Carlo Gentile: I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945), Einaudi
Risvolto
Dall'estate del 1943 alla primavera del 1945,
mentre la Wehrmacht arretra dal Sud al Nord Italia e il nuovo fronte
della resistenza prende corpo, il Terzo Reich scatena la violenza delle
sue truppe sulla popolazione civile. Uomini, donne e bambini diventano
nemici da annientare, bersagli scelti di corpi speciali. Di quelle
stragi Carlo Gentile si è occupato da studioso e da perito nei processi
che in alcuni casi - come Sant'Anna di Stazzema - sono ancora storia
viva. Frutto di anni di ricerca nei principali archivi internazionali
compreso il noto "armadio della vergogna" - il suo lavoro ripercorre la
storia delle vittime e ci offre un ritratto inedito dei carnefici,
spesso militari molto giovani ma fortemente ideologizzati. Già
pubblicato in Germania, dove è stato accolto come un importante
contributo al dibattito storiografico, lo studio di Gentile è la cronaca
di un biennio che ha ferito l'Italia nel profondo, ma soprattutto è un
quadro dettagliato, assai significativo, delle strategie di guerra
tedesche nel nostro paese.
1943-45, il sangue degli innocenti
Da Marzabotto a Vicovaro, la mappa delle stragi compiute dalle forze armate naziste
di Corrado Stajano Corriere 4.5.15
Si potrebbe definire un’enciclopedia dell’orrore, un trattato di
criminologia militare, la storia sociale di una dittatura del Novecento,
un saggio di antropologia della violenza, un pallottoliere della morte
questo gran libro dello storico Carlo Gentile sulla tragedia del nazismo
nella seconda guerra mondiale. Si intitola I crimini di guerra tedeschi
in Italia (1943-1945) , l’ha pubblicato Einaudi. È un libro totale,
definitivo nel raccontare le stragi che insanguinarono il nostro Paese
dall’armistizio alla Liberazione. Anche se la bibliografia esistente è
sterminata e spesso seria.
Gentile, che insegna all’Università di Colonia ed è stato perito in
alcuni dei principali processi sulle stragi celebrati in Italia, ha
lavorato per molti anni a questo libro scritto con una minuzia persino
ossessiva su quanto accadde in quel tempo crudele. Per la sua ricerca ha
letto, studiato, usato tutte le possibili fonti, gli archivi tedeschi, i
fondi della Wehrmacht, delle SS, della polizia, della Hitlerjugend,
della Luftwaffe, ha analizzato i materiali alleati, le commissioni
d’inchiesta del dopoguerra, ha consultato gli atti dei processi dei
tribunali tedeschi e soprattutto quelli delle procure militari italiane,
ha ascoltato i sopravvissuti, ha visto le carte degli archivi nostrani,
da quello Centrale dello Stato a quelli degli Istituti della Resistenza
e dei Comuni, ha visto i documenti nascosti nei più o meno segreti
«armadi della vergogna», ha studiato gli stati di servizio degli
ufficiali tedeschi, gli schedari delle decorazioni, le piastrine di
riconoscimento dei soldati, gli elenchi dei caduti, con i nomi degli
assassini e dei reparti in cui hanno servito, compagnie, battaglioni,
reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate.
Forse è andato a vedere i cimiteri dei carnefici e le tombe delle
vittime, vecchi, donne, bambini «arsi vivi nel rogo dei casali»,
dispersi «nei poveri cimiteri di montagna» (Calamandrei). Leggendo
questo libro viene da pensare al lavoro anche doloroso dello storico che
non sia un trovarobe o un leggicarte indifferente. La lingua (il libro è
tradotto dal tedesco, in Germania uscì con polemiche tre anni fa) è
piatta ma talvolta si avverte un sussulto nel racconto rigoroso di fatti
sanguinanti.
