lunedì 4 maggio 2015

I crimini di guerra tedeschi in Italia alla fine della Seconda guerra mondiale: la mappa definitiva

I crimini di guerra tedeschi in Italia
Carlo Gentile: I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945), Einaudi

Risvolto
Dall'estate del 1943 alla primavera del 1945, mentre la Wehrmacht arretra dal Sud al Nord Italia e il nuovo fronte della resistenza prende corpo, il Terzo Reich scatena la violenza delle sue truppe sulla popolazione civile. Uomini, donne e bambini diventano nemici da annientare, bersagli scelti di corpi speciali. Di quelle stragi Carlo Gentile si è occupato da studioso e da perito nei processi che in alcuni casi - come Sant'Anna di Stazzema - sono ancora storia viva. Frutto di anni di ricerca nei principali archivi internazionali compreso il noto "armadio della vergogna" - il suo lavoro ripercorre la storia delle vittime e ci offre un ritratto inedito dei carnefici, spesso militari molto giovani ma fortemente ideologizzati. Già pubblicato in Germania, dove è stato accolto come un importante contributo al dibattito storiografico, lo studio di Gentile è la cronaca di un biennio che ha ferito l'Italia nel profondo, ma soprattutto è un quadro dettagliato, assai significativo, delle strategie di guerra tedesche nel nostro paese. 

1943-45, il sangue degli innocenti
Da Marzabotto a Vicovaro, la mappa delle stragi compiute dalle forze armate naziste
di Corrado Stajano Corriere 4.5.15
Si potrebbe definire un’enciclopedia dell’orrore, un trattato di criminologia militare, la storia sociale di una dittatura del Novecento, un saggio di antropologia della violenza, un pallottoliere della morte questo gran libro dello storico Carlo Gentile sulla tragedia del nazismo nella seconda guerra mondiale. Si intitola I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945) , l’ha pubblicato Einaudi. È un libro totale, definitivo nel raccontare le stragi che insanguinarono il nostro Paese dall’armistizio alla Liberazione. Anche se la bibliografia esistente è sterminata e spesso seria.

