lunedì 27 aprile 2015
La Royal Society e la nascita della scienza moderna
Andrea Frova e Mariapiera Marenzana: Newton & Co. geni bastardi. Rivalità e dispute agli albori della fisica, prefazione di Piergiorgio Odifreddi, Carocci
Risvolto
Sullo sfondo tormentato e vitale dell’Inghilterra del XVII secolo –
guerre civili, regicidio e tirannia, peste e incendio di Londra – si
stagliano le figure dei padri fondatori della Royal Society, con le loro
vicende biografi che e conquiste intellettuali. Ingegni sublimi, ma
soggetti a umane e talora meschine passioni, che li indussero a opporsi
l’un l’altro talora con sorprendente acrimonia. Dallo sconcertante
“divino” Newton al poliedrico ma dispersivo Hooke, dal pio astronomo
reale Flamsteed al mondano Halley, dal grande architetto Wren al nobile
Leibniz, e poi Huygens, Hevelius e altri ancora. Il libro illustra i
traguardi scientifici di quei geni e i loro difficili ma stimolanti
rapporti anche con i maggiori scienziati che operavano in Francia,
Germania e Olanda. Erano gli anni in cui la scienza, nata in Italia con
Galileo, emigrava in quei paesi dove, benché afflitta talora da alchimia
e superstizione religiosa, Trovava un terreno propizio allo sviluppo di
un metodo di ricerca rigoroso.
Che baruffe tra scienziati
Newton contro Hooke, l’aspra rivalità che accelerò il progresso del sapere Andrea
Frova e Mariapiera Marenzana, in un saggio pubblicato da Carocci,
ricostruiscono le vicende della Royal Society inglese nel corso del
Seicento Un’autentica rivoluzione avanzò fra gelosie, ripicche ed esperimenti crudeli
di Paolo Mieli Corriere 27.4.15
Un’epidemia
di peste (1665), un incendio che devastò Londra (1666) e una serie
pressoché infinita di imprevedibili dissapori, di assai meschine
calunnie, di rivalità tra geni condotte all’esasperazione, furono il
contesto in cui nacque la modernità scientifica. Bubboni e fiamme,
assieme ai benefici effetti della rivoluzione cromwelliana, conclusasi
all’inizio degli anni Sessanta del Seicento, diedero una formidabile
spinta alla ricostruzione del Paese. Il clima di selvaggia competizione
all’interno della Royal Society fece il resto.
La Royal Society fu
fondata nel 1660 e l’anno successivo fu riconosciuta dal sovrano
d’Inghilterra Carlo II, che era tornato dall’Olanda per prendere il
posto di Carlo I Stuart, il «re martire» giustiziato da Cromwell nel
1649. Grazie a questa Società e alla nascita delle prime riviste
scientifiche, gli scienziati dell’epoca iniziarono a interagire tra loro
in modo strutturato. Ed è a questo particolarissimo frangente storico
che è dedicato lo straordinario libro di Andrea Frova e Mariapiera
Marenzana Newton & Co. geni bastardi (con una brillante prefazione
di Piergiorgio Odifreddi), in uscita domani per Carocci. Galileo
Galilei, ricordano gli autori, era morto nel 1642, lo stesso anno in cui
era nato Newton: «Una sorta di epocale passaggio di testimone nel campo
della scienza». Il «magnifico circolo dei devoti discepoli di Galileo» —
i vari Cavalieri, Torricelli, Castelli, Viviani e altri — aveva dato un
apporto fondamentale alla diffusione in Europa del metodo scientifico
«fertile di sviluppi e conquiste». Ma poi la scienza in Italia andò
declinando. Perché? Le condizioni della penisola, «percorsa e devastata
da eserciti stranieri, politicamente divisa» assieme all’«abiura di
Galileo e alla presenza minacciosa dell’Inquisizione», la «mancanza di
interesse per la scienza da parte dei vari sovrani più disposti a
finanziare artisti e poeti di corte, la progressiva perdita di influenza
delle potenze marinare Genova e Venezia (che avrebbero potuto
costituire stimoli all’avanzamento scientifico e tecnologico)» furono,
secondo i due storici, i principali fattori «che contribuirono a un
ripiegamento provinciale su se stesso del Paese, incapace di tenere il
passo con quanto accadeva nel resto d’Europa, in Francia, in Olanda e
più ancora in Inghilterra».
