lunedì 27 aprile 2015
Uguaglianza e disuguaglianza nell'intreccio di due lotte di classe e di due rivoluzioni
Disuguaglianza Un pianeta un po’ più “uguale”
Il ruolo decisivo di Cina e India
di di Riccardo Sorrentino Il Sole 26.4.15
Più diseguali, e più uguali. Il dibattito sulla disuguaglianza è esploso
l’anno scorso, con la pubblicazione del libro “Il capitale nel XXI
secolo” di Thomas Piketty, secondo il quale il rendimento del capitale,
maggiore della crescita economica in assenza di interventi statali, è il
motore della disuguaglianza nell’economia moderna.
È però almeno da inizio secolo che se ne parla: da quando il Fondo
monetario internazionale ha iniziato a esaminare prima i dati sulla
distribuzione del reddito poi gli effetti della diseguaglianza sulla
crescita. Con la Grande recessione, hanno fatto discutere molto le tesi
di Raghuram Rajan, affidate al libro Terremoti finanziari: secondo l’ex
capo economista dell’Fmi, oggi governatore della Reserve Bank of India,
la politica, di qualunque orientamento, avrebbe affrontato i problemi
della diseguaglianza non più attraverso le tasse ma attraverso gli
incentivi al mercato immobiliare. La crisi – sosteneva Rajan – è nata
nel settore dei mutui subprime, destinati a persone prive di garanzie,
che sono stati sostenuti da agenzie statali e incentivati da 700
interventi legislativi.
Questo dibattito ha solo lentamente scalfito un comune sentire – un
classico uso ideologico di risultati scientifici – che sottolineava
alcune evidenze. Innanzitutto l’inevitabilità di un certo livello di
diseguaglianza: i lavoratori più anziani guadagnano più dei giovani e
questo rende difficile capire quando la diseguaglianza diventa
eccessiva; poi il peso che le politiche “egualitarie” – in genere basate
su imposte – hanno sulla crescita. Da un punto di vista politico, se ne
deduceva l’irrilevanza del tema della diseguaglianza purché fosse
assicurata la mobilità sociale. In un sistema sociale ed economico che
permette l'”ascesa” dei meritevoli, la diseguaglianza è l'incentivo
giusto: è tornato a parlarne proprio nei giorni scorsi Tyler Cowen,
direttore del Mercatus Center della George Mason University.
Due presupposti di questa argomentazione sono però saltati. La
diseguaglianza in sé – hanno dimostrato gli economisti dell’Fmi – è un
freno alla crescita, se eccessiva. La mobilità sociale, inoltre, si
riduce sempre più. Alcuni paesi, come l’Italia, sembrano bloccati, ma
anche negli Stati Uniti, il Paese delle opportunità, si teme sia calata,
e sicuramente non è aumentata).
L’intero dibattito si inserisce in quello, parallelo, sulla
globalizzazione: il libero movimento di beni e capitali (e, in misura
minore, di persone, con l’immigrazione) ha davvero ridotto la povertà?
Ha danneggiato o aiutato le classi medie dei Paesi ricchi? Come
risultato di tutta questa discussione, la diseguaglianza è tornata un
tema rilevante; e misurarla, lavoro non semplice, è diventato un compito
fondamentale.
Il rapporto della Fondazione Hume vuole contribuire a questi studi
ponendosi come obiettivo la misurazione della diseguaglianza sotto tre
aspetti, collegati. La diseguaglianza tra i Paesi – ciascuno “pesato” in
base alla sua popolazione – la diseguaglianza all’interno di ciascun
Paese, e la diseguaglianza del mondo considerato come un’economia unica.
La diseguaglianza tra Paesi, dopo essere salita lentamente tra 1960 e
1980, ha poi iniziato a calare, con una velocità che è diventata
piuttosto rapida dopo il 2000. Ha pesato il successo della Cina, per le
sue dimensioni e per le sue performances, e infatti escludendo questa
economia, la diseguaglianza fra Paesi aumenta fino al 2000, anche se da
allora è comunque in calo. Il rapporto sottolinea come questo andamento
sia anche dovuto al rallentamento delle economie ricche.
Soffermandosi solo sulle economie avanzate, la tendenza appare opposta.
La diseguaglianza tra Paesi cala rapidamente fino al 1982, poi risale
lentamente e torna a calare dal 2000 in poi. Gli ultimi dati mostrano
che è tornata ai minimi di 32 anni fa.
La diseguaglianza interna tra Paesi mostra intanto un forte incremento
dal 1982. Anche in questo caso pesa la crescita della diseguaglianza
della Cina, e dell’India. Anche escludendo queste due economie, però, si
nota un aumento delle diseguaglianze fino al 1996, e poi una
sostanziale stabilità dell’indice.
