lunedì 4 maggio 2015

Ce lo terremo per 20 anni

E ora il leader prepara la sterzata a sinistra: c’è bisogno anche dei dissidenti

Nella strategia di pace l’offerta della direzione dell’“Unità” a Cuperlo, che però rifiuta Palazzo Chigi studia un bonus per i bambini poveri

di Goffredo De Marchis Repubblica 4.5.15

ROMA Matteo Renzi oggi vuole vincere, anzi stravincere la battaglia sulla legge elettorale. Ha forzato con la fiducia e sta per portare a casa l’Italicum senza il patto del Nazareno e senza un pezzo del suo Pd. Ma già da alcuni giorni ha avviato una strategia per non rimanere scoperto a sinistra, per arginare la reazione della minoranza interna che parla di «macchia indelebile», di «ferita alla democrazia». Lo farà a partire dal giorno successivo all’approvazione della riforma con un’azione concentrica che passa attraverso i provvedimenti del governo e una serie di mosse dentro il Partito democratico.
Nella settimane scorse ha offerto a Gianni Cuperlo la direzione dell’ Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci che tornerà in edicola a settembre. È questa l’idea «bislacca» di cui ha parlato ieri a Bologna dove non a caso c’era l’ex presidente dem, unico tra i dissidenti a partecipare alla festa dell’Unità. Il corteggiamento continua (ed è continuato anche ieri) perché il premier sa quanto Cuperlo sia affezionato al quotidiano che ha interrotto le pubblicazioni ad agosto. La corda toccata da Renzi è molto sensibile. È un modo per aprire all’opposizione garantendo spazio e visibilità alle idee non renziane. Cuperlo ha già risposto “no grazie”, ma Renzi non si rassegna ed è sicuro di poter riavviare il dialogo con una parte della sinistra. Magari non tutta, certo. Civati, Fassina, D’Attorre, Speranza sono considerati con un piede già fuori. Irriducibili e forse irrecuperabili. Ma il segretario-premier, dicono a Palazzo Chigi, sa che il Pd non può rinunciare a un seme di sinistra dentro il suo partito. Proverà ancora a innaffiarlo.
L’altro fronte è quello della scuola. Il disegno di legge dell’esecutivo, in commissione, sta cambiando forma. In alcuni casi nella direzione chiesta da chi contesta, nel sindacato e nel Pd. Renzi non ha alcuna intenzione di ritirare la norma come gli chiedono molti oppositori. Però il governo pensa a un’apertura, anche dopo lo sciopero di domani. Sciopero che mobiliterà la minoranza dem dopo la prevedibile sconfitta di oggi sull’Italicum. In piazza con i sindacati ci saranno D’Attorre, Civati, Fassina e altri parlamentari. Non ci sarà Speranza, ma non perché si tira indietro. «Non vado, ma confermo la mia posizione sulla legge elettorale — dice l’ex capogruppo —. Matteo fa le riforme non solo a maggioranza ma nemmeno tutta la maggioranza. Fa finta di non vedere, ma ha messo in discussione le istituzioni. È una macchia per il Paese ».
Sono toni che non lasciano presagire una ricomposizione, la ripresa del dialogo a breve termine. «Non se la caverà nemmeno con un emendamento alla riforma della Costituzione», avverte D’Attorre. È la mossa che tutti si aspettano da Renzi che ha ora sul tavolo alcuni problemi. Le risorse da destinare al riordino delle pensioni, per via della sentenza della Corte Costituzionale. Le regionali, che in alcuni casi hanno bisogno del sostegno di tutto il partito e non solo della sua area renziana: in Liguria, in Puglia (dove si annuncia un’astensione ai livelli dell’Emilia Romagna), in Campania. In più il segretario deve staccare definitivamente i “responsabili” di Area riformista, quelli che hanno votato la fiducia, dagli irriducibili. «Renzi sparge parole buone dopo aver provocato lo strappo. Fa sempre così — ricorda un dissidente —. Stavolta però ha il problema del Senato dove rischia il Vietnam su ogni provvedimento».
In effetti a Palazzo Madama la maggioranza ha veramente pochi voti di margine. Basta un pugno di ribelli e può andare sotto. Non è semplice andare avanti così. Ventiquattro senatori del Pd hanno già rifiutato l’Italicum e sono pronti a dire no alla riforma costituzionale. Ma non ci sono soltanto i temi istituzionali. La minoranza punta ad attaccare anche sui numeri dell’economia e dell’occupazione. Renzi è obbligato a mandare messaggi anche in questa direzione se vuole evitare una “scissione” che potrebbe tradursi in gruppi autonomi in Parlamento. Per questo ieri ha fatto capire che non rinuncerà a investimenti pubblici, malgrado il problema delle pensioni. L’idea, i tecnici sono già al lavoro per capire quanto realizzabile, è quella del bonus per i bambini sotto la soglia di povertà. Una misura di sinistra. Ma oggi è il giorno dello scontro, in cui i dissidenti drammatizzeranno l’esito del voto a Montecitorio. E forse dopo sarà difficile recuperare dentro il Pd. 