Il saggio spiega ancora una volta che cosa è la guerra, con la sua
ferocia e la sua gratuità. Spiega come fu temuto dai nazisti il
movimento partigiano italiano, giudicato di grande importanza dai
vertici militari tedeschi che per combatterlo misero in piedi massicce
strutture, uno stato maggiore operativo delle SS e comandi regionali per
la lotta alle bande. La Wehrmacht e le SS furono preda della «psicosi
del partigiano»: i soldati si sentivano assediati e minacciati,
condizione che accresceva il potere e la forza degli uomini della
montagna, ma rendeva ancora più indifesi gli abitanti dei paesi
considerati dai nazisti potenziali nemici della loro guerra di
annientamento. E questo serve anche a smentire i negazionisti e i
minimizzatori della Resistenza. Il libro di Gentile è utile anche per
far capire a chi abbia ancora dubbi quale fu lo spirito della violenza
nazista. Le armate che operarono in Italia — quasi 600 mila uomini —
violarono ogni regola dell’onor militare che in guerra potrebbe persino
esistere anche al di là della legge, la Convenzione dell’Aja del 1907,
quella di Ginevra del 1929, il codice penale militare di guerra.
Quel che commisero i nazisti fu atroce. Incendiarono villaggi, uccisero
persone che non avevano alcun rapporto con il mondo della Resistenza:
«Il numero spaventosamente alto di donne, adolescenti e bambini tra le
vittime delle stragi evidenzia il carattere fondamentalmente criminale
di molte delle uccisioni commesse dai soldati della Wehrmacht e della
Waffen-SS» scrive Gentile.
Lo schema della violenza non muta. Il rastrellamento segue come
ritorsione a un’azione partigiana e fa parte della strategia dei comandi
nazisti che poi, il più delle volte, inventano giustificazioni fallaci.
Terra bruciata, case perquisite, saccheggiate, incendiate, donne
stuprate dai soldati sotto gli occhi assenti o compiaciuti degli
ufficiali, uomini uccisi con la normalità di un gesto ovvio. Ci furono
in quegli anni vendette per azioni partigiane, ci furono non poche
stragi di innocenti che non c’entravano assolutamente nulla con le
azioni di guerra senza alcuna verifica dei comandi sui possibili
coinvolgimenti di poveri contadini legati con fil di ferro al collo ai
pali delle viti o ai tronchi degli alberi e falciati dalle
mitragliatrici. «In nessun paese occidentale si verificarono eccessi
paragonabili a quelli commessi in Italia» scrive Gentile.
Il libro racconta per filo e per segno come avvennero le grandi stragi,
Marzabotto, per esempio: il maresciallo Kesselring, dopo il massacro,
inviò le sue congratulazioni per «la buona riuscita dell’operazione
antibande» (Gentile si occupa poco dei feldmarescialli e dei vertici
militari nazisti che dopo la guerra se la cavarono a buon mercato: Karl
Wolff, il generale comandante delle SS, negli anni Settanta del secolo
scorso, viveva tranquillamente a Darmstadt e concedeva interviste ai
giornalisti della Rai-tv. Duecentomila lire d’epoca ognuna).
Si conoscono i nomi delle grandi stragi: con Marzabotto, Sant’Anna di
Stazzema e anche Boves, Meina, Civitella in Val di Chiana, la Certosa di
Farneta, ma non si ha notizia o quasi delle infinite stragi che
insanguinarono la penisola: al Sud dopo l’8 settembre 1943, in Italia
centrale dopo la liberazione di Roma, in Toscana, soprattutto,
nell’estate-autunno del 1944 quando, come sempre accade, l’esercito
tedesco in ritirata sentì l’onta della sconfitta e si incrudelì ancora
di più. Il libro di Gentile è una mappa preziosa e dolente degli
infiniti plotoni di esecuzione che uccisero innocenti nelle piccole
città e nei villaggi, tra le case messe a fuoco: Capistrello, Filetto di
Camerda, Onna, San Paolo dei Cavalieri, Vallucciole, Borgiola
Foscalina, Vicovaro, Roccalbegna, Forno, Montemignaio, Guardistallo,
Padule di Fucecchio. E innumerevoli altri nomi di luoghi di cui non si
ha più memoria.
Sotto il microscopio dello storico sono soprattutto le due divisioni che
più di tutte le formazioni naziste si macchiarono di delitti e di
stragi: la 16ª SS Panzer-Grenadier Division «Reichsführer-SS» e la
Fallschirm-Panzer Division «Hermann Göring». Perché tanta ferocia? Erano
corpi speciali, formati da giovani ideologizzati, cresciuti nelle
organizzazioni naziste, spesso reduci dall’esperienza mortale della
guerra nell’Est Europa dove la Wehrmacht e le SS furono protagoniste di
raccapriccianti azioni di sterminio di massa. Le stragi, anche in
Italia, ubbidivano a una rigorosa regia militare. È sufficiente per
farlo capire il fatto che le modalità delle azioni sanguinarie sono
identiche.
