sabato 4 aprile 2015

Intensité, umilté

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Avrei voluto allenare Hemingway 

“Amo il suo spirito di avventura perché io, invece, sono stanziale, ma in panchina terrei Lady Chatterley e i fratelli Karamazov” 
Paolo Brusorio Tuttolibri 4 4 2015

«Avevo in mente di scrivere qualcosa prima che subentrasse l’arteriosclerosi, ma aspettavo di farlo alla fine della mia carriera. Poi mi sono chiesto, ma quando finirà questa carriera? E allora ho deciso di mettere nero su bianco la mia vita e i miei pensieri senza attendere altro tempo». Opere e missioni (pure qualche omissione) di Arrigo Sacchi, ex allenatore del Milan che tutto vinse, ex ct della Nazionale che tutto perse (il Mondiale ’94) per un rigore finito nel cielo di Pasadena: in Calcio totale c’è questo, ma ci sono soprattutto i principi che ne hanno fatto l’uomo più discusso del pallone italiano. O stai con lui o contro di lui: da sempre, da quando ha spaccato in due il calcio. Monacale e maniacale. Prima di Sacchi/dopo Sacchi. Nei secoli e nei secoli.
Ma in questo libro sono più le storie taciute o quelle raccontate?
«Ho detto molto, cercando di non offendere le persone. Sa come si dice, un po’ corre il cane, un po’ corre la lepre. La vita è già così complessa e difficile, chi sono io per renderla ancora più complicata? Vorrei vivere in un mondo migliore e invece siamo circondati dai barbari e la civiltà è tornata ai margini».
Nel libro racconta di Alfredo Belletti, l’uomo che le ha segnato la gioventù, «mi diceva cosa leggere mi consigliava autori e romanzi.....». Che cosa leggeva il giovane Arrigo Sacchi prima di farsi rapire dal pallone?
«Alfredo mi ha aperto un mondo con i suoi consigli. Faceva il bibliotecario e aveva a disposizione tutto il sapere in quella stanza di Fusignano, il mio paese. Leggevo, anzi, divoravo: ero capace di passare da Moravia a Faulkner, da Calvino a Hesse, da Dostoevskij a Hemingway. Tutto questo prima di finire inghiottito dal calcio».
Fermiamoci un attimo. Della sua golosità letteraria, che ricordi le sono rimasti?
«Leggevo con voracità, ero affascinato dai fratelli Karamazov ma anche - e come dargli torto - da Lady Chatterley. Ricordo una collana di classici che costava 150 lire, ne avrò comprati 300 numeri».
Poi è come se fosse finita la spensieratezza: il calcio e il suo modo di intenderlo fa così a pugni con l’immaginazione e la riflessione?
«Sembra assurdo, lo so. Ma in molte occasioni leggere mi sembrava solo il modo migliore per rubare tempo al mio lavoro. Così ho cominciato a collezionare libri sul calcio, ne ho oltre un migliaio. Capivo che non erano la stessa cosa, ma in qualche modo dedicarmi a loro era l’unico modo per tenere viva una passione, la lettura, e una passione diventata lavoro, il pallone».
Un libro sportivo che l’ha colpita?
«Tra i più recenti, Open, la storia della vita di Agassi».
Ha odiato anche lei il calcio come lui fece con il tennis?
«No, ho amato e amo il calcio fortissimamente. Ma ne sono stato ossessionato, solo così ho potuto raggiungere la perfezione. Per questo sono sempre stato in minoranza».
«Non c’è arte senza ossessione»: citazione di Cesare Pavese contenuta nel suo libro. Che cosa hanno in comune un romagnolo come Sacchi e uno spirito sofferente come Pavese?
«Un giorno un tifoso mi disse, sapendo della mia passione per Pavese, che un uomo con queste letture non poteva che essere pessimista. Io in quelle pagine ci trovo grande sensibilità, non pessimismo. Spero di averne ereditata un po’».
Quali libri girano tra i calciatori? Soprattutto, girano libri tra i calciatori?
«Pochissimi. Pietro Paolo Virdis, attaccante del Milan, aveva sempre in mano un libro, uno di Hermann Hesse se ricordo bene. Ma la sensazione è che fosse sempre lo stesso...».
Tradotto: è un mondo ignorante quello del calcio?
«Diciamo che non fa nulla per non sembrarlo. Quando allenavo i giovani della Fiorentina dissi a un ragazzo, “guarda che per giocare a calcio non serve essere Einstein” e lui mi rispose “e chi è Einstein, un giocatore tedesco?”».
Davvero non serve l’intelligenza per essere calciatore?
«No, scherzavo. Serve eccome. Il calcio nasce dall’intelletto e non dai piedi. Il talento viene dopo, molto dopo».
Il calcio sarebbe un mondo migliore se circolassero più libri e meno playstation, più idee e meno cinguettii?
«Credo proprio di si. Io avevo molta fretta da giovane e con un libro in mano mi sembrava di perdere tempo, per rimediare a quell’errore ho dovuto studiare per quarant’anni. Senza cultura hai una visione ristretta della vita, il sapere ti fa vivere nel futuro. Ti fa stare davanti agli altri».
Come un certo Arrigo Sacchi che, ancora ai più sconosciuto, predicava e insegnava già un calcio visionario, più immaginifico che immaginario. Sensazioni che ha ritrovato in quali letture?
«Cito a caso tra le mie preferite. Furore, La ragazza di Bube. E poi Gli Indifferenti e Il vecchio e il mare».
Uno scrittore che le sarebbe piaciuto conoscere tra quelli che ha letto?
«Dico sicuramente Hemingway. Affascinante e ammaliante, dotato di uno spirito avventuriero che io, pur avendo viaggiato molto, non ho mai avuto. Il mio è sempre stato un animo stanziale, parto infelice e torno felice. Sa che non ho mai terminato una vacanza da bambino? Dopo un po’ avevo la necessità di rivedere casa, di ritrovarmi tra le cose che conoscevo meglio. Fondamentalmente sono una persona molto timida».
Che senza il calcio...?
«Un mio amico mi disse che se non avessi tradotto sul campo le mie idee, sarei finito a fare la rivoluzione sulle Ande, ma io non ne sono così sicuro. Per fortuna sono riuscito a trasformare una passione nel mio lavoro. E così ho mantenuto le radici a Fusignano». 
L’ombelico del suo mondo dove è tornato dopo tanto girare tra le panchine. Trofei e sconfitte, un monte di elogi che se la giocano con le critiche (e non sempre vincono). Che altro si è portato nel suo ritiro preferito Arrigo Sacchi?
«Quello che mi disse un giorno Riccardo Muti, “lei è il maestro della sinfonia calcistica”. Povera la mia professoressa, si rivolterà nella tomba».

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