«Chiamateli, voglio parlare con loro». Quella convocazione al volo dei Cobas

Il leader a Cuperlo: benvenuto a casa tua. E potrebbe dargli la direzione dell’Unità

di Fabriziuo Roncone Corriere 4.5.15

BOLOGNA Gli agenti del reparto mobile alzano rilassati la visiera del casco mentre i militanti camminano sull’erba e gridano «Dai Matteo!», «Sei forte Matteo!», certi ancora con il pugno chiuso da vecchio Pci e gli occhi lucidi, tra emozione e stupore, perché il segretario-premier è sceso dal palco, s’è avvicinato alle transenne e ha dato baci, preso e dato pacche sulle spalle, e carezze, e buffetti come raramente se n’erano visti a una Festa dell’Unità: e tutto questo mentre dagli altoparlanti rimbomba la voce da caverna forte e travolgente di Ligabue che canta «Siamo chi siamo».
All’improvviso, però, nella bolgia, Matteo Renzi si volta.
«Dove sono andati?».
Il ragazzo dell’organizzazione farfuglia: «Dove sono andati… chi?».
«I precari della scuola che prima fischiavano. Chiamateli, voglio parlarci».
Quelli dello staff si guardano perplessi, quelli della scorta mettono su musi contrariati: bisognerebbe partire subito per Milano, gli spostamenti di un presidente del Consiglio prevedono protocolli di sicurezza rigidi.
«Forse non mi sono spiegato: voglio parlare con quei precari. Voglio spiegargli che riforma della scuola abbiamo in mente».
Sono una ventina, ma hanno fatto un certo baccano durante il comizio. Prima, giù in strada, hanno cantato «Bella ciao» dandosi il ritmo con pentole e tamburelli; poi hanno nascosto tutto in due borsoni e, tranquilli, sono entrati.
Perché era cominciata così: parco della Montagnola presidiato, blindati a ogni cancello, perquisizioni. Prego: mi apre lo zainetto? Cos’ha in tasca? Un centinaio di giovani dei centri sociali gira largo e va a mettersi sotto la scalinata di piazza XX Settembre. Scandiscono qualche slogan, il più originale dei quali è: «Renzi\ carogna\ fuori da Bologna!». Poi fingono di andarsene mesti; invece marciano per cento metri e cercano di forzare in piazza 8 Agosto. Ma non è giornata. Sputano e lanciano uova, vernice, un paio di bottiglie di birra vuote; la polizia accenna una carica leggera. Volano calci, qualche manganellata: una ragazza portata via in barella, tre ragazzi fermati.
Dentro, alla festa, nessuno ha sentito.
In cima alla salita, il compagno Ettore controlla un po’ deluso la teca con le offerte. Qualche moneta da un euro, due banconote da 5, il cinquantino rosa che, generosamente, a favore di telecamere, aveva fatto scivolare Gianni Cuperlo.
Della minoranza Pd, solo lui. Ovviamente molto intervistato. E, a sorpresa, anche contestato.
Gruppetto di militanti.
Le facce belle e pulite che uno s’aspetta di vedere a una Festa dell’Unità.
Ti dicono: noi siamo gente che Renzi, guardi, per essere sinceri, non è che Renzi poi ci faccia impazzire.
«E infatti — dice la signora Tiziana Albertina Ramponi di anni 55, da Pieve di Cento — noi alla primarie s’era votato prima per Bersani e poi per Cuperlo. Solo che adesso…».
Adesso?
«Beh, adesso, non ci piacciono i comportamenti di quello lì…» (e indica, con una smorfia di biasimo, Cuperlo, che intanto allo stand delle piadine sta salutando la cuoca).
Continui.
«Prenda la legge sull’Italicum: prima gli andava bene, poi hanno cambiato idea, con scuse assolutamente pretestuose. Lui, Bersani, Fassina… quanti sono? Arrivano a 40? No, non ci arrivano. E però, lo stesso, vogliono fermare le riforme e spaccare il partito. Dai, si può?».
Cuperlo è andato ad ascoltare Renzi, mischiato tra la folla. Poco più in là c’è Gennaro Migliore. La guardia renziana è invece tutta sotto al palco (Puglisi, Bonifazi, Carbone, Morani). Annuiscono entusiasti, applaudono senza sosta e quando Renzi dice: «A parte la mia maestra Eda di cui vi ho già parlato… io sono anche figlio di insegnanti, i miei suoceri sono insegnanti, mia moglie è insegnante… e perciò li conosco i problemi degli insegnanti, e non è con quei fischietti, con i vostri fischi, che restituiremo dignità ai docenti!», ecco — quando Renzi finisce questa frase — la Morani si guarda con Carbone e insieme si dicono: «Vabbé, no, è proprio un fuoriclasse…».
Seguono altre frasi che daranno titoli ai giornali. «Io non schiaccio la testa a nessuno». «Non ci fermeremo a cento metri dal traguardo come Dorando Pietri». « L’Unità tornerà in edicola». Poi, rivolto a Cuperlo, che alcuni sospettano possa essere il nuovo direttore del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: «Benvenuto a casa tua» (molti lo interpreteranno come un omaggio di pace quasi cavalleresco, anche in vista dell’imminente voto finale sull’Italicum: ma, forse, andrebbe studiato il mezzo ghigno sfuggito a Renzi, in quel momento).
E così torniamo alla scena iniziale.
La folla che ondeggia eccitata e Renzi che, voltandosi di scatto, s’allontana dalle transenne, dai selfie, e come colto da un’intuizione improvvisa, chiede ai suoi di poter incontrare i precari della scuola.
Il compagno Fosco dice che i Cobas sono gente tosta e l’incontro chissà quanto può durare. Perciò lui se ne va a mangiare le tagliatelle fumanti che, laggiù, sotto gli alberi, sta servendo in tavola la signora Elisa .



