lunedì 25 maggio 2015
Civiltà e religione degli Aztechi
Civiltà e religione degli Aztechi, a cura di Alessandro Lupo e Luisa Pranzetti, Meridiani Mondadori
Risvolto
Una vasta raccolta commentata dì documenti grazie ai quali sono
ricostruite le origini e le concezioni, la vita sociale e l'espansione
politica di un popolo che rivelò agli Spagnoli sbarcati nel 1519, una
prosperità, una potenza e una raffinatezza paragonabili a quelle dei
maggiori stati europei. La prima parte del volume mette in luce i
presupposti della mentalità e delle vicende degli aztechi, e la loro
concezione del cosmo. La seconda presenta la vita quotidiana governata
dalla politica, da feste e cerimonie religiose, dai sofisticati
meccanismi di un doppio calendario solare e rituale, da una severa
istruzione e da un'economia cui contribuivano i pesanti tributi dei
popoli assoggettati. Su questa società dinamica e fiorente nei commerci,
nei lavori agricoli e nell'artigianato (oreficeria, arte piumaria e
tessitura) si abbatte l'apocalisse portata da Cortés, che è il tema
della terza parte. Nei testi tramandati l'assedio della capitale
Tenochtitlan e la fine eroica dei suoi difensori assumono un sapore
quasi omerico. Dalle prime testimonianze della conquista del Messico
(1519-1529), attraverso quelle della storiografia ufficiale, dei
difensori degli indios, dei missionari, delle nuove élites indigene e
meticce, delle storie universali, i testi presentati giungono fino a "La
Hìstoria antigua de México" (1780- 1781), in cui il gesuita messicano
Francisco Clavijero assume come proprio il passato indigeno.
Un
"Meridiano" raccoglie le testimonianze più importanti sui bellicosi
abitanti del Messico e sul loro "incontro" con i conquistadores. Ne esce
una narrazione oltre i luoghi comuniDom, 24/05/2015
- il Giornale
Aztechi , l’eclissi di uno splendore
Una civiltà raffinata tutta intenta a placare i suoi dei La annientarono conquistatori affascinati e feroci
di Pietro Citati Corriere 25.5.15
Civiltà e religione degli Aztechi , a cura di Alessandro Lupo e Luisa
Pranzetti (nei Meridiani Mondadori) è un libro straordinario, che
raccomando a un numero vastissimo di lettori. I due curatori hanno
scelto brani dei molti scrittori spagnoli che hanno rappresentato la
civiltà del Messico e le sue vicende, da Bernal Díaz del Castillo a
Hernán Cortés, da Bartolomé de las Casas a Andrés de Olmes, da Juan de
Tovar a Bernardino de Sahagún, da Diego Durán a José de Acosta; e hanno
costruito un libro ricco e complesso, che raffigura tutti gli aspetti
del mondo azteco. Nulla manca: né la storia né la religione né la natura
né la medicina né le arti né i costumi. L’impressione è fortissima:
questo mondo risorge davanti a noi, in tutta la sua potenza, ricchezza e
meravigliosa immaginazione. Ci sembra di vedere gli Aztechi che
sacrificano e vengono sacrificati, gli alberi, le città, i laghi, le
piume degli uccelli. Tutto si agita e si muove: spera, dispera,
combatte, resiste, fino a quando sovrani e popolo vengono massacrati.
Lo sguardo che vede è quello degli spagnoli. Nulla potrebbe essere più
straordinario: da un lato, essi odiano, disprezzano, cancellano la
civiltà e gli dèi aztechi; dall’altro, amano quello che stanno
massacrando. Poche pagine di viaggiatori hanno il fascino, la curiosità,
il divertimento, con cui la vita degli indios viene alla luce. La
conquista spagnola è sacra, opera di Dio: ma è anche una nequizia
miserabile, una sventura, un trionfo del diavolo che sommerge
nell’abisso una delle maggiori civiltà del mondo. Il Dio della Bibbia
benedice gli spagnoli: mentre gli dèi degli indios, che forse hanno
qualche rapporto col Dio della Bibbia, abbandonano il loro popolo. «Che
accade ora, Signore nostro? — scrive Bernardino de Sahagún a nome degli
indios —. Cosa avete determinato nel vostro petto divino? Avete forse
determinato di abbandonare del tutto il vostro popolo e la vostra gente?
Avete davvero deliberato che perisca per sempre e non resti memoria di
esso nel mondo, e là dove sorgono città vi siano selve boscose e
desolate petraie?».
