martedì 7 aprile 2015
L'anniversario dell'impiccagione di Dietrich Bonhoeffer e il corso del 1932. La lettura "immanentista" di Vito Mancuso
Dietrich Bonhoeffer: Tra Dio e il mondo, Castelvecchi,
traduzione di Nicola Zippel, pp. 64, e 9
L'anniversario. Settant'anni fa l'impiccagione del teologo luterano
Marco Roncalli Avvenire 7 aprile 2015
LA SFIDA DI BONHOEFFER AL NAZISMO
Giovedì 9 Aprile, 2015 CORRIERE DELLA SERA
E ra il dicembre del 1931. Un giovane libero docente evangelico, parroco degli studenti della scuola tecnica di Berlino, avido lettore del volume dalla copertina violetta di Otto Dibelius, Il secolo della Chiesa , va ad ascoltare una lezione dell’ammirato teologo, sovrintendente generale della Chiesa luterana a Berlino. E racconta ad Erwin Sutz la scena esilarante che gli si palesa: «Dibelius ci ha edotto in una conferenza sul fatto che la Chiesa ha 2.500 studenti di troppo, e che perciò ai teologi si potranno avanzare richieste particolari, tra le quali in primo luogo la disponibilità al martirio, in una lotta in cui sarebbero intrecciati ideali politici e religiosi! (...). Gli ascoltatori scalpitavano come pazzi: viva la “Chiesa violetta”».L’ascoltatore acuto e graffiante di quella infantile tracotanza era Dietrich Bonhoeffer: giovane teologo di alto lignaggio accademico (il bisnonno era lo storico della Chiesa Karl August von Hase, chiamato da Goethe a Jena, il nonno era il predicatore di corte Karl Alfred), la cui figura e la cui opera segnano un prima e un dopo della storia del cristianesimo. Bonhoeffer non è un uomo costretto a vivere sotto il nazismo: avrebbe potuto restare negli Stati Uniti o a Londra, dove lo aveva portato il suo lavoro di teologo e dove sognò un concilio di tutte le Chiese per annunciare la pace di Cristo al mondo in delirio. Tornato in patria lavora nel seminario clandestino della Chiesa confessante, nella quale era entrato anche Dibelius: e accetta di entrare nel controspionaggio tedesco, posizione essenziale per una azione di resistenza che mirava ad uccidere Hitler. Arrestato il 5 aprile del 1943, si rese conto, dopo il fallimento del complotto di Canaris, di essere senza scampo e dalla prigione di Tegel scrisse, in forma di pensieri, lettere e poesie, testi che compivano il percorso teologico iniziato con la tesi sulla Communio sanctorum nel 1927 e proseguito nei corsi (quello del 1932 esce in italiano, il 22 aprile, col titolo Tra Dio e il mondo da Castelvecchi editore, traduzione di Nicola Zippel, pp. 64, e 9).
Così in quella serie di testi che verrà raccolta col titolo Resistenza e resa , Bonhoeffer, segna uno stacco nel modo di pensare Dio con una «fede concreta». Attorno a questo interrogativo della responsabilità si dipanerà la sua vita di prigioniero fino al 9 aprile 1945, quando, in una Germania ormai sconfitta, Bonhoeffer viene portato al castello di Flossenburg, sottoposto a un processo rocambolesco per salvare le forme e impiccato, poco prima dell’arrivo degli Alleati.
Bonhoeffer non vive questo tragitto con l’animo febbricitante degli scalpitanti esaltati della «Chiesa violetta», ma con la dolorosa tenerezza di chi ha visto la duplice «sostituzione vicaria» della Chiesa e del m ond o, collocati l’una là dove dovrebbe stare l’altro, in uno spostamento nel quale il Cristo si rivela tale «per il mondo» e non «per se stesso».