l premier ai prof: “Senza il ddl saltano 100 mila assunzioni”
di Silvia Bignami Eleonora Capelli Repubblica 4.5.15

BOLOGNA Una domenica blindata a Bologna per il premier Matteo Renzi, che ha chiuso la Festa dell’Unità. Dentro al parco dove si teneva il comizio, 3mila persone con le bandiere del Pd, mentre fuori dai cancelli la polizia faceva partire una carica per allontanare i manifestanti di collettivi universitari e centri sociali. Alla fine degli scontri è rimasta sdraiata a terra una donna di 60 anni, poi ricoverata in ospedale per la frattura scomposta del braccio destro, che non faceva parte della protesta. Sono stati medicati in ospedale anche una ragazza di 23 anni, attivista del collettivo universitario Hobo, e un giovane di 21. Tre i fermati per resistenza a pubblico ufficiale. I manifestanti erano circa un centinaio, con striscioni contro il Jobs Act e la riforma della scuola, e davanti all’ingresso si sono trovati faccia a faccia con i poliziotti in tenuta antisommossa, in uno spazio già affollato per il mercato. Per entrare nell’area del dibattito hanno cominciato a spingere, lanciare uova e acqua, sputando e cantando contro la polizia. Che poco dopo ha fatto partire la carica. Poco lontano c’era anche una pacifica protesta di insegnanti con pentole e cucchiai, e un piccolo drappello di docenti, circa una cinquantina, è riuscito a entrare e ha accompagnato il discorso di Renzi con qualche fischio. Tra loro sindacati di base e anche i rappresentanti del movimento della scuola che avevano già costretto il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini alla fuga la scorsa settimana, sempre dalla festa di Bologna. Renzi, però ha sfidato i fischi: «Mi hanno detto di non parlare della scuola, perché qui c’è chi contesta la nostra riforma, ma io non mi faccio spaventare da tre fischi. Noi “teniamo botta”, come si dice a Bologna, noi dobbiamo cambiare l’Italia». Anzi, proprio sulla scuola il premier apre per la prima volta con chiarezza a modifiche al suo disegno di legge: «Non è una riforma da prendere o lasciare. Ci sono alcuni aspetti in sui possiamo cambiarla e ci sono molte cose che cambieremo, non pretendiamo di avere la verità in tasca. Ma fischiando e urlando non restituiamo dignità sociale alla scuola». Parole che prendono forma dopo il comizio, quando Renzi si trattiene per oltre un’ora insieme a quattro delegati della protesta. Avanti tutta invece, sull’Italicum, la cui corsa si conclude oggi con la pattuglia dei no che rischia di allargarsi: «Non ci fermiamo a 100 metri dal traguardo». Tra questi ci sarà anche il voto «non favorevole» di Gianni Cuperlo, che però ieri Renzi ha ringraziato della presenza dal palco, dopo le polemiche per il mancato invito alla Festa dei big della minoranza: «Benvenuto a casa tua. Insieme faremo ripartire l’Unità entro la festa nazionale del Pd a Milano». Dunque entro settembre. 


Renzi contestato alla festa Pd “Non mi spavento per tre fischi”

Tensione a Bologna con i precari. “Ma sulla scuola abbiamo messo tre miliardi e faremo centomila assunzioni” Sulle riforme apre alla minoranza “non barricadera”

