mercoledì 1 aprile 2015
"Sinistra PD" è ormai sinonimo di "minchioni col botto"
La minoranza resta incerta. D’Attorre: meglio andare al voto col Consultellum
di Monica Guerzoni Corriere 1.4.15
ROMA La tensione ha lasciato il posto agli interrogativi e a
Montecitorio i «dem» della minoranza hanno facce frastornate. Che
accadrà, dopo che Matteo Renzi ha blindato la legge elettorale? Davvero
il premier vuole mettere la fiducia? E quanti saranno i «kamikaze»
pronti a impallinare l’Italicum, se il premier deciderà di affrontare
l’aula (e i voti segreti) senza legare le sue sorti alla legge?
«I kamikaze non saranno più di trenta» li ha contati il leader del Pd,
dando per scontato il no di Bersani, Boccia, Fassina, Civati, D’Attorre e
Rosy Bindi, la quale ritiene «incostituzionale porre la fiducia sulla
legge elettorale» e non parteciperebbe al voto. Gli anti-renziani
irriducibili si sono convinti che il premier li abbia messi nel mirino
per addossargli la colpa di un voto di fiducia. Cuperlo lavora per un
accordo, ben sapendo che tra i suoi c’è chi si prepara ad affossare
l’Italicum. «Io? Kamikaze dichiarata — si autodenuncia Ileana Argentin
—. Noi 29 di SinistraDem usciremo dall’aula ed è un peccato, perché
bastava poco a migliorarlo. L’ottusità del non ascolto rischia di
compromettere l’unità del Pd». Toni duri, che non tutti i cuperliani
condividono. Alla vista dei giornalisti Andrea De Maria allunga il passo
verso l’aula: «Vedremo, c’è tempo...». La Pollastrini invita a
«riflettere ancora».
L’Italicum approderà l’8 aprile in commissione Affari costituzionali,
dove la minoranza è maggioranza. Ma la battaglia sarà in aula. «Non ho
niente da dire» alza le mani Bersani, al quale i fedelissimi
rimproverano i toni di rottura dei giorni scorsi. Fassina conferma che
non voterà l’Italicum nella versione attuale e prevede che «altri del
Pd» sono pronti a farsi metaforicamente esplodere: « Quanti? Lo vedremo
dopo la riunione del gruppo». Fassina si appella alla libertà di
coscienza, eppure non prevede conseguenze sull’esecutivo: «Il governo
non è in discussione». Giachetti la pensa all’opposto, «se l’Italicum
salta è in gioco il governo». E se tutto dovesse precipitare, D’Attorre
ritiene che sarebbe meglio andare al voto col proporzionale: «Piuttosto
che consentire una cattiva riforma elettorale e una cattiva riforma
costituzionale, meglio il Consultellum». Accenti di rottura, che Nico
Stumpo non condivide: «La strada della mediazione è stretta, ma dobbiamo
percorrerla. Bersani? Dividere le minoranze sarebbe un errore».
Il giorno dopo lo strappo dell’ala sinistra, che in direzione non ha
votato la relazione del segretario, a Montecitorio l’incertezza è regina
e gli aut aut lasciano il posto agli appelli. «Facciamo depositare la
polvere per un po’ — prende tempo il presidente dei deputati, Speranza
—. Dopo Pasqua riuniremo il gruppo e torneremo a parlare di legge
elettorale». Sulla linea del capogruppo si attesta a sorpresa Davide
Zoggia, già pasdaran bersaniano. «Fare il kamikaze non è difficile, ma
io non intendo farlo. Voglio stare nel Pd e riconosco la leadership di
Renzi. Spero non si arrivi alla necessità di mettere la fiducia e
condivido gli appelli a evitare lo show down. Il premier si fidi di noi,
diminuisca il numero dei nominati e la legge passerà anche al Senato,
senza trappole». Detto da un bersaniano che ritiene l’Italicum «non
votabile senza correzioni», è un chiaro segnale di apertura.
Solo il tempo scriverà il finale di partita. «Io tra i kamikaze? Vedremo
— allarga le braccia il giovane Enzo Lattuca —. Intanto può scrivere
che l’Italicum fa schifo». Il lettiano Guglielmo Vaccaro annuncerà oggi
la sua uscita dal Pd e ieri si è fatto vedere alla conferenza stampa di
Corrado Passera contro le «storture» della Costituzione. A presentare
l’appello anti—Italicum c’era anche Pippo Civati: «I gufi kamikaze fanno
anche un po’ sorridere, ma ci sono, certo. Chi sono? Gli esponenti
della minoranza che hanno parlato in direzione». E lei, Civati? «Se
Renzi mette la fiducia spacca il partito, una lacerazione che potrebbe
coincidere con delle uscite dal Pd».