Qui viene naturale un’obiezione: anche in
Inghilterra la situazione politica nel XVII secolo era tesissima, le
contese religiose erano più che infuocate, drammatici furono gli eventi
bellici e politici, più che precaria la situazione economica… Perché
allora questo boom della scienza ai tempi di Carlo II? Il fatto è,
mettono in rilievo Frova e Marenzana, che «il regno, pur con molte
difficoltà, riuscì a superare le crisi e ad acquistare stabilità». E
senso di sé. L’espansione coloniale, inoltre, portò ricchezze e
conoscenze, stimoli per la scienza e per le sue applicazioni pratiche,
che favorirono l’interesse e l’appoggio dei governanti. Isaac Newton,
Robert Hooke e gli altri membri della Royal Society si trovarono a
vivere questo particolare e stimolante momento storico e, in concorrenza
con la Francia, «assicurarono all’Inghilterra il primato di grandi
invenzioni e scoperte». Tutto ciò «malgrado la frequente mancanza di
rispetto delle regole fondamentali della ricerca scientifica, ossia
cooperazione e correttezza». Si svilupparono così tra quegli scienziati
«scontri violenti nati da invidie e rivalità, da questioni di priorità e
prestigio, ma anche da ambizioni di carriera e di guadagno». Nonché
«dal sopravvivere, persino in geni della statura di Newton e Robert
Boyle, di atteggiamenti di pensiero e di pratiche prescientifiche,
alchemiche, causa ulteriore di fratture, reticenze e sospetti». Al punto
che i due autori si domandano se «non fu piuttosto proprio questa
competitività esasperata che valse a stimolare le menti e ad acuire
l’inventiva e l’impegno».
Subito dopo la conclusione della guerra
civile, John Wilkins — «un carismatico intellettuale e uomo di Chiesa,
che era passato con successo dalla funzione di cappellano nella casa
reale a quella di influente accademico durante il periodo repubblicano
di Cromwell» — aveva raccolto attorno a sé un gruppo di persone che
veniva chiamato Oxford Esperimental Philosophy Group, di cui facevano
parte «studiosi di varia provenienza, senza distinzioni politiche o
ideologiche». All’epoca della rivoluzione, Wilkins seppe usare la sua
influenza per dare una moderna impronta scientifica e matematica alla
vita intellettuale dell’Università di Oxford. Fu lui, in seguito, che
assieme ad altri undici studiosi del suo circolo, tra cui Christopher
Wren e Robert Boyle, diede vita alla Royal Society, il cui motto poteva
essere sintetizzato nelle parole di un loro lontano ispiratore, Francis
Bacon (1561-1626), padre dell’empirismo scientifico: «Dio ci vieta di
proporre una fantasia nata dalla nostra immaginazione come una
descrizione del mondo».
Il principio ispiratore della Royal Society
era che alle informazioni dovesse essere garantita la massima
circolazione. La comunicazione doveva prendere il sopravvento e la
segretezza avrebbe dovuto essere bandita. La comunicazione, poi, doveva
«liberarsi dalla vuota eloquenza che aveva caratterizzato i filosofi del
passato: via ogni artificio verbale, via ogni forma di retorica».
Concretezza e semplicità avrebbero dovuto dettare legge e quando fosse
stato possibile si doveva ricorrere al linguaggio della matematica. Il
motto della Royal Society, Nullius in Verba , ossia «sulla parola di
nessuno», stava a sottolineare «la determinazione dei fondatori di
stabilire i fatti secondo il metodo sperimentale, ossia alla maniera di
Galileo, e di procedere nell’indagine scientifica in modo oggettivo,
ignorando l’influenza della tradizione scolastica, della politica e
anche della religione, benché diversi tra i membri fossero alti
prelati».