di Carlo Bertini La Stampa 4.5.15

Quando tutto è finito, prima di infilarsi in auto, camicia sbottonata e giacca blu, Matteo Renzi ha lo sguardo del combattente uscito vittorioso dall’arena più complicata che ha dovuto affrontare da quando è premier. Il corpo a corpo con i precari della scuola proprio alla festa dell’Unità non è stato una passeggiata, ma sul premier ha avuto l’effetto di un tonico. «Bello, è andata bene. All’inizio erano partiti che non volevano farmi parlare, ma sono andato avanti e a poco a poco si sono azzittiti». È stata dura, sembrava potessero sovrastarlo urla e improperi del drappello di precari arrabbiati, incalzati a loro volta dalle grida di chi voleva ascoltare il comizio in pace. Ma poi strillando più forte e aiutandosi con qualche battuta Renzi è riuscito a gestire le tensioni. «E le cose gliele ho dette tutte, abbiamo messo 3 miliardi sulla scuola, assumiamo 100 mila precari, è chiaro che chi urla sono quelli che resteranno fuori». Un’ora prima l’odore della battaglia è nell’aria, «si sono nascosti» dicono quelli del servizio d’ordine e tra polemiche per il mancato invito a Bersani e lo scontro con la sinistra sulla fiducia, il clima non è da classica festa tortellini e pacche sulle spalle.
Fuori sputano e lanciano uova ai poliziotti i ragazzi dei centri sociali che sfilano impotenti davanti le grate del parco della Montagnola, reso fortino inaccessibile in piena città da cordoni di forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa. Il popolo Pd arriva alla spicciolata, il primo che si fa vedere è Gianni Cuperlo, che però si becca le bacchettate di anziani compagni emiliani che pure lo avevano votato alle primarie. «Ma sulla legge elettorale hanno avuto tutto quello che chiedevano, il 40% per il premio, insomma tutto e ora non gli sta più bene. Si vergognino», esplode Fiorenzo da Forlì, figlia disoccupata e tanta acredine addosso. Ma è proprio scandendo dal palco che «qui Gianni si deve sentire a casa sua, io e lui abbiamo idee bislacche su come rilanciare L’Unità», inteso come giornale e forse come partito, che Renzi apre a quella sinistra meno barricadera che invece di votargli contro preferisce astenersi con toni sempre soft. Del resto, al militante che lo carica all’arrivo, «schiaccia la testa agli elefanti del partito, non mollare», il premier non dà soddisfazione. «Non mollo, ma non schiaccio la testa a nessuno». E non è un caso se lancia un solo segnale sull’Italicum, «per poter cambiare ho messo la fiducia rischiando l’osso del collo», come a dire io non galleggio per tenere la poltrona. Cerca di ricucire con la sinistra perché per vincere le regionali bisogna smetterla di litigare. Ma se dice «non mi spavento di tre fischi» non bara, lo scontro lo galvanizza, si vede quando ingaggia il corpo a corpo con i precari urlanti. Va avanti imperterrito, sgancia battute, prova a blandire i precari, elencando tutti i professori in famiglia, dai suoceri alla moglie, cita la sua maestra Eda, staffetta partigiana, che gli ha insegnato il valore della libertà. Ma giù fischi dei contestatori. Usa come metafora Dorando Petri, maratoneta che «rinunciò a una grande impresa a un passo dal traguardo. Non faremo la sua fine, non ci fermeranno!». Allude all’Italicum certo, ma già guarda avanti al nodo della scuola, «daremo più soldi alla scuola pubblica. Se passa la riforma entreranno 100 mila insegnanti, altrimenti continuerete a fischiare. Vogliamo discutere chi assumiamo o del ruolo dei presidi? Facciamolo. Potete fischiare ma non mi fermerete», è questo il refrain.
Del partito parla poco e della sua minoranza affatto, «il Pd discute e si divide ma si riconosce come comunità». Annuncia però sotto il mega schermo che rimanda immagini di Togliatti, che alla prossima festa di Milano in estate «troverete L’Unità in edicola». Ma non svela se sia vero che abbia chiesto proprio a Cuperlo di fare il direttore. Prima di salire in auto si ferma a parlare con i precari. Di una riforma su cui è più morbido visto che gli insegnanti sono il bacino elettorale del Pd, «la porteremo a casa con la condivisione, non è un prendere o lasciare».


Matteo tratta coi docenti “Meno potere ai presidi” “Sì, ma non ci convinci”