Pierluigi Bersani “Se il premier continua
così anche io chiederò di essere sostituito in commissione La fiducia?
Una sola volta è stata posta su questi argomenti: nel 1953, sulla legge
truffa” “Ma Renzi non ha più i numeri Scissione? Assuma lui il problema”
intervista di Goffredo De Marchis Repubblica 1.4.15
ROMA La risposta di Bersani a Renzi è una sfida. «Non sono così convinto
che abbia i numeri per approvare l’Italicum. A partire dalla
commissione Affari costituzionali. Ne dovrà sostituire tanti di noi per
arrivare al traguardo. E se continuerà a fare delle forzature, io stesso
chiederò di essere sostituito ». Sarebbe il primo vero strappo dell’ex
segretario nella storia del conflitto con Matteo Renzi. La prima
plastica trasgressione alla filosofia della Ditta, che va difesa a
prescindere. Dopo la direzione di lunedì, Pier Luigi Bersani non ha
cambiato idea: se la legge rimane così com’è, non la vota. Lo ripete a
un gruppo di deputati che lo accompagna verso il suo ufficio al quinto
piano di Montecitorio. Due stanzette prese in prestito dal gruppo di
Sinistra e libertà, in un labirinto di scale e ascensori,
strategicamente piazzate molto lontano dal Pd e questo è un altro brutto
segno.
Bersani non parla di scissione. Quando il fantasma si affaccia, nel
corso della conversazione, divaga, non risponde, guarda da un’altra
parte. «Vediamo se si fa carico del problema — spiega riferendosi al
segretario —. Noi abbiamo detto: concordiamo alcune modifiche e poi
votiamo l’Italicum tutti insieme sia alla Camera sia al Senato. E lui
che dice? Non mi fido. Ho trovato questa risposta offensiva, molto più
di tante battutine personali che riserva a chi dissente. Non mi fido di
Berlusconi, lo puoi dire. Ma se non ti fidi del tuo partito, è la fine».
Nell’appassionato ragionamento di Bersani, la battaglia è molto più
profonda di un bilanciamento tra preferenze e nominati. «Le preferenze
sono un falso problema. Fanno schifo anche a me, io sono per i collegi.
Ma tra nominati e preferenze, scelgo le seconde. Se non piacciono a
Renzi mi chiedo perché non aboliscono le primarie dove le preferenze
raggiungono l’apice. Dicono: ma diventano uno strumento del malaffare.
Allora io dovrei pensare che tanti parlamentari del Pd li ha portati qui
la mafia?». Non sta in piedi neanche la ricostruzione di Roberto
Giachetti. Bersani sorride: «Il Mattarellum è un sistema imperfetto, ma
se me lo danno lo firmo subito. Giachetti purtroppo ha la memoria corta.
Non avevamo i numeri per far passare la sua mozione, forse non si
ricorda com’era diviso il Parlamento in quella fase. Io comunque andai
dai grillini e chiesi: voi lo votate il Mattarellum? Mi risposero:
sosteniamo la mozione Giachetti. Insistetti: ma la votate sì o no?
Facevano i vaghi, dovevano sentire Grillo e Casaleggio. Ci avrebbero
mandato sotto, ecco cosa sarebbe successo».
Il punto però non sono le polemiche interne. «I giornali — dice Bersani —
sono pieni di veline. Le facevo anch’io quando ero segretario, ma un
po’ mi vergognavo e dicevo ai miei: andiamoci piano. L’Italia adesso si
prende questa legge elettorale e nessun commentatore sottolinea il
pericolo cui andiamo incontro. Vedo un’ignavia diffusa. L’establishment
italiano è una vergogna. Sono 4-5 poteri che dicono: andiamo avanti,
corriamo. E non si chiedono se andiamo avanti per la strada giusta o
verso il precipizio. Potrei fare nomi e cognomi di questi poteri e
scrivere accanto le rispettive convenienze che hanno nel tacere, nel
sostenere questa deriva».
