martedì 28 aprile 2015

Spassosissime nostalgie: Veneziani risorge su Libero; Festorazzi pubblica da Cairo Editore


Il presagio di Piazzale Loreto nel soliloquio di Mussolini
A 70 anni dall’uccisione si rilegge il «testamento politico» del Duce Che si pente di alcune scelte, evocando raggi della morte, figli e posteri 
28 apr 2015  Libero MARCELLO VENEZIANI

Pubblichiamo per gentile concessione di autore ed editore un articolo di Marcello Veneziani sui 70 anni della morte di Mussolini tratto da un libretto fuori commercio in 500 esemplari edito dagli Amici dell' Osteria al Pescatore, con il titolo: Sotto le stelle sull’Isola di Trimelone. (...) e la speranza e l’illusione di una generazione che poi lo disfece e in molti casi era la stessa. Ho rivisto la storia in tutta la sua pienezza tragica e feroce, grande e vigliacca, in epoca di carestia storica. Ho ritrovato i miei quindici anni, proteso a scoprire il tema proibito, la storia che non si poteva dire, il nome che non si poteva pronunciare, lo scempio che non si poteva ricordare, neanche con una messa in suffragio. E la voglia di svelare, l’audacia di andare contro il corso del tempo e della corrente, di raccontare la verità contro tutti, in faccia al vento, fascisti a babbo morto e a viso aperto...  
E poi perché, ripensandoci, non sono riuscito a distogliere lo sguardo della mente da quei corpi sfasciati, ridotti a cartoni smembrati, una donna stuprata accanto al suo uomo che aveva perso il volto. Non provavo odio per quel che era accaduto, e nemmeno vendetta; ma pietà, disperata, assoluta pietà per quei corpi sfigurati e pure per i loro carnefici, e per quella scena, quelle facce, quei gesti atroci. Da giovane, curai gli scritti e discorsi di Mussolini, e l’ultimo dei diciotto volumi si chiamava Testamento politico. Tra quegli scritti c'era anche quel Soliloquio, raccolto dal giornalista Ivanoe Fossani, che risale al 20 marzo del 1945, quaranta giorni prima di Piazzale Loreto. Scrisse la prefazione Vittorio Mussolini, il suo primogenito, che sottolineò l’ossessiva protezione tedesca. Nel soliloquio Mussolini non si riteneva il creatore del fascismo ma l’ostetrico o, per dirla con Socrate, il maieuta. «L’ho tratto dall’inconscio degli italiani» confessa in questo scritto «se non fosse stato così, non mi avrebbero seguito tutti per vent' anni». 
E' bello il titolo leopardiano che fu dato al soliloquio di Mussolini quando fu pubblicato sette anni dopo la sua uccisione, da un editore romano, Latinità: Mussolini si confessa alle stelle. É la solitudine stellare la chiave di questa confessione. È la notte in cui Mussolini dice di tornare a se stesso dopo essere stato in balia dei sorveglianti, spiato per conto di Hitler, con la scusa di essere protetto. Ma è bello, dice l’ex duce, parlare a nessuno dopo aver parlato a folle oceaniche. E indica nella notte stellata, Sirio, «così bella e splendente di felicità perché è sola». Fascisti su Marte, si sarebbe tentati di scherzare. È un Mussolini postumo, oltre la politica, oltre la guerra, oltre il fascismo stesso. La solitudine, sostiene, misura la grandezza morale e intellettuale di un uomo. E nessun uomo può essere più grande della sua epoca. C'è qualcosa di napoleonico nei suoi pensieri estemi, l’isola Trimellone gli ispira similitudini con l’Elba e Sant’Elena. Attribuisce i riti e la liturgia politica del fascismo alla volontà di compiacere «il lato pittoresco degli italiani». Sottolinea la mutevolezza degli italiani, il suo tentativo di farne un popolo, di far progredire i lavoratori, che lo hanno amato, avendo contro gruppi industriali e finanziari. Difende la sua dittatura come «lieve», più lieve di certe democrazie - «il fascismo ha avuto più morti dei suoi avversari e il 25 luglio al confino non c’erano più di trenta persone». Difende i soldati italiani, dicendo che il nostro guaio fu come sempre lo Stato Maggiore, i vertici. Ricorda il figlio Bruno, morto da eroe dopo aver rifiutato ogni privilegio. E suo fratello Arnaldo. Poi sostiene che si legò a Hitler perché costretto dall'ottusa ostilità di Francia e Inghilterra, di cui prevede la fine dell'impero. Confessa che aveva dichiarato guerra perché l’Italia non può restare neutrale, e poi si doveva frenare «il’ngordigia tedesca». Era stato contrario all’attacco contro la Russia deciso dal Fuhrer e azzarda che sarebbe andata meglio la guerra se avesse avuto lui la direzione generale delle operazioni. Parla del raggio della morte, che sarebbe stata un’arma decisiva per la vittoria se Marconi, lo scopritore, non fosse stato sopraffatto da scrupoli religiosi. Poi torna agli astri per notare che la stella dei dittatoSotto: Benito M ussolini e i suoi figli. A destra: una delle grandi opere del futurista Enrico Pram polini, «M ussolini a cavallo» com e esaltazione delle velocità. Sotto il quadro: M arcello Veneziani. Il Duce è anche protagonista di due libri storici firm ati da Roberto Festorazzi ri dura poco nei popoli latini.