Faccia a faccia di un’ora

di S. B. Repubblica 4.5.15

BOLOGNA «No, non ce ne andiamo di qui finché non vi ho convinto». Matteo Renzi lo dice più volte alla delegazione di quattro rappresentanti della protesta della scuola che incontra dopo il suo comizio. Tutti, il premier, due insegnanti, tra cui anche Monica Fontanella, la docente che appena una settimana fa aveva impugnato il microfono alla festa per contestare il ministro Stefania Giannini (e che lei ha chiamato «squadrista»), e due precari, seduti sugli scatoloni delle bottiglie di acqua minerale nel capannone dietro il palco della Festa della Montagnola. I vertici dem guardano a distanza il colloquio fitto e documentato, tra il premier e i contestatori, in cui Renzi apre alle modifiche della sua #buonascuola. A cominciare dal punto più delicato: il potere ai presidi.
Un lungo botta e risposta, con i delegati della scuola guidati da Giovanni Cocchi, 60 anni, insegnante delle medie e già storico leader del movimento della scuola bolognese, che gli ribattono punto su punto e Renzi che a sua volta replica e controreplica. Un vero e proprio duello verbale tra il premier e l’anziano insegnante, da anni in campo per una scuola migliore e tra coloro che hanno lavorato alla proposta di legge popolare sul sistema scolastico. Botta e risposta, per oltre un’ora. «C’è già un emendamento presentato ieri sera in commissione, in cui viene restituito potere agli organi collegiali, cioè al consiglio di istituto » spiega il premier. «Non è vero, non c’è stata nessuna riunione della commissione ieri sera» è la risposta di Cocchi. «Ti assicuro che l’emendamento c’è — ribatte Renzi, e prende in mano il telefono — vuoi che chiamiamo la persona che me l’ha detto? Mi impegno io su questa modifica». Il punto è restituire potere al consiglio di istituto, che nella #buonascuola perde tutta la sua centralità, e toglierlo ai presidi. Su questo, Renzi apre, e il movimento della scuola incassa.
Si passa ad assunzioni e i concorsi. Si recupereranno anche i cosiddetti “idonei” rimasti fuori dal piano assunzioni, dice il premier: «Faremo un concorso il prossimo anno, e ci saranno punti aggiuntivi per chi è risultato idoneo» promette ancora. Niente da fare invece per il 5 per mille, che la nuova legge consente di dare alla propria scuola. «In questo modo alle scuole dove vanno i ricchi arriverebbero più soldi che a quelle dei poveri. E come la mettiamo con le differenze tra nord e sud?» è la protesta degli insegnanti, sulla quale però il premier ascolta ma non transige. Anche se poi non s’arrende. Non accetta che la sua “Buonascuola”, «senza la quale 100mila insegnanti non verrebbero assunti», non piaccia a tutti. «Venite sempre a contestarmi dicendo che non rispetto la Costituzione — si lamenta Renzi — Ma io assumerò gli insegnanti per concorso, proprio come prevede la Costituzione». «Ma nella Costituzione c’è anche la libertà di insegnamento, che tu togli, e tu ci hai giurato sulla Costituzione» ribatte Cocchi. Renzi sorride. Il suo staff gli fa segno: ora bisogna andare. Il premier alla fine concede ai suoi contestatori l’onore delle armi: «Sei bravo e preparato» dice stringendo la mano a Cocchi. Uscendo dal capannone della festa, le posizioni restano distanti, ma i toni cambiano, almeno un po’: «Se saprà ascoltare quello che gli abbiamo detto, allora questo incontro sarà stato utile. Ma questo lo diranno solo i fatti. Intanto il 5 maggio noi non saremo in classe, ma in piazza». ( s. b.)


Le sanatorie non bastano, va cambiata l’organizzazione
di Luisa Ribolzi Il Sole 4.5.15

Per contribuire alla valutazione del Ddl sulla buona scuola, che vaga tra ripensamenti, eccesso di deleghe e scarsa chiarezza nella formulazione (ha ricevuto 11 pagine di critiche dal comitato per la legislazione della Camera!), partirei dall’osservare che si sta trascurando che la scuola è fatta per gli studenti, non per gli insegnanti, e al di là delle affermazioni generiche sullo “studente al centro” trovo poco su di una progettazione educativa efficace, che non può essere lasciata solo alla normativa standardizzata del centro, ma deve essere elaborata dalle scuole con il contributo delle famiglie e della comunità, per rispondere alle articolazioni della domanda educativa.
Sono poi certa che un’assunzione in massa non risolverebbe il problema del precariato. Nel 1985 il Rapporto Censis scriveva: «Dal 1981 sono stati immessi nei ruoli della scuola statale 200.000 unità su un totale di 800.000 insegnanti (… )d’altra parte è necessario ricordare che una buon parte di questi “duecentomila” erano già presenti nella scuola come insegnanti, sia pure a titolo precario (...). La legge 270 impedisce che si riformi il precariato stabile; ma è certo da considerare per il futuro la possibilità del consolidarsi di un'area di precariato “saltuario”».
Se dopo trent’anni il precariato non è saltuario ma stabile, non è (solo) per mancanza di soldi o di volontà politica, ma perché è non è stato cambiato il modello organizzativo. Il personale docente va reclutato dalle scuole o dalle reti di scuole, altrimenti è inevitabile che si creino forti scostamenti fra domanda e offerta. Lo Stato deve solo fissare i requisiti per l’accesso alla carriera e poi valutare le scuole, che sapranno organizzarsi al meglio, pena la perdita (di parte) dei finanziamenti: fin quando lo Stato sarà il datore di lavoro, e un datore di lavoro debole perché vittima di troppi condizionamenti politici, non sarà possibile, come non lo è stato finora, uscire dalla trappola del precariato.
Ho poi l’impressione che i sindacati non intendano rinunciare a presentarsi come difensori del “diritto” dei precari al posto di lavoro, ipotesi supportata dal fatto che continuano ad alzare l’asticella. Il che fa pensare che al centro dell’opposizione ci sia anche qualcos’altro, per esempio un contenzioso con il Governo sugli spazi di potere, alle cui possibili conseguenze negative in termini di qualità dell’istruzione nessuno sembra interessato.
Il balletto delle cifre è reso possibile dall’inadeguatezza delle informazioni, che non consentono di comparare in modo sistematico domanda e offerta di docenti per area disciplinare, livello di istruzione e area geografica: l’affermazione che saranno comunque necessari supplenti lascia pensare che il ministero una qualche stima l’abbia fatta. Se però i precari fossero davvero più di 600mila, come sarebbe possibile, a parte il problema di pagarli, progettare il futuro e introdurre criteri di merito?
Mi pare che le ragioni del contendere siano altre. Nel frattempo, il tema del precariato ha cannibalizzato il dibattito e non si parla quasi dell’autonomia, della governance, del finanziamento delle istituzioni, del raccordo con il mondo del lavoro, della valutazione, dei veri problemi di una scuola che tanto buona non mi pare più.