Ecco il cuore del ragionamento bersaniano: la descrizione di questa
deriva. «Renzi vuole l’abolizione della rappresentanza. Punta a una
sistema che non esiste da nessun’altra parte al mondo e che non ci
copierà proprio nessuno perché l’Europa ma anche gli Stati uniti non
sono governati da baluba. Lì si rispetta il voto popolare e si cerca di
comporre le forze e i programmi per rappresentare società complesse in
un momento molto difficile. Qui da noi no». Il ballottaggio, che nella
narrazione di Renzi è una grande vittoria della sinistra, per Bersani è
«un vero pericolo. Non ha niente a che vedere con il doppio turno
francese dove ci sono i collegi. Qui lo facciamo su base nazionale e
serve solo a incoronare un leader, a creare un presidenzialismo di
fatto, una democrazia plebiscitaria. Può capitare che un partito del 27
per cento prenda tutto il potere in un Parlamento di nominati al
servizio del capo. E l’altra metà del Paese la consegniamo ai populisti
con un esito simile a quello francese. In quel sistema presidenziale,
che pure è molto bilanciato, non dai sfogo alla rappresentanza e carichi
una molla che alla fine scatta, esplode. Così ti ritrovi Marine Le Pen.
In Italia può succedere la stessa cosa. Si ammucchiano i populisti,
Grillo e Salvini, e non sai come finisce». La risposta a questa
obiezione manda ai matti Bersani. «Dicono: tanto Renzi dura 20 anni. Ne
siamo proprio sicuri? Secondo me no. La situazione è ancora fluida, la
crisi non è finita. Avete visto i dati sulla disoccupazione? Ci siamo
ancora dentro e non è detto che gli elettori vorranno uscirne con Renzi e
con il Pd. Non dimentichiamo l’esempio di Parma. Disaffezione per la
politica, crisi economica e al ballottaggio vincono i 5 stelle. E’ il
modello che vogliamo per l’Italia? Se l’onda è questa, io non la
seguirò».
L’alternativa andrebbe trovata insieme. «Una correzione che permetta
l’apparentamento al ballottaggio sarebbe già un passo avanti». Se Renzi
mette la fiducia? «E’ stata messa una sola volta sulla legge elettorale e
dopo un ostruzionismo feroce. Era il ‘53, la legge truffa. Sono
cambiati i regolamenti, non so se Renzi si spingerà fino a quel punto».
Ma se lo fa, che succede alla Ditta? «Stavolta prima viene il Paese, poi
la Ditta».
Giuseppe Civati «Contro certe riforme faremo fronte comune con Passera»
intervista di F. M. La Stampa 1.4.15
Non che alla sopravvivenza della legislatura creda un granché, ma ieri
Pippo Civati si è materializzato tra il pubblico della conferenza stampa
di Corrado Passera con in tasca un’idea su come ridurre i tempi
parlamentari per l’approvazione della riforma del Senato. «No, infatti
non ci credo molto che non si vada al voto anticipato dopo
l’approvazione definitiva dell’Italicum. Ma se va avanti il cammino noi
una proposta ce l’avremmo. Anzi, un lodo».
Il lodo Civati?
«No, il lodo Pertici, dal nome del costituzionalista col quale ho
scritto “Appartiene al popolo”. Il ragionamento è semplice: prima
c’erano le grandi intese e ci è stato spiegato che le riforme si
facevano con gli altri. Ora che gli altri non ci sono più si mette la
fiducia. Perché invece non apriamo alle proposte altrui?».
Quali?
«In fondo per mantenere l’impianto di Renzi basta che il Senato non
esprima la fiducia al Governo. Allora perché non aprire agli “altri”
sulla composizione dell’assemblea, sul numero dei parlamentari o sulla
competenza esclusiva di palazzo Madama su alcune materie?».
Non si rischia di complicare ancora di più la riforma?
«Io credo che sia vero il contrario: un Senato non elettivo è più
difficile da portare a casa in termini di articoli della Costituzione da
modificare. Non è difficile capirlo, basta farsi i conti».
Chi dovrebbe sostenere questo lodo?
«Ne ho parlato con Passera, il loro appello come il nostro. È una cosa
talmente trasversale che arriviamo a condividere le cose persino con lui
col quale non c’è certo convergenza in termini politici. Desumo dalle
dichiarazioni in aula che dentro FI e M5S ci siano argomenti che a loro
stanno a cuore e sui quali è possibile trovare del terreno comune. Ecco,
esploriamolo».
Sta forse costruendo la coalizione dei frenatori?
«L’accusa di frenare non esiste. Non c’è nessuna trappola per il
Governo, anzi, nella trappola Renzi ci si è infilato da solo. La riforma
così è parecchio pasticciata, il contenuto dell’Italicum la esalta in
negati
vo e poi non mi pare che abbia incontrato favore popolare per la nomina a
senatore dei vari amministratori locali. Il Senato con l’attuale
impianto sarebbe nient’altro che un’ap
pendice della Camera. Ma allora tanto valeva abolirlo».
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