giovedì 2 aprile 2015
Pietro Citati su Ovidio
I legami lievi di Ovidio
Nell’«Arte di amare» dominano la felicità passeggera e il dolce ricordo, non il vincolo coniugale o la folle passione
di Pietro Citati Corriere 2.4.15
L eopardi non amava la poesia di Ovidio. Ammirava, certo, la sua
prodigiosa ricchezza verbale, la sua immensa volubilità, che ricorda, a
volte, la ricchezza e la volubilità dello Zibaldone . Ma non tollerava
che Ovidio fosse un temperamento non tragico né drammatico; e che
l’amore fosse, per lui, invece che una passione profondissima del cuore,
un gioco, un’arte, un sistema intellettuale.
Questo è l’amore, per Ovidio: un’ Arte di amare , come chiamò uno dei
suoi libri più famosi (ottimamente curato da Emilio Pianezzola,
Gianluigi Baldo, Lucio Cristante, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, p.
LXVI-442, e 14); un’arte, che si può conoscere con la mente, insegnare e
imparare. Essa assomiglia all’arte della guerra, della caccia e della
pesca: a quella dell’auriga e del timoniere. «Questa è la pista che
traccerà il mio carro, questa sarà la meta da sfiorare con la ruota
veloce». «Il cacciatore sa bene dove porre reti per i cervi, sa bene in
quale valle si aggiri grugnendo il cinghiale; e chi tende la lenza
conosce i fondali più pescosi». Se erano stati composti manuali
sull’arte della guerra e della caccia, Ovidio intende scrivere un
trattato sull’arte dell’amore, con la stessa tensione didascalica, la
stessa passione di insegnare, sebbene la gravità didascalica si rovesci
molto spesso in ironia.
Ovidio si muove in quel territorio che i greci chiamano metis , dove si
combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale,
la finzione, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità: applicati
a realtà fugaci, mobili e ambigue, che non si possono portare alla
misura precisa né al calcolo esatto. Così l’arte dell’amore è la scienza
dell’indefinibile: dove la tendenza al sistema si combina con la
coscienza che gli amori mutano, cambiano, sono diversi tra loro, e
dunque bisogna applicar loro metodi ogni volta diversi. Un trattato
amoroso (dunque anche l’ Ars amandi ) è qualcosa di impossibile:
esistono solo gli infiniti, i singoli amori, i singoli eventi, i singoli
incontri, e chi ne scrive deve possedere una mente pieghevole e
cedevolissima, quella appunto che esige la metis. La conseguenza ultima
dell’ Arte di amare è il racconto; ed essa si trasformerà, negli anni,
in quella meravigliosa enciclopedia di racconti che sono Le metamorfosi .
In Ovidio, le Muse non dominano soltanto il regno della Memoria. Il loro
regno è molto più vasto: comprende la vita e la morte. Se accettiamo la
discussa etimologia, esse sono le «ninfe dei monti»; e all’inizio della
Teogonia, le vediamo ancora danzare, con i loro tenerissimi piedi,
attorno alla fonte dall’acqua scura come il mare. Esse hanno un rapporto
con l’acqua: l’immensa liquidità dell’universo. Non con l’acqua sterile
delle piogge, ma con quella primordiale dell’Oceano, che scende nello
Stige, e risale in tutte le sorgenti, in tutti i fiumi e i pozzi, come
nella sorgente Cassotide, a Delfi. Dove c’è una sorgente, c’è una Musa.
L’acqua dell’Oceano è supremamente fecondatrice: ha un potere vitale; è
una forza oracolare purificatrice e guaritrice. Per questo Pindaro
diceva che l’acqua è «la migliore delle cose».
Così comprendiamo perché la poesia, specialmente in Esiodo e in Pindaro,
sia una sostanza liquida. Tutti i poeti, fino ai tempi moderni, l’hanno
saputo: scrivere poesie è l’esperienza della liquidità; e Pindaro
beveva acqua — acqua di una sorgente, acqua dell’Oceano — prima di
comporre versi. La poesia, in Esiodo e in Pindaro, è un «nettare
distillato»: un continuo scorrimento; le Muse versano sulla lingua del
re-poeta «dolce rugiada», dalla sua bocca scorrono «dolci parole», dalla
bocca di chi è amato dalle Muse «dolce scorre la voce». In quest’acqua
che non sta mai ferma non c’è nulla di effimero: anzi è proprio lo
scorrere incessante della sostanza oceanica, che rende eterni i versi e
chi li compone.
Nell’ Arte di amare , le Muse hanno un rilievo infinitamente minore.
Scompare Apollo, il dio dell’ispirazione poetica e della morte: Venere
attutisce il suo fascino; Dioniso perde la sua forza distruggitrice e
diventa un gioco incessante col vino. «L’ebbrezza, se vera nuoce, ma
gioverà se è simulata». Mentre tutto ciò che è divino scompare o si
rifugia in alcuni exempla, trionfa l’esperienza amorosa di Ovidio: la
sua esperienza singola, come nell’ Odissea trionfa l’esperienza di
Ulisse. Questa esperienza lascia cadere qualsiasi lato tragico o
drammatico dell’amore: o lo confina nelle storie scorciate, rapidissime,
tratte dalla mitologia classica. Ovidio cerca di cancellare e di
eludere ogni traccia di amore immoderato e passionale, e lo riserva alle
donne.