Gentile, che insegna all’Università di Colonia ed è stato perito in alcuni dei principali processi sulle stragi celebrati in Italia, ha lavorato per molti anni a questo libro scritto con una minuzia persino ossessiva su quanto accadde in quel tempo crudele. Per la sua ricerca ha letto, studiato, usato tutte le possibili fonti, gli archivi tedeschi, i fondi della Wehrmacht, delle SS, della polizia, della Hitlerjugend, della Luftwaffe, ha analizzato i materiali alleati, le commissioni d’inchiesta del dopoguerra, ha consultato gli atti dei processi dei tribunali tedeschi e soprattutto quelli delle procure militari italiane, ha ascoltato i sopravvissuti, ha visto le carte degli archivi nostrani, da quello Centrale dello Stato a quelli degli Istituti della Resistenza e dei Comuni, ha visto i documenti nascosti nei più o meno segreti «armadi della vergogna», ha studiato gli stati di servizio degli ufficiali tedeschi, gli schedari delle decorazioni, le piastrine di riconoscimento dei soldati, gli elenchi dei caduti, con i nomi degli assassini e dei reparti in cui hanno servito, compagnie, battaglioni, reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate.
Forse è andato a vedere i cimiteri dei carnefici e le tombe delle vittime, vecchi, donne, bambini «arsi vivi nel rogo dei casali», dispersi «nei poveri cimiteri di montagna» (Calamandrei). Leggendo questo libro viene da pensare al lavoro anche doloroso dello storico che non sia un trovarobe o un leggicarte indifferente. La lingua (il libro è tradotto dal tedesco, in Germania uscì con polemiche tre anni fa) è piatta ma talvolta si avverte un sussulto nel racconto rigoroso di fatti sanguinanti.
Il saggio spiega ancora una volta che cosa è la guerra, con la sua ferocia e la sua gratuità. Spiega come fu temuto dai nazisti il movimento partigiano italiano, giudicato di grande importanza dai vertici militari tedeschi che per combatterlo misero in piedi massicce strutture, uno stato maggiore operativo delle SS e comandi regionali per la lotta alle bande. La Wehrmacht e le SS furono preda della «psicosi del partigiano»: i soldati si sentivano assediati e minacciati, condizione che accresceva il potere e la forza degli uomini della montagna, ma rendeva ancora più indifesi gli abitanti dei paesi considerati dai nazisti potenziali nemici della loro guerra di annientamento. E questo serve anche a smentire i negazionisti e i minimizzatori della Resistenza. Il libro di Gentile è utile anche per far capire a chi abbia ancora dubbi quale fu lo spirito della violenza nazista. Le armate che operarono in Italia — quasi 600 mila uomini — violarono ogni regola dell’onor militare che in guerra potrebbe persino esistere anche al di là della legge, la Convenzione dell’Aja del 1907, quella di Ginevra del 1929, il codice penale militare di guerra.
Quel che commisero i nazisti fu atroce. Incendiarono villaggi, uccisero persone che non avevano alcun rapporto con il mondo della Resistenza: «Il numero spaventosamente alto di donne, adolescenti e bambini tra le vittime delle stragi evidenzia il carattere fondamentalmente criminale di molte delle uccisioni commesse dai soldati della Wehrmacht e della Waffen-SS» scrive Gentile.
Lo schema della violenza non muta. Il rastrellamento segue come ritorsione a un’azione partigiana e fa parte della strategia dei comandi nazisti che poi, il più delle volte, inventano giustificazioni fallaci. Terra bruciata, case perquisite, saccheggiate, incendiate, donne stuprate dai soldati sotto gli occhi assenti o compiaciuti degli ufficiali, uomini uccisi con la normalità di un gesto ovvio. Ci furono in quegli anni vendette per azioni partigiane, ci furono non poche stragi di innocenti che non c’entravano assolutamente nulla con le azioni di guerra senza alcuna verifica dei comandi sui possibili coinvolgimenti di poveri contadini legati con fil di ferro al collo ai pali delle viti o ai tronchi degli alberi e falciati dalle mitragliatrici. «In nessun paese occidentale si verificarono eccessi paragonabili a quelli commessi in Italia» scrive Gentile.
Il libro racconta per filo e per segno come avvennero le grandi stragi, Marzabotto, per esempio: il maresciallo Kesselring, dopo il massacro, inviò le sue congratulazioni per «la buona riuscita dell’operazione antibande» (Gentile si occupa poco dei feldmarescialli e dei vertici militari nazisti che dopo la guerra se la cavarono a buon mercato: Karl Wolff, il generale comandante delle SS, negli anni Settanta del secolo scorso, viveva tranquillamente a Darmstadt e concedeva interviste ai giornalisti della Rai-tv. Duecentomila lire d’epoca ognuna).
Si conoscono i nomi delle grandi stragi: con Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e anche Boves, Meina, Civitella in Val di Chiana, la Certosa di Farneta, ma non si ha notizia o quasi delle infinite stragi che insanguinarono la penisola: al Sud dopo l’8 settembre 1943, in Italia centrale dopo la liberazione di Roma, in Toscana, soprattutto, nell’estate-autunno del 1944 quando, come sempre accade, l’esercito tedesco in ritirata sentì l’onta della sconfitta e si incrudelì ancora di più. Il libro di Gentile è una mappa preziosa e dolente degli infiniti plotoni di esecuzione che uccisero innocenti nelle piccole città e nei villaggi, tra le case messe a fuoco: Capistrello, Filetto di Camerda, Onna, San Paolo dei Cavalieri, Vallucciole, Borgiola Foscalina, Vicovaro, Roccalbegna, Forno, Montemignaio, Guardistallo, Padule di Fucecchio. E innumerevoli altri nomi di luoghi di cui non si ha più memoria.
Sotto il microscopio dello storico sono soprattutto le due divisioni che più di tutte le formazioni naziste si macchiarono di delitti e di stragi: la 16ª SS Panzer-Grenadier Division «Reichsführer-SS» e la Fallschirm-Panzer Division «Hermann Göring». Perché tanta ferocia? Erano corpi speciali, formati da giovani ideologizzati, cresciuti nelle organizzazioni naziste, spesso reduci dall’esperienza mortale della guerra nell’Est Europa dove la Wehrmacht e le SS furono protagoniste di raccapriccianti azioni di sterminio di massa. Le stragi, anche in Italia, ubbidivano a una rigorosa regia militare. È sufficiente per farlo capire il fatto che le modalità delle azioni sanguinarie sono identiche.
I repubblichini, «i ragazzi di Salò» — 160.000 uomini — sono un po’ trascurati da Gentile. Spesso affiorano qua e là, subalterni, non certo dalla parte dei loro compatrioti. Non vogliono esser da meno dei modelli nazisti e qualche volta, riescono a essere sinistramente più feroci.
I crimini di guerra tedeschi in Italia, libro di grande importanza scientifica e anche umana, offre un contributo essenziale per la storia di quei terribili anni. Una registrazione ben documentata di eventi da non dimenticare mai .