Scuola: tutti i rebus del pianeta-precari

Tra Gae e graduatorie di istituto arrivano a 610mila, ma i posti disponibili previsti sono 160mila

di Eugenio Bruno, Claudio Tucci Il Sole 4.5.15

ROMA Gira e rigira la sorte dell’istruzione italiana resta appesa a quella dei suoi precari. La pensa così innanzitutto il Governo, che ha posto l’assunzione di 100mila docenti alla base della «Buona scuola», ma ne sono convinti anche i sindacati, che hanno messo in cima alle motivazioni dello sciopero di domani la stabilizzazione di massa di tutti gli insegnanti in graduatoria (abilitati e non). Una proposta difficilmente compatibile con gli equilibri di finanza pubblica, visto che stiamo parlando di un esercito di oltre 600mila candidati e considerando che i posti liberi e disponibili negli organici l’anno prossimo saranno non più di 36mila. Due numeri che sembrano inconciliabili e che rendono necessaria “un’operazione verità” sul precariato nella scuola (affrontato dai vari ministri di turno, ma mai in modo definitivo).
Per capire a fondo la questione bisogna partire dalle dimensioni del fenomeno. I precari a vario titolo, come detto, sono circa 610 mila. Una minima parte dei quali è iscritto nelle graduatorie a esaurimento, le famose «Gae» che l’attuale Esecutivo punta a svuotare con il Ddl all’esame della Camera. Si tratta di 125mila professori. A cui vanno aggiunti gli altri 485mila aspiranti insegnanti presenti nelle liste di istituto (di cui 150mila in seconda fascia perché abilitati e 335mila in terza fascia). Se però ci limitiamo ai docenti che hanno avuto almeno un contratto annuale o fino al termine delle lezioni - sottolineano dal Miur - la platea da mappare scende a 140mila insegnanti. Ed è da questa cifra che il ministero è partito per il piano di assunzioni che le sigle sindacali considerano insufficiente.
Una volta che la «Buona scuola» diventerà legge, partirà la macchina organizzativa per assicurare 100.701 assunzioni a partire dal 1° settembre tra gli iscritti alle Gae. Gli stabilizzandi saranno divisi in tre gruppi: 36mila copriranno il turn over e occuperanno, quindi ,un posto libero; altri 15mila incrementeranno il sostegno; i restanti 50mila circa confluiranno nell’organico dell’autonomia (cioè docenti in più sganciati da posti effettivi), con cui vorrà potenziata l’offerta formativa delle scuole (si veda anche il grafico a fianco).
Il piano dell’Esecutivo non si esaurisce qui. Sia perchè i precari veri sono un po’ di più sia perché alcune classi di concorso delle Gae risultano esaurite, per cui i presidi dovranno continuare a ricorrere ai supplenti, attingendo dalle liste d’istituto. Si pensi ad esempio a matematica e fisica nei licei. Tant’è vero che a viale Trastevere stimano in 20mila gli incarichi annuali da commissionare nell’anno scolastico 2015/2016, a cui ne andrebbero aggiunti circa 30mila per il sostegno. Va, però, considerato che i precari “veri” di seconda e terza fascia con più di 36 mesi di servizio sono 28mila e, pertanto, si continuerebbe a far lavorare come supplenti insegnanti con oltre 3 anni di incarichi a termine, nonostante il monito Ue e l’attuale formulazione del Ddl che lo vieta (ma il Pd chiede di modificare la norma).
Dopodiché sarà la volta del concorso, che si punta a bandire in autunno, per 60mila posti, che coprono il turn-over stimato 2016-2018. A questa selezione, che già si annuncia per soli abilitati, potranno partecipare, secondo i calcoli del Miur, 210mila aspiranti, tra i quali i 23mila maestri iscritti nelle «Gae» che non verranno assunti a settembre in attesa del riordino dei servizi per l’infanzia. Ai supplenti in cattedra verrà riconosciuto un punteggio aggiuntivo.
Con questo piano complessivo il Governo «punta a eliminare la precarietà, e le supplenze brevi - spiega il sottosegretario, Davide Faraone -. E si ripristina un principio costituzionale: si sale in cattedra solo per concorso». Nella scuola, attualmente, si viene immessi in ruolo al 50% pescando dalle «Gae» e per il restante 50% vincendo una selezione (questo criterio, in vista del suo probabile superamento, verrà derogato con la maxi-infornata di precari «Gae» di settembre).
L’ambizioso progetto del Miur dovrà, però, fare i conti con due variabili . La prima, è la conversione in legge del Ddl in tempo utile per assumere gli oltre 100mila docenti. La seconda, è la “grana” dei diplomati magistrali ante 2001/2002 abilitati ex lege dal Consiglio di Stato, che ha chiesto al Miur di inserirli nelle Gae. Si tratta di un esercito potenziale fino a 120mila insegnanti, su cui l’Esecutivo non ha ancora preso una decisione. 