Lo aveva già scritto in una predica del 1932: «È mai possibile che il cristianesimo, iniziato in modo così rivoluzionario, ora sia per sempre conservatore? (...) Se è davvero così, non dobbiamo meravigliarci che anche per la nostra Chiesa torni il tempo in cui sarà richiesto il sangue dei martiri. Ma questo sangue, ammesso che ne abbiamo ancora il coraggio, l’onore e la fedeltà di versarlo, non sarà così innocente e luminoso come quello dei primi testimoni. Sul nostro sangue ci sarà il peso di una nostra grande colpa: la colpa del servo inetto, che viene buttato fuori nelle tenebre». Ma nel riconoscersi così scopre la grazia a caro prezzo. E al tempo stesso scopre che solo « il Christus intercedens ci rende certi della grazia di Dio».
Così fu ucciso Bonhoeffer teologo devoto a Dio e al mondo
Settant’anni
fa fu giustiziato dai nazisti il grande studioso protestante. Che fece
dell’amore per la vita il centro della sua fededi Vito Mancuso Repubblica 9.4.15
ESATTAMENTE 70 anni fa, all’alba del 9 aprile 1945, completamente nudo,
veniva giustiziato nel lager nazista di Flossenbürg il teologo
protestante Dietrich Bonhoeffer che scontava così la sua partecipazione
alla Resistenza. Nel 1955 il medico del lager H. Fischer-Hüllstrung
rilasciò una testimonianza, da allora ripetutamente citata, secondo cui
il condannato prima di svestirsi si era raccolto in preghiera: «La
preghiera così devota e fiduciosa di quell’uomo straordinariamente
simpatico mi ha scosso profondamente; anche al luogo del supplizio egli
fece una breve preghiera, quindi salì coraggioso e rassegnato la scala
del patibolo, la morte giunse dopo pochi secondi».
Il medico concludeva: «Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni
non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio». Oggi sappiamo
che queste belle parole edificanti sono una menzogna. Con esse il
medico intendeva in realtà coprire la propria responsabilità, visto che
il suo compito, come testimoniato da un sopravvissuto del lager, Jørgen
Mogensen, diplomatico danese, era di rianimare i condannati per
sottoporli al supplizio una seconda volta e prolungarne l’agonia.
Inoltre secondo Mogensen a Flossenbürg non vi era alcun patibolo e
Bonhoeffer morì come l’ammiraglio Canaris e il generale Oster, suoi
superiori nelle fila della resistenza, «lentamente strangolati a morte
da una corda che saliva e scendeva a partire da un gancio di ferro
conficcato in una parete» e rianimati più volte dal medico per ripetere
sadicamente la procedura. Bonhoeffer quindi non fu impiccato bensì
ripetutamente strangolato, e non morì dopo pochi secondi. Quanto alla
«tanta fiducia in Dio», è bello sperarlo.
Aveva da poco compiuto 39 anni ed era una delle intelligenze più
brillanti della teologia tedesca, docente all’Università di Berlino a 25
anni, lontano parente di Goethe, il padre titolare della cattedra
berlinese di neuropsichiatria. Dopo l’avvento al potere di Hitler, il 30
gennaio 1933, mentre le chiese tedesche stipulavano accordi con il
regime nazista (Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, firmò il Concordato il
20 luglio 1933), Bonhoeffer il 1° febbraio, a distanza di due giorni,
manifestava alla radio la preoccupazione per la trasformazione del
concetto di Führer in quello di Verführer, “seduttore”. Tre mesi dopo
pubblicava il saggio La Chiesa di fronte alla questione ebraica e dopo
“la notte dei cristalli” del 9 novembre ’38 prese a ripetere ai suoi
studenti: «Solo chi grida per gli ebrei può cantare il gregoriano». La
stessa logica imbevuta di rettitudine e di giustizia lo condusse nella
Resistenza per uccidere Hitler, perché «se un pazzo alla guida di un
auto travolge i passanti, il mio compito non è solo curare i feriti ma
anzitutto fermare quel pazzo» (Gandhi il 4 novembre 1926 aveva espresso
la medesima idea con un esempio simile).