Una suddivisione del mondo in diversi gruppi mostra però dinamiche molto
diverse: è molto aumentata la diseguaglianza, oltre che in India, Cina e
alcune altre economie asiatiche, nei Paesi ex comunisti, mentre è
calata, dalla fine del secolo scorso in poi, in America Latina e in
diversi (ma non tutti) i Paesi africani. Nelle economie avanzate, la
tendenza è stata quella di una crescita lenta dall’82 in poi, ma ogni
Paese sembra avere una storia a sé.
La conclusione comune che si può trarre è che «nelle società avanzate la
diseguaglianza è oggi più alta che quarant’anni fa, ma attualmente la
tendenza dominante è alla diminuzione». Nel mondo intero, considerato
come un’unica economia, ha prevalso infine la tendenza alla riduzione
delle diseguaglianze tra i cittadini del mondo: a partire dal 2000 circa
il pianeta è diventato «nel complesso un po’ più uguale».
Disuguaglianza Sud sempre più distante Si amplia il gap con il Nord
Con la crisi più divaricazione nella distribuzione della ricchezza
di Paolo Bricco Il Sole 26.4.15
La diseguaglianza italiana, con l’incedere della globalizzazione,
cresce. E non cresce mai per buone ragioni. Cresce sempre per i motivi
più deteriori. La diseguaglianza italiana, dagli anni Ottanta, aumenta.
E, in questa dinamica, si coglie il profilo di un Paese bloccato. Nella
parte del rapporto che la Fondazione David Hume dedica specificatamente
all’Italia, non ci sono soltanto le demarcazioni territoriali nette che
quantificano – in misura drammatica - le distanze fra Sud e Centro Nord,
con il rapporto del Pil pro capite del primo e del secondo che - dopo
la risalita del secondo dopoguerra (dal 45% del 1951 al 63,5% del 1972)
ha sperimentato un quarto di secolo di caduta (nel 1997 il punto di
minimo, il 52,7%), per poi tornare a crescere negli anni Duemila, fino
al nuovo ripiegamento - al 56% del 2011 - negli anni duri della crisi.
C’è anche la fisiologia di lungo periodo di un sistema economico e
sociale che, dagli anni Settanta, non riesce a trovare una via autonoma
di creazione – e di distribuzione - di ricchezza attraverso il mercato e
che, dagli anni Novanta, resta vincolato a meccanismi di trasferimento
di spesa pubblica in via di assottigliamento. «Stando agli ultimi
rapporti Ocse (2011) – si legge nel rapporto della Fondazione David Hume
- la diseguaglianza dei redditi in Italia è superiore alla media dei
Paesi avanzati, e ha avuto un andamento peculiare, diverso da quello di
Paesi ancor più disuguali del nostro, come Usa e Regno Unito, dove la
disparità dei redditi è sempre cresciuta a partire dagli anni ’70. In
realtà, usando una base dati omogenea, risulta che la disparità dei
redditi in Italia è superiore alla media Ocse soltanto se questo valore
di riferimento è calcolato come semplice media aritmetica, ovvero
ignorando il peso demografico di ogni Paese. Considerando invece
l’ampiezza demografica dei Paesi, la media Ocse nel 2013 è pari a 0,35,
mentre l’indice di disuguaglianza dei redditi italiani è soltanto 0,33,
un valore poco superiore a quello dell’Estonia e più basso di quello del
Regno Unito».
Il problema è che cosa si intravvede – dal punto di vista della
struttura economica – dietro a questi dati, che sono il risultato di una
deriva di lungo periodo. Se negli anni Settanta l’indice di Gini è
oscillato fra lo 0,37 e lo 0,30, dagli anni Ottanta è tornato – pur con
delle fluttuazioni – a crescere stabilizzandosi poi negli anni Novanta
in un range compreso fra lo 0,32 e lo 0,35.
«Il nodo – osserva Sergio De Nardis, capoeconomista di Nomisma – è che
in Italia non si è innescato il meccanismo paradossalmente virtuoso
delle economie che si trovano sulle frontiere specializzative più
avanzate e a maggiore valore aggiunto, nelle quali le diseguaglianze
aumentano perché vi è una domanda robusta e continuativa di competenze
professionali di alto livello e di elevata remunerabilità. Il che
sarebbe una buona ragione. In realtà, in Italia le diseguaglianze
crescono nelle due grandi fasi recessive, quella dei primi anni Novanta e
nell’ultima crisi. Esse si innestano su elementi di strutturale
debolezza. Le diseguaglianze si alimentano negli appiattimenti verso il
basso di una società e di una economia spesso ripiegate. Le
diseguaglianze non esplodono nella corsa più rapida di una minoranza
virtuosa».