La Royal Society non produsse solo grandi scoperte. La
sperimentazione ebbe anche un volto che i due autori non esitano a
definire «criminale». Hooke, ad esempio, fece esperimenti d’ogni tipo,
«talvolta di dubbio valore scientifico — come nel caso di alcune crudeli
dimostrazioni su animali, che peraltro eseguiva controvoglia — per
soddisfare la curiosità dei soci scientificamente meno competenti e
motivati». Una volta «dovette aprire la cassa toracica di un cane per
vedere quanto sarebbe sopravvissuto grazie al semplice pompaggio di aria
nei polmoni (in certo senso il primo tentativo di respirazione
artificiale), ma fu così disturbato dalla vicenda che in seguito si
rifiutò di ripetere un tale esperimento». Hooke si rifiutò poi di
partecipare all’«esperimento Coga»: uno studente molto povero, Arthur
Coga, accettò il 26 novembre 1667, per il compenso di una ghinea, che il
medico Richard Lower e altri membri della Società — su suggerimento del
vescovo di Salisbury — gli iniettassero sangue di pecora. Il paziente
«non parve mostrare alcuna conseguenza negativa, e lo stesso accadde
alla ripetizione dell’esperimento, tre settimane più tardi, di fronte a
un diverso pubblico non meno eccitato del precedente». La notizia si
sparse per tutta l’Europa, e la sperimentazione fu ripetuta più e più
volte: «spesso, però, con esiti fatali». Il che, scrivono gli autori,
«getta qualche ombra sulla veridicità del resoconto ufficiale in merito
al caso Coga, conservato nei registri della Royal Society».
Qualcosa
di esemplare ebbe luogo nel dicembre di quello stesso 1667 a Parigi, nel
palazzo del «nobile e ricchissimo» Henry-Louis Habert de Montmor, che
aveva fondato una libera accademia scientifica che portava il suo nome
(tra i membri figuravano Pierre Gassendi, Marin Mersenne, Christiaan
Huygens). In quel palazzo, il medico Jean-Baptiste Denis e il barbiere
chirurgo Paul Emmerez procedettero alla trasfusione del sangue di un
vitello ad un clochard mentalmente instabile, Antoine Mauroy. Denis
sosteneva che tale operazione «avrebbe permesso di rendere l’uomo
placido quanto un vitello». Una folla di «medici, chirurghi e altri
osservatori, per lo più aristocratici», assistette all’evento. Che fu
ripetuto, due giorni dopo, visto il «buon esito» della prima esperienza.
Quattro mesi più tardi Mauroy morì e Denis fu sottoposto a processo per
omicidio. Processo che si concluse con un’assoluzione, perché Denis
riuscì a «dimostrare» che Mauroy era stato avvelenato con l’arsenico
dalla moglie. Ma lo stesso Denis non dovette essere del tutto convinto
dalle sue argomentazioni difensive e abbandonò la pratica medica. E
anche gli altri scienziati si persuasero che quel genere di trasfusione
non fosse proficua. Tant’è che fu messa al bando dapprima in Francia
(1670), poi in Gran Bretagna e successivamente in quasi tutti gli altri
Paesi europei. Solo nel 1829, l’ostetrico inglese James Blundell
dimostrò l’efficacia della trasfusione tra esseri umani, ma erano
trascorsi 160 anni. È interessante notare, poi, come alla base dei
divieti alla fine del Seicento non era tanto «la pietà per le vittime,
quanto il timore che la mescolanza di sangue di specie diverse potesse
minare la purezza del genere umano e condurre alla creazione di esseri
abnormi». In un’era in cui, scrivono Frova e Marenzana, «i confini tra
scienza, magia e superstizione non erano ancora ben definiti, ci si
chiedeva se per caso gli uomini non avrebbero cominciato a muggire, o
magari i vitelli a parlare».
Ma non fu su questo che si litigò
all’interno della Royal Society. Furono semmai differenze di carattere e
di comportamento. Newton fu quasi un asceta (Voltaire nel 1773 scrisse
che non aveva mai «avvicinato» una donna). Hooke invece, assieme a
Christopher Wren e Edmond Halley, era un gran frequentatore di coffee
houses , seduceva abitualmente le domestiche, nonché la figlia di suo
fratello, la nipote Grace, con la quale convisse fino alla prematura
morte di lei nel 1684. Newton e Hooke, secondo i due autori, «non
avrebbero mai potuto andare d’accordo, né cercare di comporre le loro
controversie in maniera civile e utile alla scienza oltre che a sé
stessi».
