper vendere i prodotti al giusto prezzo. Un modo come tanti per far pesare la gravità dello sfruttamento contadino su chi ne è egli stesso vittima. In più è un modo subdolo di narrare anche i rapporti sociali che risiedono in una merce. Raccontare la storia delle mozzarelle è stato un modo per eludere i processi materiali di sfruttamento che risiedono dietro quella produzione di merce, un modo per far si che quei rapporti sociali fossero in linea con l’interesse padronale.
Una delle caratteristiche forti del libro è la critica a quella sinistra complice di aver partecipato allo sdoganamento del Farinetti-pensiero. E tra queste complicità viene citata anche quella del «Gambero Rosso», nel 1986 inserto de il manifesto e poi diventata attività editoriale che ha preso un’altra strada..
Negli anni Ottanta la sinistra italiana si cullava nell’idea che il conflitto fosse sparito, che c’erano ancora piccole sacche di sfruttamento da combattere, ma che il più fosse fatto. In questo senso, il Gambero Rosso ha partecipato a questo processo in cui l’ossessione per il cibo ha assunto un significato di redenzione e appagamento taumaturgico. Nel testo però faccio notare come questo passaggio epocale, che in nuce nascondeva il germe di quello che poi è diventato in Slow Food, non fosse stato privo di ripercussioni. Sia Petrini che Stefano Bonilli (allora direttore del Gambero Rosso, Ndr) raccontano come tra molti redattori e lettori del giornale serpeggiava una sorta di malumore. Bonilli, in particolare, cita le testimonianze di alcuni edicolanti secondo cui «c’era gente che comprava il manifesto, teneva l’inserto e buttava il giornale. Succedeva anche il contrario per la verità. Cioè tenevano il giornale e buttavano l’inserto». Posso confessare che da adolescente io ero uno di quelli che teneva in tasca solo il giornale.
Le radici antiche di un produttivismo dal volto benevolo Alimentazione. "La danza delle mozzarelle" di Wolf Bukowski per Edizioni Alegre Samir Hassan e Alessandro Barile, il Manifesto 15.4.2015
L’uso di metafore sul cibo e sulla nutrizione rappresentano un esercizio stilistico che aiuta a comprendere meglio i tempi in cui viviamo. Tutto sembra ruotare intorno al mangiare: siamo letteralmente invasi non solo da programmi tv e via internet legati al cibo, ma da una retorica che trasforma un certo modo di mangiare in un certo modo di pensare e di vivere. Mangiare davanti la Tv, mentre assaporiamo reality sul cibo, sul trend cooking. Oggi come ieri ignoriamo che l’accesso al cibo e ad una alimentazione variegata sono la proiezione nella società del nostro status, attraverso cui leggere e collocare socialmente ed economicamente le nostre abitudini alimentari. Mangio tanto e di più, perché posso. Perché non mangiare anche meglio, allora?
Dietro questa confusa convinzione si sviluppa da un paio di decenni il terreno su cui, a partire dalla metà degli anni Ottanta, le tesi di Slow Food e di Eataly ha trovato consensi. Una costruzione che ha lavorato sull’immaginario prima ancora che sulle abitudini alimentari della gente, e che Wolf Bukowski, bolognese e guest blogger di Giap (sito dei Wu Ming), ha preso di petto nella suo libro La danza delle mozzarelle (Alegre, euro 14).
Nella ricostruzione che Bukowski mette a punto viene chiamata sul banco degli imputati la narrazione di un modello scientemente viziato dall’assunto che oggi, in Italia, la spesa per l’alimentazione è in forte calo, segnando una forte controtendenza con quanto ad esempio avveniva nel decennio degli anni Settanta. L’autore, e qui risiede uno dei maggiori pregi della sua documentata arringa, sgonfia la portata di questa vulgata puntando fin dalle prime pagine non solo a smentirla con numeri e fonti, ma anche smascherando l’idea di fondo di questo nuovo produttivismo benevolo: non si mira tanto ad una cambio radicale dei modi di consumo, quanto ad un incremento del consumo stesso. In altre parole, non c’è nessuna «etica rivoluzionaria» dietro le strategie di marketing improntante sulla logica «seminare, distribuire e consumare in maniera buona, pulita e giusta», a maggior ragione se non avviene nessun meccanismo di rottura con le pratiche di sfruttamento e precarizzazione che si articolano nella filiera produttiva. Ed è proprio nella parte introduttiva del testo che Bukowski centra il punto, richiamando la critica mossa da Gramsci all’affermazione di Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia».
D’altronde, proprio al modello produttivo inerente il brand Eataly afferisce la contraddizione principale tra una narrazione apparentemente progressista e una sostanza concretamente simile al resto della produzione demodé. Dietro la patina nuovista, farinettiana, si celano i soliti rapporti di lavoro precario, sfruttato, mai indeterminato e mai garantito, ma sempre just in time. Il tutto al fine di una produzione d’elite, circoscritta a quel pezzo di società che può permettersi di entrare e acquistare prodotti economicamente alla portata di pochi. Un modello che si è puntualmente trasposto nella costruzione fisica e immaginaria dell’Expo, su cui oggi si sta interrogando il variegato mondo della sinistra: non a caso il Jobs Act renziano non fa altro che recepire quelle sperimentazioni contrattuali attuate nel «laboratorio Expo».
Quella galassia che Wolf Bukowski, all’inizio del libro, ha citato in giudizio perché complice di aver sdoganato le retoriche su cui poi il modello i Farinetti ha proliferato. In questo testo c’è dunque un’analisi che punta a svelare il fatto che la retorica dietro il modello di Eataly è un vero e propri inno al consumismo. Di come la sinistra, intesa come patrimonio comune, possa oggi fare opera di demistificazione ai tempi del turbocapitalismo. Una sinistra che dovrà fare tesoro di riflessioni come quelle che Bukowski ha avuto il coraggio di condividere con lei, andando oltre la patina del politicamente corretto, anche quando riguarda un tema apparentemente secondario come il cibo.
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