Con meraviglia e orrore, gli spagnoli contemplavano la moltitudine
proliferante degli dèi aztechi. Tutte le creature potevano essere dèi:
gli indios adoravano le farfalle, le lucertole, le pulci, che scolpivano
con estrema precisione e in grandi dimensioni. Veneravano il sole come
l’Essere più potente e gli avevano dedicato il tempio più grande e
sontuoso di Messico. Verso gli dèi, gli esseri umani erano in una
condizione perenne di debito: un tempo erano stati generati da loro e
ogni giorno venivano nutriti da loro; e quindi gli uomini dovevano
placare gli appetiti divini, restituendo almeno parte dell’energia
celeste, e offrendo il proprio cuore e il proprio sangue. Gli spagnoli
comprendevano questa incessante gratitudine degli indios, non il
sacrificio di sé stessi: secondo loro, Gesù versava il proprio sangue
per gli uomini, non gli uomini per il Signore.
Anche per gli indios, il mondo era il luogo della caduta, e i sacerdoti
cristiani dovevano ascoltare con profonda partecipazione le parole che
le levatrici dicevano ad ogni neonata. «Signora mia amatissima, siate
benvenuta. Avete durato fatica. Vi ha inviato quaggiù il vostro
amatissimo Padre, il Dio creatore e artefice che è in ogni luogo. Siete
venuta in questo mondo, dove i vostri genitori vivono con pene e fatica,
dove vi sono calore senza misura, venti e gelo, dove non vi è piacere
né gioia, ed è luogo di travagli, stento e privazione. Non sappiamo che
cosa portate con voi, né come sia la vostra fortuna, se portate qualcosa
che ci darà gioia. Non sappiamo se riuscirete. Non sappiamo se avete
qualche merito, o se invece siete nata come una spiga di mais ammuffita,
che non serve a nulla. Gioiamo del vostro arrivo, amatissima fanciulla,
pietra preziosa, ricco piumaggio. Siete giunta, finalmente. Risanatevi e
ristoratevi».
Nel mondo azteco, gli spagnoli erano affascinati specialmente dagli
uccelli e dalle loro piume, e dai giardini verdissimi. C’erano le case
degli uccelli, dove stavano animali di ogni specie, dalle aquile reali
alle aquile più piccole: uccelli di mare e di lago, che venivano nutriti
con il cibo al quale erano abituati. Essi avevano i colori più diversi:
i più ricchi e sontuosi piumaggi: cinque colori; verdi, rossi, bianchi,
gialli ed azzurri. E poi i pappagalli che, al momento opportuno,
venivano spennati e poi si impennavano di nuovo. Nelle case c’era una
grande vasca di acqua dolce, sulla quale volava un uccello dalle zampe
altissime, con il corpo, le ali e la coda di colore rosso.
Gli artigiani aztechi facevano con le piume tutto quello che un
eccellente pittore spagnolo faceva con i pennelli. Quando videro i
quadri spagnoli, gli artigiani indios ebbero occasione di mostrare la
vivacità del loro intelletto, l’acume e la prontezza delle loro facoltà e
dei sensi esteriori e interiori. Disponevano e incollavano amorosamente
le piume: le collocavano in modo tale che, guardandole da un lato,
parevano dorate, senza che ci fosse oro: oppure rivelavano riflessi
verdi, senza che ci fosse verde, o rossi senza che ci fosse rosso. Gli
artigiani guardavano le loro opere ora al sole, ora all’ombra: ora di
notte, a volte con poca e a volte con molta luce, oppure di traverso e
al rovescio.
I nobili aztechi indossavano mantelli di piume color fulvo, di grande
pregio, con il volto di un mostro o di un dio, e sopra farfalle
intessute di bianco. In guerra indossavano una calotta molto colorata,
con oro e, attorno alla calotta, una corona di ricche piume, nel mezzo
della quale spuntava un ciuffo di piume preziose chiamate quetzal. Anche
lo scudo era fatto di piume: era rotondo, e portava nel centro un
quadrato d’oro.
Nei palazzi di Montezuma e dei nobili c’erano grandi giardini fioriti:
alberi odorosi, fiori profumatissimi, erbe medicinali, disposti in
perfetto ordine, con viali, vasche e stagni d’acqua artificiale,
provviste di canali per l’entrata e l’uscita dell’acqua, dove
aleggiavano minuscoli uccellini. Gli indios amavano moltissimo i fiori:
li disponevano in vasi nelle loro case, li offrivano ai re, signori,
ambasciatori, dignitari, e specialmente li consacravano agli dèi, sia
nei templi pubblici che privati. La civiltà azteca sembrava consistere
tutta di queste piume e di questi fiori; e dal ricordo scompariva il
sangue, che dedicavano agli dèi.
Chi usava piume e fiori erano sopratutto gli artigiani, gli innumerevoli
artigiani, che percorrevano alacremente le strade del Messico:
argentieri, cesellatori d’oro e di ogni altro metallo fuso,
intagliatori, tessitrici. Molti costruivano, con foglie rilegate o
piegate, libri, nei quali veniva custodito il computo del tempo, la
conoscenza dei pianeti, degli animali, dei fenomeni naturali, delle
medicine. Disponevano in ordine gli eventi di ciascun anno, mese,
giorno, ora: ricordavano le genealogie, i confini, le leggi, i riti, i
sacerdoti; e infine c’era chi si avventurava, per usare un’ambiziosa
parola occidentale, nella filosofia.