L’avversione di Newton nei confronti del più anziano collega
«crebbe nel tempo a tal punto che, divenuto nel 1703 presidente della
Royal Society — carica cui giunse, secondo alcuni, brigando in varie
maniere — egli pose il massimo impegno nel far sparire ogni traccia di
Hooke, morto quello stesso anno». Compresi i ritratti, tant’è che oggi
«nessuno è in grado di dire con sicurezza quali fossero le fattezze di
Hooke». E non furono, i loro, dissidi dettati solo da divergenze, per
così dire, d’ordine morale. Newton scrisse a Halley per denunciare
Hooke: «È accettabile che un uomo che pensa di saperla lunga e ama
dimostrarlo correggendo e istruendo il suo prossimo, venga da voi quando
siete impegnato, e, nonostante le vostre scuse, vi assilli con discorsi
e vi corregga attraverso i suoi stessi errori, e dopo discorsi e ancora
discorsi si vanti di avervi insegnato tutto ciò di cui vi ha parlato e
vi obblighi a dargliene riconoscimento, gridando all’offesa e
all’ingiustizia se non lo fate? Penso che lo giudichereste una persona
afflitta da uno strano temperamento asociale». Oggi, scrivono i due
autori, è evidente che Newton e Hooke «pur nella loro diversità avevano
entrambi caratteri difficili e, per dirla secondo l’uso inglese che si
fa di questo vocabolo nel mondo della competizione professionale, anche
scientifica, erano entrambi dei bastard di discreto calibro».
Nel
caso di Hooke, «la mancanza di riconoscimento del suo contributo alla
teoria della gravitazione universale da parte di Newton, in aggiunta al
fatto che nessuno dei suoi amici, neppure Wren, parlò mai pubblicamente
in sua difesa, danneggiò la sua reputazione, lo fece sentire vittima di
ingiustizia e di tradimento e avrebbe concorso a rendere assai amara la
parte finale della sua vita». Hooke e Newton non si riappacificarono
mai, anzi Newton tenne al minimo la sua frequentazione della Royal
Society fino a quando Hooke fu in vita. Solo alla sua morte, nel 1703,
accettò di divenirne presidente. Anzi, sottolineano i due autori, «brigò
alquanto per insediarsi in tale ragguardevole posizione, dalla quale
ebbe modo di controllare e condizionare pesantemente la scienza del suo
Paese».
Nel 1693 Newton aveva subìto un crollo psicofisico che lo
condusse sulle soglie della follia. Ne scrisse lui stesso all’amico
Samuel Pepys: «Sono estremamente turbato dallo stato di confusione in
cui mi trovo, non ho né mangiato né dormito bene in questi ultimi dodici
mesi, e non ho più la mia solidità mentale… Mi rendo conto di dover
interrompere il nostro rapporto e di non dover più vedere né voi né gli
altri miei amici, ma, se posso, di doverli lasciar andare
tranquillamente per la loro strada». Poi ne inviò un’altra ancor più
sorprendente a John Locke: «Essendo stato del parere che voi cercavate
di confondermi con donne e con altri mezzi, ero così sconvolto che
quando mi fu detto che eravate ammalato e non sareste vissuto, risposi
che era meglio se voi foste morto… Desidero che mi perdoniate per questa
mia mancanza di carità». Newton si scusava altresì con Locke «per aver
detto o pensato» che fosse al centro di una macchinazione per
confondergli le idee. Poi nei decenni successivi la comunità scientifica
dovette assistere a una sua simile polemica con Leibniz. Certo, «per
noi oggi», scrivono Frova e Marenzana, «è fin troppo facile stupirci di
fronte a molte pagine di Newton che appaiono deliranti, e tuttavia una
conoscenza del contesto in cui egli ha operato aiuta a capire come una
mente tanto sublime potesse subire il fascino di saperi antichi e
prescientifici». E, conseguentemente, abbandonarsi ai deliri di cui si è
detto.
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