Nel nostro Paese, adoperando il criterio delle buone e delle cattive
ragioni della diseguaglianza, le cose non funzionano nemmeno a
contrariis. Negli anni Settanta la diseguaglianza rilevata dall’indice
di Gini diminuiva grazie a politiche salariali basate sul punto unico di
contingenza: «Quelle politiche salariali avevano già in nuce le ragioni
della loro inefficacia, come il sostegno dei processi inflattivi», nota
infatti De Nardis. Dunque, nella vicenda di lungo periodo di un Paese
come l’Italia, sempre sospeso fra crescita e declino, metamorfosi e
trasformazione, l’indicatore della diseguaglianza dei redditi – nella
complessità di un tema in cui si alternano elementi macroeconomici e
standardizzazioni statistiche, fenomeni sociali e contesti opacizzanti –
assume un valore paradigmatico.
«Questa dinamica ci racconta quanto il Paese abbia periodicamente
riscontrato impedimenti strutturali nella creazione della ricchezza e
nella sua distribuzione. E ci dice quanto sia profonda la frattura fra
Centro-Nord e Sud in termini di Pil procapite e di consumi, con un
indice di Gini che si accanisce soprattutto nel Mezzogiorno, dove si
registra un apprezzabile aumento della diseguaglianza, con una
maggiorazione rispetto al Centro Nord compresa negli ultimi vent’anni
fra due e cinque punti», spiega Luigi Campiglio, economista
dell’Università Cattolica. Peraltro, la differenza in punti percentuali
tra il tasso di povertà relativa familiare del Sud rispetto al Centro
Nord è salita dal 16% del 2003 al 19,55% del 2013. «Ad oggi - si legge
nel dossier della Fondazione David Hume - pare che le due zone d’Italia
stiano cominciando nuovamente ad allontanarsi».
In questa dinamica vi sono condizioni esogene ed endogene. Il combinato
disposto – per quanto temporalmente traslato – di inflazione e di
esplosione del debito pubblico appare rilevante: «Nella prima metà degli
anni ‘80 – si legge nel rapporto - la disuguaglianza è tornata a
crescere per poi avere una flessione nella seconda metà; una parte del
trend può essere dipendente dall’andamento dell’inflazione, che colpisce
maggiormente i percettori di redditi più bassi, che toccò il suo
massimo del 20% nel 1980. A partire dai primi anni '90 le politiche
fiscali volte a contenere il debito pubblico, che hanno ridotto la
progressività del sistema di tassazione, hanno concorso al brusco
aumento dell’indice di Gini, che da quel momento è oscillato senza
accennare ad alcuna variazione significativa».
Proprio il tema del trasferimento delle risorse rappresenta uno dei
punti di rottura, nel tentativo di elaborare percorsi di conciliazione
fra ricchezza, che peraltro il sistema italiano fatica a creare, e
distribuzione di essa. «L’infelice contraddizione italiana – nota
Campiglio – è proprio basata su questo aspetto: storicamente la ricerca
del bene sociale è avvenuta attraverso i trasferimenti di risorse
pubbliche. Il Paese è segnato da una spesa pubblica strutturalmente
significativa. Che, però, non si è mai dimostrata capace di ridurre in
misura autentica e sana le distanze fra individui. A un certo punto,
prima negli anni Novanta e poi con il consolidamento del debito italiano
post crisi di Lehman Brothers, gli interventi a favore della riduzione
delle povertà scemano quantitativamente e perdono di efficacia sotto il
profilo qualitativo».
E, così, l’economia e società del nostro Paese si trovano a sperimentare
la tempesta imperfetta di bassa produttività e salari compressi, alta
spesa pubblica e politiche sociali inefficaci. L’anello debole è la
famiglia, il nucleo fondante del modello europeo in generale e italiano
in particolare. Nel 2002, la percentuale di famiglie che usavano i
risparmi o contraevano i debiti era pari al 5 per cento. Nel 2013 ha
toccato il suo massimo storico: 33,5 per cento. Un dato che, ora, è
sceso a un comunque significativo 29,7 per cento.
«In un Paese ad elevata improduttività della spesa pubblica – afferma
Maria Grazia Campese, presidente della Cooperativa Sociale Spazio Aperto
Servizi – di fronte all’impoverimento costante della popolazione,
diventa necessario rimodulare le politiche sociali. Non si tratta di un
tema etico. È prima di tutto un tema economico».
L’allocazione errata delle risorse è uno degli elementi della deriva
italiana. Una loro riorganizzazione può contribuire a un assetto più
giusto e più produttivo. Dice con il gusto del paradosso questa giovane
manager del terzo settore, che insegna anche al Master in Economia
Civile della Università Bicocca di Milano: «Bisogna tornare alle buone
ragioni sia della disuguaglianza sia dell’uguaglianza. Il Paese deve
tornare a crescere. E non deve più ragionare sulla spesa sociale in
termini pietistici o clientelari. Sennò, e non importa che si operi nel
pubblico, nel privato o nel Terzo Settore, possiamo fare che tirare giù
tutti quanti la serranda», conclude Maria Grazia Campese.
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