Non si pente di aver fatto del bene agli avversari, si pente invece della diarchia col Re e di essersi circondato di dipendenti più che di collaboratori. Il fascismo gli appare rovinato dallo spirito borghese; la sua via era il corporativismo. E infine l’avvenire: i fascisti del futuro dovranno agire con sentimento, non con risentimento, dice, per agevolare una revisione storica. «Non mi processeranno, perché sanno che da accusato diventerei pubblico accusatore, mi uccideranno e poi diranno che mi sono suicidato, vinto dai rimorsi » (difficile pensare a un suicida che si appende a Piazzale Loreto...). «Andrò dove il destino mi vorrà perché ho fatto quel che il destino mi dettò. Quelli che mi uccideranno saranno inseguiti dal mio fantasma... I miei figli veri nasceranno dopo». E infine indica come una sibilla un misterioso «punto di fusione», una specie di kairos del popolo italiano, per il quale, dice, «io darei la vita anche ora, spontaneamente». Quelle parole in solitudine, quell'immagine notturna e stellare, quell' ineffabile punto di fusione al quale donare la vita, quel richiamo ai fascisti che verranno dopo, non ancora nati, infiammarono il romanticismo neofascista dei posteri. Ora che anche quello strascico di fascismo è stato sepolto dal tempo e dagli eventi, ora che sono trascorsi settant'anni e anche i diritti d'autore sono scaduti, è tempo di guardare a quella tragedia senza veleni passionali e conati politici. Ma con la distanza siderale di un evento storico legato a un tempo che non è più il nostro. E con la pietas che si addice all'epos di una tragedia. Su quegli eventi, prima di depositarsi la polvere della dimenticanza, aleggia la poesia, il ricordo di quell'aprile atroce, «il più crudele dei mesi», secondo T.S.Eliot. E risale l’immagine dei Cantos, scolpita ancora a caldo da Ezra Pound, «Ben e la Clara a Milano, per i calcagni...». Settant'anni, l’oblio e l’eternità.

Il fascismo, l’illusoria rivoluzione dei gerarchi predisposti a tradire 
Gli infidi Farinacci e Grandi, i partigiani di Dongo, gli Alleati pavidi Due libri di Festorazzi indagano i giorni dell’abbandono del dittatore 
28 apr 2015  Libero GIANLUCA VENEZIANI 