«Il premier partirà favorito Per vincere ai ballottaggi meglio il centrodestra di M5S»
La sondaggista Ghisleri: in due anni tutto può cambiare


intervista di Tommaso Labate Corriere 4.5.15

ROMA «Tanto per cominciare non è vero, secondo me, che questa legge favorisce il bipolarismo».
Pensa anche lei che l’Italicum sia cucito su misura per il Partito democratico di Matteo Renzi?
«Penso che oggettivamente Renzi è il favorito. Ma in due anni può succedere di tutto. E il risultato potrebbe non essere scritto come appare oggi».
Alessandra Ghisleri è la «donna dei numeri» che ha stregato politici e leader di partito, a cominciare da Silvio Berlusconi. La direttrice di Euromedia Research, da quest’anno ospite fissa di Ballarò, spiega come l’Italicum, una volta in vigore, possa rivoluzionare l’attuale quadro politico. E regalare le «sorprese» più imprevedibili.
Oggi, però, Renzi sembra senza rivali. Se si votasse domattina con l’Italicum.
«Il Pd di Renzi andrebbe al ballottaggio col Movimento Cinquestelle e, con tutta probabilità, vincerebbe le elezioni garantendosi il premio di maggioranza».
Grillo non avrebbe chance?
«Il M5S è un movimento molto arroccato su di sé. Il che penalizza non poco, soprattutto in un turno di ballottaggio. Al contrario Renzi, che guida un partito di centrosinistra e un governo che ha portato avanti anche politiche di centro o di centrodestra, ha grandi capacità di estendere il suo consenso oltre i soliti steccati».
Insomma lo sfidante di Renzi, per avere più possibilità di batterlo al secondo turno, deve provenire dal fronte moderato.
«L’Italicum col premio alla lista favorirà, sia tra i partiti piccoli che tra quelli grandi, una corsa verso la ricomposizione. Il problema, per i soci della vecchia Casa delle libertà, sarebbe quello di riunificare i programmi, le ricette su fisco, immigrazione, lavoro…».
Chi avrebbe più possibilità. Il barricadero Salvini o il veterano Berlusconi?
«Salvini, e in piccolo anche Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia, s’è dimostrato in grado di estendere i consensi della sua Lega. Più difficile, per lui, sarà allargare la sua platea di potenziali elettori a un punto tale da sfidare il premier».
E Berlusconi?
«Berlusconi ha sempre dimostrato che, di fronte a una campagna elettorale, è in grado di fare miracoli. E quell’idea di nuovo partito repubblicano fatto di giovani e facce nuove potrebbe rivelarsi sorprendente. Vede, l’Italicum per un aspetto è come il Porcellum. Premia le leadership nazionali, riconoscibili, carismatiche».
Marina o Piersilvio potrebbero ereditare il consenso del padre?
«Tutto è possibile. Solo non credo che il carisma sia ereditabile geneticamente. Sia chiaro, magari ce l’hanno di loro…».
Difficile che lo sfidante di Renzi, nel caso di un elezione politica al ballottaggio, venga da sinistra. Non trova?
«Anche lì, però, il cambio di legge elettorale potrebbe favorire la ricomposizione delle vecchie forze che erano in campo. Uno schieramento di sinistra, che parta da Sel e recuperi il vecchio elettorato di Rifondazione, Comunisti Italiani e Italia dei Valori, sulla carta può anche valere tra il 9 e il 13%».
E l’affluenza?
«Fossi un politico, starei molto attenta. La distanza tra politica e cittadini è tutt’altro che colmata». 