L’amore di Ovidio è sopratutto diurno. La notte non è adatta a giudicare
la bellezza. Con la luce del giorno e a cielo aperto Paride osservò le
tre dee, quando disse a Venere: «La vincitrice, Venere, sei tu». Di
notte non si vedono i difetti e si perdona ogni manchevolezza. L’amore
non è mai solitario: esso nasce, si sviluppa e viene coltivato nelle
ampie distese, come i Fori, dove si raccolgono le folle. L’amore è
felice: le sue vicissitudini, inquietudini, incertezze non interessano
Ovidio, che racconta solo l’amore lieto e dei tempi lieti. «L’animo
festoso, e non oppresso dal dolore, si apre da sé, spontaneamente, e
Venere si insinua, con arte di lusinga». L’uomo, al quale in primo luogo
Ovidio si rivolge, non deve mai temere che la donna gli sfugga: ogni
donna può essere presa. «Tendi solo la rete e sarà presa». Con il
soccorso dei precetti di Ovidio, tutte le difficoltà cadono: nessuna
difesa resiste, nessun rischio inquieta, nessun rivale fa temere.
Ovidio ha un’alta idea della propria opera di poeta e di maestro. Ma non
ha un’idea grande dell’amore: l’amore, quale egli lo consiglia e lo
sistema, evita l’ambizione e l’orgoglio, ed è sempre pieno di
moderazione, discrezione, flessibilità, pieghevolezza. Il tono resta
basso: «alla mia navicella convengono vele modeste»; «da me si imparano
soltanto amori spensierati»; come è basso il tono della bucolica
virgiliana, per la quale Ovidio nutre una nascosta passione. Così egli
dà dei piccoli, deliziosi consigli: come acconciare i capelli, come
sorridere; e accompagna la sua coppia di innamorati a passeggio per la
grande città, con l’aria del tutore discreto, affezionato ed ironico.
Il tempo passa rapidamente: fugge via tra le dita; e bisogna godere il
tempo che passa. «Finché vi è consentito, godete la vita: gli amori se
ne vanno come acqua che scorre: l’onda che è corsa via non torna più
indietro, non torna più indietro l’ora che è passata». E gli amori non
durano: Ovidio non parla mai di lunghe relazioni coniugali, che occupano
tutta la vita; ma soltanto di piccoli amori, spesso contemporanei tra
loro, che conoscono poche battute, e subito si esauriscono, lasciando
nella mente un ricordo delizioso.
Sebbene l’amore sia limpido, comprende in sé, anzi chiede e ricerca, la
simulazione. «Devi fare l’innamorato, fingere a parole le ferite
d’amore: cerca in ogni modo di dare alla tua donna questa convinzione».
L’ Ars insegnata aggiunge convenzione a convenzione, teatro a teatro,
simulazione a simulazione. Come il poeta nasconde l’arte raffinata della
sua mente nella semplicità apparente dei versi, così l’innamorato
nasconde l’infinitamente complessa rete delle sue tecniche in una
modulazione dolce e discreta. Non soltanto egli deve celare le proprie
infedeltà: ma tutte le sue parole sono una serie di velature successive,
maschere che coprono maschere, fino a quando il vero volto non è
completamente dimenticato. «Noi cerchiamo, se non completa oscurità,
almeno la penombra, un tono più smorzato della luce vera». Questo
smorzato è il tono che Ovidio vuole raggiungere, mescolando le parole
scritte, le parole parlate, i diversi atteggiamenti, le infinite arguzie
che si compiace di ostentare e di occultare.
L’ Arte di amare può venire scritta soltanto in un luogo: Roma, che è la
capitale erotica del mondo, negli anni in cui Ovidio scrive. «Roma è un
luogo affollato di ragazze. Roma ti offrirà tante ragazze, e così
belle, che tu dirai: “questa città possiede tutto quello che c’è nel
mondo intero”». Ovidio ama appassionatamente la Roma del suo tempo:
disprezza «la rozza semplicità» del passato repubblicano, mentre le
ricchezze immense del mondo soggiogato affascinano la sua mente. «Il
Palatino, che ora rifulge sotto il segno di Apollo, altro non era un
tempo che pascolo di buoi per l’aratura. Piacciano ad altri le cose del
passato: d’essere nato al giorno d’oggi io mi rallegro. Al mio stile di
vita questa è l’epoca adatta». La politica di Augusto, che cercava di
fermare il tempo e far risorgere nei suoi anni la moralità di Roma
repubblicana, gli pare assurda, fuori luogo e insensata.
A un tratto, l’ Ars amandi si interrompe: per qualche decina di versi
Ovidio si attarda a decorare un episodio storico o mitologico, come il
ratto delle Sabine, il volo di Dedalo ed Icaro, la storia di Cefalo e di
Procri: o il meraviglioso incontro tra Ulisse e Calipso, che chiede
all’amato di raccontargli ancora una volta la storia di Troia e della
sua caduta. Sulla sabbia del mare, Ulisse disegna di nuovo la
distruzione e l’incendio della grande città asiatica, quando un’onda
improvvisa cancella la scena e lo interrompe. Con quale eleganza, con
quale miele, Ovidio mescola il racconto e la sentenza amorosa, il
facile, il leggero, l’erudito, il criptico, il tono basso e il tono
alto, il mito, l’oggi, l’intelligente, il comune. La sua Arte di amare
era, nel profondo, un’Arte della Metamorfosi .
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