I repubblichini, «i ragazzi di Salò» — 160.000 uomini — sono un po’
trascurati da Gentile. Spesso affiorano qua e là, subalterni, non certo
dalla parte dei loro compatrioti. Non vogliono esser da meno dei modelli
nazisti e qualche volta, riescono a essere sinistramente più feroci.
I crimini di guerra tedeschi in Italia, libro di grande importanza
scientifica e anche umana, offre un contributo essenziale per la storia
di quei terribili anni. Una registrazione ben documentata di eventi da
non dimenticare mai .
L’esercito in ritirata incontra un nemico in abiti civili
Saggi. «I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945» di Carlo Gentile per Einaudi
Enzo Collotti Manifesto 4.9.2015, 0:30
Il titolo dell’edizione italiana dell’importante libro di Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943–1945 (Einaudi, pp. 580, euro 45) che nella versione originale suona «Wehrmacht e Waffen-SS nella guerra partigiana in Italia», rischia di essere fuorviante, tanto più difronte allo sforzo di precisione concettuale dell’autore, perché non consente al lettore di cogliere l’escalation tra le pur brutali misure espressive di Kasselring e i veri e propri crimini di cui si resero responsabili talune unità militari di stanza in Italia.
Carlo Gentile è certamente con Gerhard Schreiber il miglior conoscitore degli archivi tedeschi relativi al periodo dell’occupazione dell’Italia ed è pertanto più che positivo il fatto che il suo libro sia stato reso accessibile in Italia; la traduzione non facile è generalmente buona, resta solo da lamentare che, come è già accaduto altre volte nel periodo 1943–45 compaiono sulla scena i sindaci delle diverse località citate dall’autore, laddove si trattava dei podestà di marca fascista: un dettaglio al quale il traduttore o quanto meno il competente redattore einaudiano avrebbe dovuto prestare attenzione, se è vero che basta un dettaglio di questa natura per decontestualizzare una intera situazione.
Rappresaglie quotidiane
Nel settantesimo anniversario della Resistenza il libro di Gentile appare come il controcanto della guerra partigiana: non a caso i famigerati ordini di Kasselring risalgono al giugno del 1944, ossia al momento della massima espansione della presenza partigiana, che sottolinea come la periodizzazione dell’occupazione tedesca oltre ché da l’avanzata anglo-americana lungo la penisola vada scandita secondo le tappe imposte dalla minaccia partigiana. È merito di Gentile analizzare come alle spalle del fronte di combattimento lungo il quale si distende la vera e propria zona d’operazione il territorio occupato sia gestito da una molteplicità di soggetti – la Wahrmacht, le forze di polizia, le Waffen-SS e i reparti di terra della Luftwaffe, un vero e proprio esercito che non ha corrispettivi in altri ordinamenti militari a cominciare da quello italiano – che danno luogo a una complicata catena di comando e ripartizione di competenze.
In questa fitta rete di dispositivi e di disposizioni, che non di rado si sovrappongono, Gentile cerca di seguire i percorsi delle diverse unità militari e di attribuire la responsabilità delle loro azioni a singoli protagonisti utilizzando gli organici delle formazioni restituiti dagli archivi ma anche le molte testimonianze emerse dai processi celebrati nei decenni scorsi dalla giustizia tedesca ed in anni più recenti anche dalla magistratura militare italiana, che da una ricerca capillare come questa risulta essere stata più attiva di quanto l’opinione pubblica può avere percepito.
Come è accaduto nel resto dell’Europa occupata, il fenomeno partigiano si è ripercosso anche in Italia sull’occupante in primo luogo con un riflesso psicologico generando un senso di generale insicurezza, la vera e propria arma in più in una contesa che sul terreno puramente militare con le forze della Resistenza era perduta in partenza, laddove di fatto la loro efficacia era amplificata dal fattore della sorpresa e dalla mobilità e imprevedibilità delle mosse dei gruppi alla macchia. È in questo quadro che, come sintetizza Gentile, «a partire dal 1944 le azioni di rappresaglia e la messa a morte di partigiani prigionieri e civili sospetti divennero una realtà quotidiana nell’Italia occupata».