Venne arrestato il 5 aprile ‘43 e rinchiuso nel carcere di Tegel dove
trascorse un anno e mezzo (poi il carcere berlinese della Gestapo, poi
Buchenwald, infine Flossenbürg). Anche a causa del fatto che era nipote
del comandante di Berlino generale Paul von Hase, a Tegel Bonhoeffer
trascorse un periodo relativamente confortevole: nacquero così le
lettere e gli scritti poi pubblicati nel ‘51 con il titolo Resistenza e
resa, oggi punto di riferimento capitale della teologia contemporanea.
In una lettera all’amico Bethge si legge: «Posso ben immaginare che
qualche volta cominci a odiare il sole. E però, sai, vorrei poterlo
percepire ancora una volta in tutta la sua forza, quando ti arde sulla
pelle e a poco a poco infiamma tutto il corpo, sicché sai di nuovo che
l’uomo è un essere corporeo; vorrei farmi stancare da lui anziché dai
libri e dalle idee, vorrei che risvegliasse la mia esistenza animale,
non quella animalità che sminuisce l’essere uomo, ma quella che lo
libera dall’ammuffimento e dall’inautenticità di un’esistenza solo
spirituale, e rende l’uomo più puro e più felice».
A parlare così non è un materialista, ma chi ha fatto della fede il
centro della vita. Egli però avverte che la tradizionale impostazione
religiosa è ormai inadeguata a esprimere la potenza spirituale della
vita. A partire dalla forza del sole Bonhoeffer intuisce che lo spirito
non scende dall’alto a dispetto della materia, ma sale dal basso, dal
calore della natura, quasi come un’effusione della materia, come già
avevano espresso Teilhard de Chardin sul fronte cattolico e Pavel
Florenskij sul fronte ortodosso, aprendo territori inesplorati alla
teologia cristiana. Così il 30 aprile ‘44 all’amico: «Ti
meraviglieresti, o forse addirittura ti preoccuperesti delle mie idee
teologiche e delle loro conseguenze». Quali idee? Quelle secondo cui «il
divino non è nelle realtà assolute , ma nella forma umana naturale».
Scrivendo alla fidanzata, Bonhoeffer spiega la sua idea di fede: «Non
intendo la fede che fugge dal mondo, ma quella che resiste nel mondo e
ama e resta fedele alla terra malgrado tutte le tribolazioni che essa ci
procura. Il nostro matrimonio deve essere un sì alla terra di Dio, deve
rafforzare in noi il coraggio di operare e di creare qualcosa sulla
terra. Temo che i cristiani che osano stare sulla terra con un piede
solo, staranno con un piede solo anche in cielo». Grazie a parole come
queste la teologia protestante del dopoguerra ebbe quel formidabile
scossone noto come “teologia della secolarizzazione” che vide
protagonisti nomi quali Bultmann, Gogarten, Tillich e che contribuì a
suscitare la “théologie nouvelle” in ambito cattolico e da questa il
rinnovamento del Vaticano II. Oggi di questo teologo devoto tanto a Dio
quanto al mondo, vengono pubblicati da Piemme, con il titolo La
fragilità del male, alcuni scritti. L’editore dichiara che si tratta di
“scritti inediti”, in realtà non tutti lo sono, perché quelli datati
dopo il 5 aprile 1943 sono editi in Italia in Resistenza e resa.
Si tratta di testi occasionali, provenienti da prediche, lezioni
esegetiche e meditazioni. Così il lettore incontra, nella limpida prosa
di Bonhoeffer, temi quali la paura, il dolore, la morte, la guerra, la
solitudine, il peccato, la tentazione, la collera di Dio, il diavolo, il
dolore di Gesù… Fa da epigrafe questa frase del ’39: «Di solito, nel
corso delle nostre esistenze, non parliamo volentieri di vittoria: è una
parola troppo grande. Negli anni abbiamo subito troppe sconfitte,
troppi momenti di debolezza, e cedimenti troppo gravi ce l’hanno sempre
preclusa. Tuttavia, lo spirito che abita in noi vi anela, desidera il
successo finale contro il male e contro la morte». In qualunque modo ne
sia avvenuta la morte a Flossenbürg settant’anni fa, la vita di
Bonhoeffer rimane oggi una promessa per il “successo finale” del bene e
della vita.