Tre questioni sull’Italicum
di Piero Ignazi Repubblica 4.5.15

TROPPO tardi, troppo poco. È inutile e tardiva la battaglia della minoranza Pd sull’Italicum. Non ha molto senso cercare di limitare i danni di una legge malfatta alla fine di un lungo processo legislativo. Ormai è arrivata in dirittura d’arrivo. Solo che ci lascia in eredità tre problemi: restringe le linee di comunicazione tra cittadini e classe politica, concentra il potere nelle oligarchie di partito e mina quella stessa stabilità governativa che vuole garantire.
La sentenza della Corte Costituzionale aveva offerto una ghiotta occasione per introdurre un nuovo, efficiente e giusto sistema elettorale. Invece, il Pd, al quale spettava fare la prima mossa, ha preferito stringere un accordo “strategico” con Forza Italia utilizzando il viatico di una legge elettorale gradita ai berlusconiani. Il patto siglato da Renzi e Berlusconi sull’Italicum è così assurto a una intangibile tavola della legge. Le critiche — e le proposte alternative — dovevano essere fatte allora, contrapponendo ai propositi proporzionalisti e premiali (questo il cuore, aritmico, dell’Italicum) una coerente visione maggioritaria e uninominale sempre sbandierata dalla sinistra nelle sue varie incarnazioni, dall’Ulivo al Pd. Ma, come candidamente confessò un negoziatore dell’Italicum, Berlusconi non voleva i collegi uninominali, e allora… niente.
Adesso, questa è la legge. Comunque, non è una legge nuova. E alcuni dei correttivi introdotti sono, come si dice in Veneto, un tacòn pèso del buso . I cardini su cui si regge l’impianto dell’Italicum sono tre, esattamente gli stessi su cui si reggeva il Porcellum: in ordine di importanza, la logica premiale, la logica proporzionale di lista, la logica oligarchica. Il premio di maggioranza è il primum mobile da cui discende tutto. In fondo, nel paese dei telequiz — e di politici nostalgici di quei tempi — non c’era nulla di più naturale che assegnare un bel premio di seggi al vincitore.
L’illusione ingegneristica dei sostenitori dell’Italicum è che, grazie al bonus, il partito vincitore governerà sicuro e compatto per tutta la legislatura. Al di là di tutta una serie di questioni legate ai contrappesi istituzionali affievoliti, e quindi all’eccessiva concentrazione di potere (che, da liberali, bisogna temere per via delle inevitabili e insopprimibili “debolezze umane”), il partito unico al comando rischia invece di implodere in poco tempo. Chi conosce le dinamiche intra-partitiche sa bene che, in assenza di nemici esterni, la lotta politica si trasferisce all’interno dei partiti. Con effetti potenzialmente devastanti, fino alla scissione. L’incentivo a dividersi una volta che un partito ha conquistato la maggioranza e guida da solo il governo rimane intatto in un paese con una cultura politica frazionistica (e la cultura politica non cambia in due giorni). Una minoranza con un pacchetto di voti sufficiente a mettere in minoranza il governo detiene un potere di ricatto ben superiore a quello di un partito esterno che entra in coalizione. Non è un caso che l’Italia abbia il record mondiale dei cambi di casacca in Parlamento. O pensiamo che questa “abitudine” cesserà d’un tratto per l’effetto magico dell’Italicum?
Infine, il premio, che peraltro non esiste in nessuna democrazia matura (con la parziale eccezione della Grecia…), costituisce la forzatura necessaria e conseguente alla logica proporzionale di lista ereditata dal Porcellum. Questa forzatura discende dal rigetto del sistema maggioritario uninominale, un sistema dove i cittadini eleggono il “loro” rappresentante in un collegio. Con un annebbiamento fittissimo della ragion politica gli oppositori interni del Pd hanno sventolato la bandiera delle preferenze: così, per combattere un difetto — i deputati nominati — si inocula un virus ancora peggiore, quello delle preferenze, di cui ben conosciamo i guasti.
Non è questa la strada per rimediare alla più grave carenza del nostro sistema politico che non è la governabilità, bensì il distacco dei cittadini dalle istituzioni e dai suoi rappresentanti: l’antipolitica, in una parola. Per facilitare un minimo di rispondenza tra elettori ed eletti, per ridurre la distanza tra ceto politico e cittadinanza, non c’è migliore soluzione che consentire ai cittadini di scegliere il proprio rappresentante direttamente in un collegio. Se il nostro problema è quello della disaffezione dalla politica, un sistema proporzionale premiale con liste bloccate va nella direzione sbagliata. La logica oligarchica delle liste bloccate decise dall’alto è comunque l’unica su cui si può ancora intervenire. Basterebbe adottare una norma ad hoc per obbligare i partiti a far scegliere i candidati alle elezioni ai propri iscritti e/o simpatizzanti. Le modalità possono essere le più varie: l’importante è che la scelta sia demandata alla base e sottratta alle alchimie e agli scambi opachi degli organi dirigenti. Poi, come in tutti i paesi, la dirigenza nazionale deve disporre di una adeguata libertà di manovra per collocare un certo numero di candidati in collegi sicuri. In conclusione, l’Italicum non interviene sui nodi del nostro sistema politico. Non restringe il fossato tra elettori ed eletti: anzi, rischia di allargarlo. Non assicura la governabilità: anzi rischia di incentivare la frammentazione dei partiti vincenti. Non rende più aperti e rispondenti i partiti: anzi, rischia di renderli più lontani ed autoreferenziali. 

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