L’esercito in ritirata incontra un nemico in abiti civili
Saggi. «I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945» di Carlo Gentile per Einaudi
Enzo Collotti Manifesto 4.9.2015, 0:30
Il titolo dell’edizione ita­liana dell’importante libro di Carlo Gen­tile, I cri­mini di guerra tede­schi in Ita­lia 1943–1945 (Einaudi, pp. 580, euro 45) che nella ver­sione ori­gi­nale suona «Wehr­ma­cht e Waffen-SS nella guerra par­ti­giana in Ita­lia», rischia di essere fuor­viante, tanto più difronte allo sforzo di pre­ci­sione con­cet­tuale dell’autore, per­ché non con­sente al let­tore di cogliere l’escalation tra le pur bru­tali misure espres­sive di Kas­sel­ring e i veri e pro­pri cri­mini di cui si resero respon­sa­bili talune unità mili­tari di stanza in Italia.
Carlo Gen­tile è cer­ta­mente con Gerhard Schrei­ber il miglior cono­sci­tore degli archivi tede­schi rela­tivi al periodo dell’occupazione dell’Italia ed è per­tanto più che posi­tivo il fatto che il suo libro sia stato reso acces­si­bile in Ita­lia; la tra­du­zione non facile è gene­ral­mente buona, resta solo da lamen­tare che, come è già acca­duto altre volte nel periodo 1943–45 com­pa­iono sulla scena i sin­daci delle diverse loca­lità citate dall’autore, lad­dove si trat­tava dei pode­stà di marca fasci­sta: un det­ta­glio al quale il tra­dut­tore o quanto meno il com­pe­tente redat­tore einau­diano avrebbe dovuto pre­stare atten­zione, se è vero che basta un det­ta­glio di que­sta natura per decon­te­stua­liz­zare una intera situazione.