Teologia Bonhoeffer agli inizi
di Armando Torno Il Sole Domenica 24.5.15
Dietrich Bonhoeffer, dopo la laurea a Tubinga nel 1927 (ha ventun anni),
diventa nel 1928 vicario della Comunità protestante tedesca di
Barcellona; si reca quindi a New York (si specializza all’Union
Theological Seminary) e nel 1930 è a Londra, dove inizia una
corrispondenza epistolare con Gandhi. Conseguirà la libera docenza a
Berlino nel 1932, occupando per un paio d’anni la cattedra di teologia.
La abbandonerà con l’avvento del nazismo, mettendosi al servizio della
Chiesa Confessionale come direttore del seminario clandestino di
Finkenwalde. Il suo arresto avverrà nel 1943.
Tra le lezioni che Bonhoeffer tenne nella capitale tedesca nel semestre
estivo del 1932, nel corso che si intitolava L’essenza della Chiesa,
Nicola Zippel ha tradotto per l’editore Castelvecchi una parte con il
titolo Tra Dio e il mondo. Sono state aggiunte due lettere inedite del
1936, spedite a Gerhard Vibrans, dedicate alla riflessione sulla vera
natura dell’istituto ecclesiastico. Sono pagine in cui il giovane
teologo affronta temi fascinosi quali «Il sacerdozio universale» o «I
confini della Chiesa» o il compiersi dell’identità “con” Dio che si fa
uomo. Scrive a tal proposito: «Quando l’altro decide di darsi come
persona, diventa per me Cristo». La Chiesa è cercata oltre gli
stereotipi e le semplificazioni, con intuizioni fulminanti che
caratterizzeranno poi la teologia di Bonhoeffer: «Gesù Cristo non è il
fondatore della Chiesa. È vero che Gesù, prima della sua morte, ha
fondato una comunità, essa però non va in alcun modo identificata con la
Chiesa. La si potrebbe chiamare la comunità messianica. Originariamente
egli ricerca l’intero Israele».
Il teologo tedesco riconosce in queste pagine le difficoltà della Chiesa
di rappresentare in modo degno nel mondo la realtà divina. Con notevole
disincanto scrive: «La Chiesa, fattasi mondo, fin dalla sua origine non
è mai stata pura. Neppure i primi cristiani! Se lo fosse, si
scambierebbe la Chiesa con una comunità religiosa e il Vangelo con
l’ideale di un’esperienza vissuta. Il settarismo perfezionista, dalla
mistica greca fino a Tolstoj, ha compiuto il tentativo di usurpare il
regno di Dio».
Sono pagine che annunciano e contengono non poche idee del forte
messaggio di Bonhoeffer: anziché contestare il mondo in nome di Dio, il
teologo tedesco preferisce intendere la fede nella contestazione di Dio
in nome del mondo, divenuto ormai “maturo”. Con lui si porranno i
presupposti per le teologie della secolarizzazione, della rivoluzione,
nonché quelli per la teologia della «morte di Dio», ai cui dibattiti non
potrà partecipare (verrà impiccato nel 1945). Nel piccolo libro Tra Dio
e il mondo, ora tradotto, si trovano inoltre i semi di una concezione
che rovescia i molteplici individualismi: «Nessuno vive più per se
stesso, né muore più per se stesso. Il singolo vive per e a partire
dalla comunità. I merita dei fratelli sono il meritum di Cristo e
proprio per questo diventano i miei merita».
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