Al di là della descrizione delle operazioni anti partigiane e della violenza diffusa che esse comportavano (si pensi soltanto a un dettaglio che ancor oggi ci fa venire i brividi al solo ricordo: che cosa significavano i rastrellamenti, in cui spesso spiccava la responsabilità dei militari di Salò), Gentile presta particolare attenzione alla natura e alla formazione delle unità che furono impegnate nelle operazioni contro la Resistenza.
Una violenza senza limiti
Le unità che combatterono con continuità in Italia furono relativamente poche, frequenti furono i trasferimenti e le sostituzioni, tenendo conto che prima dello sbarco in Normandia e dopo la ritirata sul fronte orientale, quello italiano era per la Wehrmacht il fronte principale per frenare l’avanzata degli anglo-americani verso il Reich. Sotto questo punto di vista l’autore precisa in quale senso si può considerare che le unità impegnate nella lotta antipartigiana adottassero i metodi della guerra di sterminio condotta nell’Europa orientale. Non si trattava di unità che provenivano direttamente da quel fronte ma del fatto che nella lotta anti partigiana furono adottate le disposizioni draconiane impartite nel 1942 da Hitler per la lotta contro le bande all’est, senza considerare la diversità delle situazioni. Sicuramente nel comportamento brutale delle forze tedesche quelle disposizioni che autorizzavano l’uso della violenza senza limiti alcuni ebbero una loro precisa responsabilità.
Una delle parti più nuove della ricerca di Gentile è l’attenzione che egli presta al tipo di personale di cui si componevano le unità operanti nel teatro italiano. Se è vero che le maggiori e peggiori stragi vanno attribuite alla SS-Panzer Grenadier Division «Reichs-fürer-SS» e alla divisione «Herman-Göring», Gentile non si accontenta di sottolineare il particolare coinvolgimento ideologico degli uomini di queste formazioni, la sua è una indagine al limite antropologica che investe l’intero percorso biografico dei protagonisti delle formazioni interessate.
Come è evidente, si tratta tra l’altro dell’unico metodo che consente di distinguere il comportamento dei diversi soggetti, al di là della considerazione che dopo l’8 settembre del 1943 i soldati tedeschi che combattevano nell’Italia occupata erano sicuramente animati da sentimenti ostili nei confronti della popolazione italiana e non soltanto dal senso di superiorità razziale che è stato sottolineato anche da studiosi tedeschi come Schreiber e Andrae.
La meticolosa ricerca di Gentile, mentre consente di evitare generalizzazioni, non fa sconti di nessun tipo alla realtà di una situazione (quella che a suo tempo Battini e Pezzino designarono come «guerra ai civili») nella quale la popolazione civile era ostaggio della propria impotenza ma anche dell’assenza di qualsiasi istanza protettiva; da questo punto di vista anche la ricerca di Gentile non può che confermare l’inesistenza della Repubblica di Salò o addirittura la presenza dei suoi militi tra gli strumenti della repressione tedesca.
Colpevoli impuniti
Contro ogni determinismo Gentile stabilisce un nesso preciso tra la formazione del personale e l’origine della violenza che fu dispiegata non solo contro partigiani o sospetti tali ma anche contro donne e bambini e non solo sulla scia della ritirata peraltro ininterrotta da Napoli al nord con la parentesi della sosta lungo la linea Gotica.
Le biografie delle formazioni sono sintetizzate in quattro profili personali di protagonisti di crimini: Walter Reder, Max Simon, Anton Galler, Helmut Looss, quest’ultimo tra i responsabili dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema e della Certosa di Farneta. Nel dopoguerra finì la sua carriera come insegnante elementare nella Bundesrepublik. Scrive Gentile: «Loos e Galler sono un esempio degli innumerevoli criminali nazisti usciti illesi dalla guerra e sfuggiti alle sanzioni dell’apparato giudiziario». Uno squarcio sul dopoguerra con il quale Gentile ci ricorda di quanta denegata giustizia sia fatta questa storia. Gli «assassini sono fra noi» fu il titolo precoce di uno dei primi film del dopoguerra nella Rdt: una storia che attende ancora di essere raccontata in tutta la sua atroce verità.
Nessun commento:
Posta un commento