Rap­pre­sa­glie quotidiane
Nel set­tan­te­simo anni­ver­sa­rio della Resi­stenza il libro di Gen­tile appare come il con­tro­canto della guerra par­ti­giana: non a caso i fami­ge­rati ordini di Kas­sel­ring risal­gono al giu­gno del 1944, ossia al momento della mas­sima espan­sione della pre­senza par­ti­giana, che sot­to­li­nea come la perio­diz­za­zione dell’occupazione tede­sca oltre ché da l’avanzata anglo-americana lungo la peni­sola vada scan­dita secondo le tappe impo­ste dalla minac­cia par­ti­giana. È merito di Gen­tile ana­liz­zare come alle spalle del fronte di com­bat­ti­mento lungo il quale si distende la vera e pro­pria zona d’operazione il ter­ri­to­rio occu­pato sia gestito da una mol­te­pli­cità di sog­getti – la Wahr­ma­cht, le forze di poli­zia, le Waffen-SS e i reparti di terra della Luft­waffe, un vero e pro­prio eser­cito che non ha cor­ri­spet­tivi in altri ordi­na­menti mili­tari a comin­ciare da quello ita­liano – che danno luogo a una com­pli­cata catena di comando e ripar­ti­zione di competenze.
In que­sta fitta rete di dispo­si­tivi e di dispo­si­zioni, che non di rado si sovrap­pon­gono, Gen­tile cerca di seguire i per­corsi delle diverse unità mili­tari e di attri­buire la respon­sa­bi­lità delle loro azioni a sin­goli pro­ta­go­ni­sti uti­liz­zando gli orga­nici delle for­ma­zioni resti­tuiti dagli archivi ma anche le molte testi­mo­nianze emerse dai pro­cessi cele­brati nei decenni scorsi dalla giu­sti­zia tede­sca ed in anni più recenti anche dalla magi­stra­tura mili­tare ita­liana, che da una ricerca capil­lare come que­sta risulta essere stata più attiva di quanto l’opinione pub­blica può avere percepito.
Come è acca­duto nel resto dell’Europa occu­pata, il feno­meno par­ti­giano si è riper­cosso anche in Ita­lia sull’occupante in primo luogo con un riflesso psi­co­lo­gico gene­rando un senso di gene­rale insi­cu­rezza, la vera e pro­pria arma in più in una con­tesa che sul ter­reno pura­mente mili­tare con le forze della Resi­stenza era per­duta in par­tenza, lad­dove di fatto la loro effi­ca­cia era ampli­fi­cata dal fat­tore della sor­presa e dalla mobi­lità e impre­ve­di­bi­lità delle mosse dei gruppi alla mac­chia. È in que­sto qua­dro che, come sin­te­tizza Gen­tile, «a par­tire dal 1944 le azioni di rap­pre­sa­glia e la messa a morte di par­ti­giani pri­gio­nieri e civili sospetti diven­nero una realtà quo­ti­diana nell’Italia occupata».
Al di là della descri­zione delle ope­ra­zioni anti par­ti­giane e della vio­lenza dif­fusa che esse com­por­ta­vano (si pensi sol­tanto a un det­ta­glio che ancor oggi ci fa venire i bri­vidi al solo ricordo: che cosa signi­fi­ca­vano i rastrel­la­menti, in cui spesso spic­cava la respon­sa­bi­lità dei mili­tari di Salò), Gen­tile pre­sta par­ti­co­lare atten­zione alla natura e alla for­ma­zione delle unità che furono impe­gnate nelle ope­ra­zioni con­tro la Resistenza.