A 70 anni esatti dalla morte di Mussolini, per capire perché riuscì ad affermarsi e durare il mito del Duce, perché egli non poté avere emuli e perché la sua storia si concluse con un epilogo tragico, forse non è superfluo conoscere i profili di coloro che furono i suoi cortigiani, consiglieri e gerarchi, ma anche i suoi traditori.  
Ecco perché risultano particolarmente interessanti i libri, da poco editi, del giornalista e storico Roberto Festorazzi: Tutti gli uomini di Mussolini ( Cairo, pp. 216, euro 14) eM ussolini 1945: l'epilogo ( Edibus, pp. 276, euro 22). Nel primo l’autore mette a fuoco le storie dei personaggi vicini al Duce, scattando una fotografia quanto mai puntuale della sua classe dirigente, in cui non mancarono gli uomini fidati, così come gli eretici e i voltagabbana. 
Tra i fedelissimi, si staglia la figura di Alessandro Pavolini, primo artefice della macchina culturale del regime, poi diligente ministro della Cultura popolare, quindi numero due della Rsi e teorico del ridotto valtellinese, Termopili del fascismo, dove i gerarchi si sarebbero dovuti sacrificare in nome del Duce. Ma un devoto seguace del Capo fu anche Achille Starace che, per la sua totale obbedienza a Mussolini, forse ingiustamente venne descritto come uno stupido. In realtà Starace fu il principale ideatore della rivoluzione simbolica e stilistica del fascismo: dettò l’italianizzazione delle parole straniere, si batté per l'introduzione del saluto romano e per la sostituzione del lei col voi. E soprattutto si dimostrò sostenitore innamorato di Mussolini anche nei tempi di disgrazia: morì infatti da eroe, gridando «Viva il Duce!» davanti alla sua salma, in piazzale Loreto. 
Fedele all’idea di rivoluzione fascista più che alla persona del Capo era invece Roberto Farinacci, il ras di Cremona, a lungo considerato l’antiduce e il miglior nemico di Mussolini. Sebbene fosse un ultrà del regime, rimase escluso per un decennio dai ruoli di comando del Gran Consiglio del fascismo; e pur essendosi opposto all'ordine del giorno Grandi che esautorò il Duce, visse da emarginato i 600 giorni della Repubblica sociale. Sorte da epurati cui andarono incontro anche figure come quella di Augusto Turati, segretario nazionale del Pnf, esautorato a causa di presunti scandali sessuali; o quella di Leandro Arpinati, che scontò con il carcere le sue idee ritenute fin troppo liberali. Ma oltreché di gerarchi in odore di eresia, la storia del fascismo fu caratterizzata da esponenti infidi e doppiogiochisti, come Dino Grandi, che fece propria l'arte della dissimulazione, per ascendere al potere, entrare nelle grazie di Mussolini e infine eliminarlo politicamente. Una strategia cui aderì, forse ingenuamente, anche Gian Galeazzo Ciano, genero del Capo, divenuto simbolo di un tradimento non solo politico ma anche familiare. 
Da questi ultimi due profili, risulta chiaro come le abiure e le defezioni che portarono alla fine tragica del Duce furono spesso interne all'establishment fascista. Lo dimostra la puntuale ricostruzione che Festorazzi fa in Mussolini 1945: l’epilogo: nei giorni successivi alla Liberazione, molti fascisti, come quelli di Como, rinunciarono a giurare fedeltà estrema al Duce, trattando la resa coi partigiani, o dileguandosi, per pavidità e disillusione. Il tradimento, nota l'autore, fu anche quello dei tedeschi che si erano già accordati per la resa con gli Alleati, a insaputa di Mussolini, e non esitarono a cederlo ai partigiani a Dongo, in cambio della possibilità di superare il confine. Un atteggiamento di pavidità di cui diedero prova anche gli Alleati, che non riuscirono a imporsi sui partigiani del Clnai chiedendo, come avrebbero potuto e dovuto, la consegna di Mussolini vivo. Ma le responsabilità principali, ed è questo l'elemento di maggiore novità del libro, furono quelle del fronte moderato della Resistenza, che accolse le scelte del Partito comunista, e prese insieme ad esso la decisione di fucilare Mussolini. A differenza della vulgata, Festorazzi testimonia come lo stesso generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo volontari della libertà, uomo dell’esercito poi approdato alla DC, si spese perché il Duce fosse giustiziato e non ceduto agli americani, in quanto «processare Mussolini avrebbe significato processare l'intero Paese». 
A dimostrazione che, prima ancora che da fascisti o da partigiani moderati, da tedeschi o da americani, il Duce fu in primo luogo tradito dagli italiani.

Nessun commento: