domenica 5 aprile 2015

Utopia e tragedia del Mondo Nuovo sovietico: tradotto "Cevengur" di Platonov


La Guerra fredda culturale non finisce mai; ma anche nella sue strumentalità è possibile trovare frammenti significativi della storia [SGA].

Andrej Platonov: Cevengur, traduzione di Ornella Discacciati, Einaudi

Risvolto
Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.
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Frutto di inquietudini moderniste, Cevengur di Andrej Platonov rientra a pieno titolo in quel filone della letteratura russa nel quale la fede incondizionata nelle teorie non godeva di largo credito. A quelle visioni del mondo preconfezionate, sostenute con forza dall'intelligencija radicale, scrittori come Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj opposero, con pervicacia al limite dell'ostinazione, autentici capolavori. I più grandi romanzi dell'Ottocento russo sono, come è stato detto, «romanzi di idee nella misura in cui sono romanzi che lottano contro la supremazia delle idee»: si cimentano con la materia della realtà, con le scelte quotidiane del singolo, con l'imprevedibilità della vita e preferiscono instillare dubbi piuttosto che diffondere credo. Se in Cevengur il tessuto polifonico, la costruzione argomentativa, l'esposizione delle teorie coeve con una lucidità che già da sola ne smaschera la disumanità, rinviano ai grandi romanzi di Dostoevskij, come non ascrivere a Tolstoj, il «profeta della carne», l'assillo tutto platonoviano per la caducità del corpo umano e per le passioni carnali?


Il comunismo morto in culla nel "paradiso" dei proletari
"Cevengur" di Andrej Platonov. Dalla rivoluzione alla guerra civile. Un gruppo di spiantati nella Russia anni '20 alla ricerca dell'impossibile socialismo reale. E l'utopia diventa una tragica farsaDaniele Abbiati - il Giornale Sab, 18/04/2015

Nella steppa dei soviet la discesa di Platonov al villaggio degli ultimi 


Montefoschi Domenica 5 Aprile, 2015 CORRIERE DELLA SERA
Cevengur , il capolavoro di Andrej Platonov che oggi leggiamo nella splendida traduzione di Ornella Discacciati (Einaudi), fu scritto nella seconda metà degli anni Venti; ma in Russia venne pubblicato solo nel 1988. Comprensibilmente. Perché Platonov in questo sterminato libro corale davvero unico — un libro che alterna il passo lungo del racconto che vuole restituire la realtà in ogni suo dettaglio, a momenti lirici meravigliosi — non fa altro che raccontare, dal di dentro, da comunista che ci ha creduto (anche se la tessera del Partito la restituisce dopo un solo anno), la storia di una utopia fallita. Come poteva non essere odiato da Stalin? Non essere messo al bando? Infatti fu perseguitato; e morì in miseria. 

L’incipit di Cevengur è straziante. E contiene tutto. Siamo ancora in epoca zarista. Un pescatore che ha perso sua moglie, povero, ignorante e però curioso di sapere cosa c’è oltre la morte, affoga in un lago. Al funerale, suo figlio Sasha, un bambino, è davanti alla bara. Gli dicono di dire addio a suo padre perché per i secoli dei secoli non lo vedrà più. Lui si china, ma non sente l’odore di sudore, di pesce, di lago, che aveva la camicia di suo padre quando era vivo, perché gliene hanno messa un’altra. Allora si volta a guardare intorno. Vede degli estranei. Capisce che sarà solo per sempre. E, cominciando a piangere, si aggrappa ai lembi di quella camicia che non ha più nessun odore di vita, come se quella camicia potesse difenderlo. 
Sasha, dunque, è orfano. In un primo momento, è adottato da una numerosa famiglia, la famiglia Dvanov, che vive nella assoluta miseria e viene mandato in giro a elemosinare le croste di pane. Quindi fugge. Finché un vecchio del villaggio, un certo Zachar Pavlovic, pure lui solo, non lo rintraccia e lo prende con sé. Pavlovic è un personaggio che sarebbe piaciuto molto a Dickens. Il suo interesse è per gli oggetti: di qualsiasi materia. La sua capanna è piena di attrezzi con i quali è capace di riparare qualsiasi cosa. Ora, ha grande passione per i treni: quei vagoni neri stupendi, trainati dalle altere locomotive, che da così poco tempo solcano le immense distese della Russia, corrono sprizzando scintille sui binari, o procedono lentamente, e la notte fanno sentire il loro ululato. I treni — pensa Zachar, felice di poter lavorare ai treni — sono macchine impressionanti che celebrano la forza dell’uomo. Il cielo è un grande nodo ferroviario. Sasha Dvanov, invece, legge. E molto spesso contempla le stelle. 
Lo ritroviamo che ha 17 anni, il vuoto dentro e nessuna corazza sul cuore. Intanto è scoppiata la rivoluzione e c’è la guerra: dentro e fuori i confini. La morte è dietro a ogni scalpitare di zoccoli. Vengono istituiti i soviet, si compongono comitati esecutivi, si avviano ispezioni nei governatorati allo scopo di vedere in che modo vive la gente. E la gente è entusiasta, sgomenta, e come ebete in questo grande sommovimento che deve produrre l’uguaglianza, la felicità, la liberazione dallo sfruttamento. Però continua a morire di fame — brodo e buccia di patate — mentre passa il treno blindato dei Bianchi, e poi quello dei Rossi stipati di corpi ignari che non sanno dove vengono trasportati e perché, e si grattano i pidocchi nel sonno. I viandanti che attraversano i villaggi non sanno rispondere a chi domanda loro dove vanno, oppure dicono: dove capita, e disperdono la sofferenza nel cammino. I briganti tendono agguati. Il tifo uccide. I corpi bussano invano alle porte dell’anima. Il sapore della buona vodka, trasparente come l’aria di Dio o la lacrima di una donna, è un ricordo. Il pacifico odore della campagna: bruciaticcio di paglia e latte riscaldato, è inghiottito da quello della sporcizia e del sangue. 
E i treni vanno: «i trasporti sovietici sono i binari per la locomotiva della storia»; nelle comuni, alla luce di lampadine nude che ogni tanto si spengono, si svolgono discussioni estenuanti, al termine delle quali gli oratori mettono in guardia i bolscevichi perché devono sapere che la Russia sovietica è come una giovane betulla sulla quale da un momento all’altro può avventarsi la capra del capitalismo; le foreste sono abbattute per costruire le case e liberare il terreno per le semine; il bestiame è ammucchiato e diviso; le tenute dei nobili sono requisite; il pane e qualsiasi genere alimentare, piuttosto che essere accumulato, deve essere distrutto per il bene di tutti; l’esaltazione fa dire che i soviet sembra che esistano da sempre, fin dai tempi antichi e il cielo uniforme della Grande Russia è la loro copia esatta. 
Dov’è finito, nel frattempo, Sasha Dvanov? Ha amato Sonja, una ragazza pura come il pane fresco e come il mattino, ma per la rivoluzione ha rinunciato a questo amore; si è avventurato nelle regioni più lontane a verificare a che punto è la realizzazione del comunismo; ha condiviso con una quantità di personaggi il dubbio sulla reale esistenza di un qualcosa che non si sa mai bene fino in fondo cosa sia, eppure risponde a un bisogno di uguaglianza, di fratellanza, di movimento in avanti perché quella spinta a costruire un progetto universale, che tutti sentono, non si esaurisca; ha conosciuto uomini cattivi e buoni, innamorati (come un tale Kopenkin, che nella fodera del berretto ha cucito il ritratto di Rosa Luxemburg) e disperatamente infelici perché non sanno a chi abbracciarsi; quindi è approdato a Cevengur. 
Cevengur è un piccolo villaggio della steppa che, dopo esser stato attraversato dalla rivoluzione, adesso sembra dimenticato dal mondo. Lo abita un’esigua popolazione di miseri — superstiti di una tragedia, piuttosto che di un trionfo — simili a veri e propri fantasmi. Di giorno vagano oziando nelle strade che non riconoscono più perché le case sono state spostate, senza un motivo, e il paese ha cambiato la sua fisionomia; la notte, soprattutto durante le bufere invernali, dormono sul pavimento per essere più vicini alla terra e alla tomba. Certo, c’è un soviet anche a Cevengur, «il soviet della umanità sociale della regione liberata di Cevengur», ma i suoi abitanti continuamente si domandano: dov’è il socialismo? E Dvanov, che dopo anni ha rincontrato il fratellastro Prokofij, un tipo diverso da lui, assai meno spirituale, si arrovella, pensa che lì il comunismo, se davvero esiste, è da rifare da capo e forse, per sapere una volta per sempre qual è la verità, bisognerebbe scrivere al compagno Lenin al Cremlino. 
Siamo nel cuore del romanzo, a questo punto. La risposta che Dvanov vorrebbe avere da Lenin, i fantasmi di Cevengur la cercano e la trovano nel vuoto. Possono loro, dopo secoli di oppressione, sopravvivere in un vuoto che li opprime altrettanto crudelmente? O non devono suscitare in questo vuoto un nemico che, nell’odio, li faccia sentire di nuovo vivi? Il nemico sono i piccoli borghesi, niente altro che dei contadini, rimasti nel villaggio. La scena del loro massacro – costruita con una sapienza dei movimenti e delle emozioni che possiamo definire straordinaria – è terribile. 
Ma dopo, quando anche i piccoli borghesi sono stati cancellati dal mondo, a Cevengur ritorna il vuoto. E il vuoto universale è insostenibile: è come la «tristezza indifesa» che si respira nel cortile della casa del padre da cui è appena uscita la bara della madre e tutti piangono, e più di tutti piange un bambino che, allo steccato, accarezza le assi ruvide nel buio di un mondo spento. Così per avere ancora qualcuno da guardare in faccia, da Cevengur partono messaggeri nella steppa infinita a cercare i più poveri dei poveri: gli «ultimi». E loro arrivano: per essere fra le vittime del misterioso eccidio finale che rade al suolo Cevengur. Mentre Dvanov, che all’eccidio è sfuggito, torna sulla riva del lago in cui è annegato suo padre, ci entra dentro: lentamente, e va a cercarlo.  © RIPRODUZIONE RISERVATA

Platonov, villaggio dell’utopia in attesa messianica
Scritto dall'autore sovietico tra 1926 e 1929, «Cevengur», riproposto da Einaudi. Un esperimento letterario per dare volto a un fenomeno fantasticato lungo i secoli e «ora» realizzato: il comunismo
Che cosa abbia por­tato a Ceven­gur il seme del comu­ni­smo non è dato di sapere. Forse il dif­fon­dersi del sistema delle comu­ni­ca­zioni. O forse uno dei pro­digi tec­nici dell’epoca come ad esem­pio la fer­ro­via, nello spe­ci­fico la fer­ro­via tran­si­be­riana. Lo dimo­stre­rebbe il fatto che Ceven­gur ha un suo pro­feta e que­sto pro­feta, Zachar Pavlo­vic, che è di ori­gine con­ta­dina, però non ha occhi che per le mac­chine create dagli uomini e quando per la prima volta vede una loco­mo­tiva ha come una rive­la­zione.
Ma si può fare anche un’altra ipo­tesi. La seguente: che a ren­dere pos­si­bile il comu­ni­smo di Ceven­gur e a inne­scare un pro­cesso poli­tico tanto com­plesso sia stato il sistema dei soviet. Come tutti sanno i soviet o «con­si­gli ope­rai» sono degli orga­ni­smi cel­lu­lari dotati di una loro auto­no­mia e capaci di ripro­dursi nel corpo della società esat­ta­mente come gli orga­ni­smi cel­lu­lari nel corpo della natura. Que­sto per­met­te­rebbe fra l’altro di spie­gare l’origine al tempo stesso natu­rale e poli­tica di quell’evento che ha nome comu­ni­smo e che a Ceven­gur si è mani­fe­stato in modo emble­ma­tico.
Sia come sia, ci tro­viamo di fronte a uno strano rac­conto che non sap­piamo come defi­nire e come cata­lo­gare: fiaba? romanzo? epo­pea? Ma i generi let­te­rari qui non aiu­tano gran­ché. Que­sto ha sem­mai l’aria d’essere un espe­ri­mento. Sì, un espe­ri­mento per por­tare alla luce con gli stru­menti della let­te­ra­tura e anche della filo­so­fia i tratti di un feno­meno – il comu­ni­smo, per l’appunto – per secoli fan­ta­sti­cato e ora rea­liz­zato. A imma­gi­narlo comun­que è stato Andrej Pla­to­nov – Ceven­gur, a cura di Orbella Discac­ciati, Einaudi «Let­ture», pp. 506, euro 26,00.
Pla­to­nov si era dichia­rato comu­ni­sta fin da subito. Nel 1920 aveva preso la tes­sera del Par­tito (salvo resti­tuirla poco dopo), pre­stando tut­ta­via al Par­tito la sua opera come inge­gnere addetto alla boni­fica delle cam­pa­gne. Non ne sarebbe stato ricom­pen­sato in alcun modo; ma, igno­rato dalla cri­tica, sot­to­po­sto a cen­sura, impri­gio­nato, depor­tato, avrebbe con­ti­nuato a cre­dere nel comu­ni­smo. E a spe­rare nella sua rea­liz­za­zione a venire. Anche quando, dopo la pub­bli­ca­zione su rivi­sta del rac­conto A buon pro, Sta­lin scrisse di suo pugno in mar­gine: «Punire in modo esem­plare i redat­tori, e che ‘buon pro’ gli fac­cia».
Natura o società? Natura o poli­tica? Natura o tec­nica? Pla­to­nov muove da domande di que­sto genere. Sa bene che si tratta di un’opposizione inclu­siva e non esclu­siva. Ma pur sem­pre di un’opposizione. Tant’è vero che solo tenendo ferma l’antitesi fra i poli è pos­si­bile cogliere nella natura qual­cosa ancora da sco­prire: latenti poten­zia­lità vitali, pre­ziose riserve di senso, incom­pa­ra­bili sor­prese. Solo com­pren­dendo che la natura ha ben poco a che fare con quella che è o è stata la società fino ad ora, così come non ha nulla da spar­tire con la poli­tica e men che nulla con la tec­nica, secondo Pla­to­nov vedremo venirci incon­tro dal cuore stesso della natura la sola novità nella sto­ria dell’uomo che è desti­nata a cam­biare non solo la sto­ria ma anche l’uomo: il comu­ni­smo. Dopo la quale novità non ci sarà più sto­ria. Ma solo l’uomo senza sto­ria per­ché vit­to­rioso sulla fini­tezza, sulla cadu­cità e sulla morte.
Lo sa bene il pic­colo Saška, figlio del pesca­tore che si immerse nello sta­gno per vedere che cosa ci fosse al di là e che lo sta­gno resti­tuì tre giorni dopo senza vita. Che cosa ci fosse al di là della morte non lo sco­prì il pesca­tore, ma lo sco­prì Saška, già a dicias­sette anni diven­tato il com­pa­gno Dva­nov, a Ceven­gur. Al di là della morte c’è la vita senza la morte. C’è la vita qual è al di qua della morte. La vita senza la morte. Senza il male, senza la sof­fe­renza, senza l’ingiustizia. La vita, e basta. La vita dove nes­suno si chiede quale sia il senso della vita. La vita paga di sé, che non ha biso­gno di nient’altro. Soprat­tutto se que­sto «altro» è il pro­fitto e quindi lo sfrut­ta­mento, non solo sfrut­ta­mento reci­proco ma prima ancora sfrut­ta­mento della terra.
A Ceven­gur il comu­ni­smo è «la forza della natura» che preme tanto negli uomini quanto nelle cose e trova voce nelle que­stioni che gli abi­tanti si pon­gono libe­ra­mente gli uni gli altri, que­stioni come: se il potere dei soviet avrebbe potuto estrin­se­carsi «all’aperto» o avrebbe dovuto costrin­gersi nel chiuso delle isti­tu­zioni. Rispo­sta: all’aperto. Infatti la terra offre spon­ta­nea­mente a chiun­que il nutri­mento neces­sa­rio – a chiun­que si affidi ad essa senza pre­ten­dere se non ciò che essa ha da dare, e cioè la vita così com’è, la vita senza alcun sur­plus di vita. Pro­fitto, sopraf­fa­zione, asser­vi­mento degli uni agli altri: tutte que­ste cose sono ciò che il comu­ni­smo non è, per­ché il comu­ni­smo è fidu­cioso abban­dono alla vita, è vita che genera vita da sé, senza l’intromissione di pra­ti­che appa­ren­te­mente umane ma fon­da­men­tal­mente disu­mane, come per esem­pio il lavoro.
Certo il lavoro resta un pro­blema. Non lo si può liqui­dare affret­ta­ta­mente. Infatti viene discusso in quell’assemblea per­ma­nente che è Ceven­gur. La solu­zione adot­tata porta la firma del com­pa­gno Pro­ko­fij e del dele­gato Cepur­nyj: non si vede per­ché lavo­rare, se è vero che «ogni lavoro e impe­gno erano stati inven­tati dagli sfrut­ta­tori affin­ché oltre ai pro­dotti del sole restasse loro un plu­sva­lore abnorme» e se è indub­bio che «il sistema solare avrebbe for­nito per certo la forza vitale al comu­ni­smo, pur­ché fosse assente il capi­ta­li­smo». Rin­cuo­rato dall’acquisizione di que­sta cer­tezza e raf­for­zato nella sua fede, dopo aver prov­ve­duto per­so­nal­mente a far fuori e a sep­pel­lire i resti della bor­ghe­sia di Ceven­gur, Cepur­nyj va nel verde deserto dei campi a cer­care «il pre­sen­ti­mento del comu­ni­smo».
Non lo trova. E pur­troppo non lo trova nean­che nei pode­rosi volumi di Karl Marx, stra­na­mente. Ma per for­tuna ci sono gli «ultimi». Essi non hanno nulla. Non solo. Hanno per­duto tutto, in quanto sono stati strap­pati a un mondo (non importa quale) di valori sim­bo­lici, di signi­fi­cati con­di­visi, di sogni e di spe­ranze, e nep­pure sapreb­bero dire da quando. Forse da sem­pre. Ma è pro­prio que­sta ulti­mità, que­sta povertà totale e senza rime­dio, que­sto essere biso­gnosi di ogni cosa a far sì che ogni cosa di cui hanno biso­gno gli sia resti­tuita. E da chi, se non dalla natura? Infatti nella natura c’è tutto ciò di cui gli uomini hanno biso­gno. Né si può dire che la natura tenga per sé que­sto suo tesoro pre­zioso. Al con­tra­rio, la natura pro­pone se stessa in libera offerta a tutti – a tutti coloro che, tro­van­dosi in una con­di­zione di per­fetta indi­genza, sono in grado di cor­ri­spon­dere alla gene­ro­sità della natura.
Eppure i conti non tor­nano. A Ceven­gur la vita non è né lieta né felice. Nella patria del comu­ni­smo rea­liz­zato vivere è patire. Manca l’essenziale. Si fa la fame. Ma c’è di più. C’è che un bam­bino ha cer­cato inu­til­mente di sug­gere il latte ai seni di sua madre esau­sta ed è morto. Un bam­bino non può morire nella patria del comu­ni­smo rea­liz­zato. Se muore, quella non è la patria del comu­ni­smo rea­liz­zato, evi­den­te­mente. E allora come la met­tiamo? Dovremo dire ancora una volta che l’utopia è fal­lita? O, peg­gio, che l’utopia non è altro che uto­pia e quindi non ha luogo per­ché non può averlo? Pla­to­nov con la sua para­bola stra­lu­nata sem­bra sug­ge­rire un’altra ipo­tesi, tutta interna alla tra­di­zione mes­sia­nica. E chiede: forse che il mes­sia non è sem­pre di là da venire? La paru­sia, il secondo avvento, la pie­nezza dei tempi non sono forse qui e ora a misura che non sono mai? Gli abi­tanti di Ceven­gur vor­reb­bero tra­sfor­mare que­ste domande in deli­bere da met­tere ai voti. Ma non ce la fanno. Arriva una banda di cosac­chi che li passa tutti a fil di spada.

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