giovedì 23 aprile 2015
Lo spettacolo delle razze
Viviano Domenici: Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica, Il Saggiatore
Risvolto
Dal 1870 al 1940 l'Europa e gli Stati Uniti
celebrarono le magnifiche sorti del mondo occidentale sul palcoscenico
delle Esposizioni universali. Poco distante, nei villaggi etnici
ricreati accanto ai padiglioni, andava in scena uno spettacolo
angosciante: neri armati di lance, donne con i bambini al collo, pigmei,
eschimesi, indios, tutti esposti perché i bianchi, i colonizzatori,
potessero ammirarli o schernirli, sicuri come erano - come, forse,
ancora siamo - del primato della razza bianca, del suo diritto a
conquistare e dominare le altre razze. C'è Sarah, l'ottentotta dalle
forme inusualmente pronunciate, esibita come una pruriginosa
eccentricità biologica e poi studiata e sezionata come una cavia da
laboratorio. C'è il pigmeo Ota Benga che, nel recinto degli animali, non
può sorridere a meno che i visitatori non paghino qualche dollaro per
vederne i denti aguzzi. C'è capo Geronimo, mostrato vinto e sconfitto
perché nessuno dimentichi mai l'inferiorità degli indiani d'America. E
ci sono le altre migliaia di esseri umani i cui nomi non sono mai stati
registrati, tanta era la considerazione riservata alla loro dignità
personale. A una prima, superficiale analisi può sembrare un fenomeno
lontano nel tempo, da cui la nostra società ha ormai preso le doverose
distanze, ma l'ultimo zoo umano risale al 2005, e il turismo della
povertà che tanto successo riscuote in questi ultimi anni ripropone la
medesima logica. Prefazione di Gian Antonio Stella.
Quando negli zoo finivano gli uomini
Storie del nostro ordinario razzismo
di Gian Antonio Stella Corriere 23.4.15
«I barbari tengono i capelli sciolti e chiudono i loro abiti sul lato
sinistro. Hanno volti umani e il cuore di bestie selvagge. Portano abiti
diversi da quelli usati nell’impero di Mezzo, hanno altri usi e
costumi, altro cibo e altre bevande, parlano una lingua
incomprensibile... Di conseguenza, un governo saggio deve trattarli come
bestie selvagge».
Lo storico e poeta cinese Ban Gu (…) viveva duemila anni fa alla corte
di Chang’an, l’attuale Xi’an, a ottomila chilometri da Atene. Ma la
pensava esattamente come Aristotele, che tre secoli prima, in una
lettera ad Alessandro Magno, aveva teorizzato più o meno le stesse cose:
«Con i Greci comportati da stratego, con i barbari da padrone, e curati
degli uni come di amici e familiari, mentre gli altri trattali come
animali o piante». (…)
Certo, già ventidue secoli fa c’era chi riconosceva l’assurdità di
distinguere tra «noi» e «loro». Come gli autori del Libro del maestro di
Huainan , una grande opera collettiva del II secolo a.C. composta alla
corte dell’imperatore cinese Liu An: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i
Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta
cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. Questo
perché sono diverse la loro educazione e le loro usanze. Ma prendete un
bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà
neppure quali costumi esistono nella sua patria».
Parole sagge. Eppure l’idea che gli altri fossero sempre meno «umani» e
sempre più simili alle bestie, man mano che ci si allontanava da casa, è
rimasto per secoli così radicato da spingere perfino Marco Polo, al
ritorno dal suo viaggio in Cina durato complessivamente 17 anni, a
raccontare, tra tante cose vere, alcune frottole inventate di sana
pianta. Come quella sull’arcipelago delle Andamane, che lui chiama
Angaman: «Angaman è un’isola, e no ànno re. E’ sono idoli, e sono come
bestie salvatiche. E tutti quelli di quest’isola ànno lo capo come di
cane e denti e naso come di grandi mastini». Che senso c’era, a
raccontare una balla così? C’era. I suoi contemporanei infatti, spiegano
gli studiosi del tema, erano così convinti che nelle contrade più
lontane delle Indie vivessero uomini bestia con la testa di cane, che se
lui non l’avesse raccontato non l’avrebbero preso sul serio: «Chissà se
Marco Polo è arrivato davvero in Cina, dato che non ha neanche visto
gli uomini con la testa di cane…». In buona sostanza: avrebbe scritto
quella sciocchezza per accontentare le aspettative dei suoi
concittadini.
Un po’ quello che avrebbe spinto due secoli dopo il canonico di Magonza
Bernhard von Breitenbach a popolare la mitica Terrasanta, Peregrinatio
in terram sanctam , nel 1486, di giraffe con le corna e cammelli tirati
per la cavezza da pelosissimi uomini-scimmia nudi con tanto di coda. E
la Chronica Mundi del tedesco Hartmann Schedel insisteva ancora nel
1493, cioè dopo la scoperta dell’America, su una serie di figure
mitologiche: la donna-scimmia, l’uomo-uccello, l’uomo-lupo, lo sciàpodo
con un piede solo, il panozio dalle immense orecchie, di cui si serviva
la notte come fossero coperte.
Spiega George L. Mosse, autore del fondamentale Il razzismo in Europa ,
che il concetto dell’uomo-bestia, radicato nelle leggende dei secoli
bui, si protrasse a lungo in Occidente «dove era diffusa la credenza che
le scimmie fossero effettivamente non un genere totalmente differente,
ma una specie inferiore di uomo, che si rifiutava di parlare per non
essere ridotta in schiavitù». E cita ad esempio lo scienziato e medico
britannico Edward Tyson, il quale pensava che i pigmei fossero «scimmie
perché avevano i nasi schiacciati e una statura piccola».
I pregiudizi si radicarono a tal punto, nella scia di «scienziati» come
G. Battista Della Porta che nel 1610 pubblicò Della fisionomia dell’uomo
(teorizzando ad esempio che «Le labra grosse dimostrano stoltizia, come
scrisse Aristotele ad Alessandro. (…) Quei ch’han le labbra grosse (…)
sono giudicati ignoranti, perché così sono quelle dell’Asino, della
Simia») che nel 1869 il filosofo tedesco Eduard von Hartmann si spinse a
sostenere, nel saggio Philosophie des Unbewussten , una tesi
spaventosa.
«Non si fa certo un favore al cane, la cui coda dev’essere tagliata,
quando gliela si taglia gradualmente, centimetro per centimetro»,
scrisse. «Altrettanto poco umano è prolungare artificialmente la lotta
contro la morte dei selvaggi che si trovano sull’orlo dell’estinzione...
Il vero filantropo non può altro che desiderare un’accelerazione
dell’estinzione dei popoli selvaggi, e prodigarsi per questo scopo».
Il filosofo inglese Herbert Spencer, nei Principi di sociologia dove
plaudiva al colonialismo al servizio della civilizzazione, era
d’accordo: «Le forze che stanno elaborando il grande schema della
felicità perfetta, non tenendo conto della sofferenza incidentale,
sterminano quei settori del genere umano che intralciano la loro
strada... Siano esseri umani oppure bestie l’ostacolo deve essere
rimosso».
Non c’è dunque da stupirsi se moltissimi uomini «strani», come racconta
Viviano Domenici nel libro Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle
Expo al razzismo della vacanza etnica , sono stati usati a lungo come
attrazioni nelle corti di re e imperatori, nei circhi, nei giardini
zoologici, alle esposizioni universali. Perfino in quella del 1889 che a
Parigi celebrò un secolo dopo la Rivoluzione francese e la solenne
Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Perfino allora, all’ombra della
torre Eiffel appena costruita, fu offerto ai trentadue milioni di
visitatori lo show di un «villaggio africano» con 400 «selvaggi» della
Guinea al seguito del re Dinah Salifou più 18 angolani, 18 ghanesi e
decine di senegalesi, indocinesi e tahitiani.
Trabocca di storie stupefacenti, il libro di Domenici: da quella di José
Calafate che dalla Terra del Fuoco fu portato a Parigi per essere
mostrato sotto il cartello «Cannibali» a quella dell’apache Geronimo,
che dopo aver combattuto per tre decenni i bianchi, che gli avevano
massacrato la madre, la moglie e tre figlioletti, finì per essere
un’attrazione nel 1904 all’esposizione di Saint Louis, dove il giornale
locale scrisse che guardava i visitatori «con la stessa curiosità che
loro riservano a lui». Per non dire della tragedia di otto inuit portati
nel 1880 dal Labrador in Europa e decimati dal vaiolo o dei congolesi
messi in mostra a Bruxelles nel 1897, chiusi in recinti con cartelli
simili a quelli che diffidano dal dare noccioline agli elefanti: «Non
dare da mangiare ai negri, sono nutriti».
Un libro affascinante e tremendo. Che ci obbliga a rileggere la nostra
storia con una vertigine di sensi di colpa. E magari a dire una
preghiera, finalmente, per tanti esseri umani che sono stati traditi.
Come il pigmeo «Ota Benga» che nel 1906 attirò l’attenzione del «New
York Times» sotto il titolo «Boscimano divide una gabbia con le scimmie
dello zoo del Bronx» e dieci anni dopo, una sera che non ce la faceva
più, si spogliò nudo tenendo solo il perizoma e cominciò a ballare
intorno al fuoco, finché prese una pistola chissà come recuperata e si
sparò al cuore.
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