Una vio­lenza senza limiti
Le unità che com­bat­te­rono con con­ti­nuità in Ita­lia furono rela­ti­va­mente poche, fre­quenti furono i tra­sfe­ri­menti e le sosti­tu­zioni, tenendo conto che prima dello sbarco in Nor­man­dia e dopo la riti­rata sul fronte orien­tale, quello ita­liano era per la Wehr­ma­cht il fronte prin­ci­pale per fre­nare l’avanzata degli anglo-americani verso il Reich. Sotto que­sto punto di vista l’autore pre­cisa in quale senso si può con­si­de­rare che le unità impe­gnate nella lotta anti­par­ti­giana adot­tas­sero i metodi della guerra di ster­mi­nio con­dotta nell’Europa orien­tale. Non si trat­tava di unità che pro­ve­ni­vano diret­ta­mente da quel fronte ma del fatto che nella lotta anti par­ti­giana furono adot­tate le dispo­si­zioni dra­co­niane impar­tite nel 1942 da Hitler per la lotta con­tro le bande all’est, senza con­si­de­rare la diver­sità delle situa­zioni. Sicu­ra­mente nel com­por­ta­mento bru­tale delle forze tede­sche quelle dispo­si­zioni che auto­riz­za­vano l’uso della vio­lenza senza limiti alcuni ebbero una loro pre­cisa responsabilità.
Una delle parti più nuove della ricerca di Gen­tile è l’attenzione che egli pre­sta al tipo di per­so­nale di cui si com­po­ne­vano le unità ope­ranti nel tea­tro ita­liano. Se è vero che le mag­giori e peg­giori stragi vanno attri­buite alla SS-Panzer Gre­na­dier Divi­sion «Reichs-fürer-SS» e alla divi­sione «Herman-Göring», Gen­tile non si accon­tenta di sot­to­li­neare il par­ti­co­lare coin­vol­gi­mento ideo­lo­gico degli uomini di que­ste for­ma­zioni, la sua è una inda­gine al limite antro­po­lo­gica che inve­ste l’intero per­corso bio­gra­fico dei pro­ta­go­ni­sti delle for­ma­zioni interessate.
Come è evi­dente, si tratta tra l’altro dell’unico metodo che con­sente di distin­guere il com­por­ta­mento dei diversi sog­getti, al di là della con­si­de­ra­zione che dopo l’8 set­tem­bre del 1943 i sol­dati tede­schi che com­bat­te­vano nell’Italia occu­pata erano sicu­ra­mente ani­mati da sen­ti­menti ostili nei con­fronti della popo­la­zione ita­liana e non sol­tanto dal senso di supe­rio­rità raz­ziale che è stato sot­to­li­neato anche da stu­diosi tede­schi come Schrei­ber e Andrae.
La meti­co­losa ricerca di Gen­tile, men­tre con­sente di evi­tare gene­ra­liz­za­zioni, non fa sconti di nes­sun tipo alla realtà di una situa­zione (quella che a suo tempo Bat­tini e Pez­zino desi­gna­rono come «guerra ai civili») nella quale la popo­la­zione civile era ostag­gio della pro­pria impo­tenza ma anche dell’assenza di qual­siasi istanza pro­tet­tiva; da que­sto punto di vista anche la ricerca di Gen­tile non può che con­fer­mare l’inesistenza della Repub­blica di Salò o addi­rit­tura la pre­senza dei suoi militi tra gli stru­menti della repres­sione tedesca.

Col­pe­voli impuniti
Con­tro ogni deter­mi­ni­smo Gen­tile sta­bi­li­sce un nesso pre­ciso tra la for­ma­zione del per­so­nale e l’origine della vio­lenza che fu dispie­gata non solo con­tro par­ti­giani o sospetti tali ma anche con­tro donne e bam­bini e non solo sulla scia della riti­rata peral­tro inin­ter­rotta da Napoli al nord con la paren­tesi della sosta lungo la linea Gotica.
Le bio­gra­fie delle for­ma­zioni sono sin­te­tiz­zate in quat­tro pro­fili per­so­nali di pro­ta­go­ni­sti di cri­mini: Wal­ter Reder, Max Simon, Anton Gal­ler, Hel­mut Looss, quest’ultimo tra i respon­sa­bili dell’eccidio di Sant’Anna di Staz­zema e della Cer­tosa di Far­neta. Nel dopo­guerra finì la sua car­riera come inse­gnante ele­men­tare nella Bun­de­sre­pu­blik. Scrive Gen­tile: «Loos e Gal­ler sono un esem­pio degli innu­me­re­voli cri­mi­nali nazi­sti usciti illesi dalla guerra e sfug­giti alle san­zioni dell’apparato giu­di­zia­rio». Uno squar­cio sul dopo­guerra con il quale Gen­tile ci ricorda di quanta dene­gata giu­sti­zia sia fatta que­sta sto­ria. Gli «assas­sini sono fra noi» fu il titolo pre­coce di uno dei primi film del dopo­guerra nella Rdt: una sto­ria che attende ancora di essere rac­con­tata in tutta la sua atroce verità.

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