La carta veniva ottenuta dalle foglie di agave, messe a macerare
nell’acqua, e preparate in strisce molto lunghe e strette: i colori
erano estratti dalle foglie delle piante, dai fiori, dai frutti e dalle
terre minerali. La lingua messicana dominante, conosciuta e parlata
dappertutto, era secondo gli spagnoli bellissima: addirittura superiore
al latino e al greco; aveva una grande ricchezza di vocaboli sia per
esprimere gli oggetti materiali che i concetti spirituali, e quindi i
più alti misteri cristiani. Per ordine dei sacerdoti spagnoli, che
fiutavano dovunque il sapore di Satana, quei codici pittografici vennero
arsi; e questa sconsiderata distruzione fu uno dei maggiori danni
arrecati alla nuova Spagna. Il paradosso volle che gli stessi missionari
francescani, che avevano fatto bruciare i codici, dedicassero tutte le
loro energie alla conservazione della cultura azteca.
In tutte le città, vicino ai templi, c’erano grandi case chiamate case
del canto, dove risiedevano i maestri di danza e di canto: essi
svolgevano la sola attività di insegnare a danzare, a cantare, a
suonare. Tutto avveniva con estremo rigore: i fanciulli partecipavano
con fervore al loro serio gioco; e sapevano che qualsiasi mancanza
avrebbe avuto la forza di un crimine di laesae maiestatis . C’erano
canti diversi: alcuni calmi e gravi, ballati con grande solennità e
compostezza in occasione delle maggiori solennità; altri, più brillanti,
venivano chiamati «balli degli amanti».
Il tempo era scandito in cicli di 52 anni. In una notte del 1506, sotto
il regno di Montezuma II, gli Aztechi attesero la fine dell’ultimo
ciclo. Tutto dipendeva dagli avvenimenti celesti. Se la stella Aldebaràn
avesse prolungato la sua corsa nello zenit del firmamento, il cielo e
il mondo avrebbero proseguito il loro cammino. Ma se Aldebaràn non fosse
apparsa, sui laghi e le montagne di Messico sarebbe scesa la fine. Per
scongiurare questo pericolo, veniva compiuto un immenso rito collettivo
di rinnovamento. I messicani spensero ogni fuoco, distrussero il
vasellame, gli attrezzi domestici e le vesti: quando giunse la notte, in
cui dovevano accendere il nuovo fuoco, aspettarono di vedere cosa
sarebbe successo; se il fuoco non si fosse riacceso, la notte sarebbe
stata perpetua, il sole non sarebbe mai più spuntato, e avrebbe avuto
fine il genere umano. Ma, ancora una volta, in quel giorno del 1506, il
fuoco si riaccese, e il mondo continuò la sua vita.
Qualche anno dopo ci furono i presagi. Nella notte, Montezuma II vide
una cometa fiammeggiare sopra la capitale: sembrava una spiga di fuoco:
egli convocò gli astrologi, chiedendo loro un’interpretazione; e, alle
loro risposte elusive, li fece uccidere. Il tempio di Huitzilopochtli
bruciò. L’acqua del lago di Messico si agitò senza che alcun vento
spirasse, ribollendo ed ergendosi a grande altezza: si udì una voce di
donna che piangeva e singhiozzava, dicendo: «Oh, figli miei, ormai siamo
perduti per sempre! Dove potrò portarvi? Dove potrò nascondervi?».
Montezuma II vide in sogno un uccello grigio, simile a una gru, che
portava sul capo un diadema rotondo a forma di specchio, diafano e
trasparente, dove si rifletteva una moltitudine di guerrieri. Ebbe
timore: paventava un orribile futuro e chiedeva agli indios di
comunicargli i loro sogni, per intravedere meglio cosa sarebbe accaduto.
Gli uomini intravisti nello specchio giunsero sulle rive di Messico: nel
1518, Juan de Grijalva; mentre Hernán Cortés sbarcò il 21 aprile 1519,
con undici navi e cinquecento soldati, sulla costa di Vera Cruz. Gli
spagnoli non sapevano di essere spiati ogni momento dagli informatori di
Montezuma, che scorsero le navi con le vele spiegate, animali mai visti
come i cavalli, armature simili alla pietra, barbe colore del fuoco,
Cortés vestito di nero, le colubrine e le bombarde. Quando gli
informatori tornarono a Messico, l’inquieto Montezuma diede ordine ai
pittori di corte di dipingere la scena che aveva interrotto il silenzio
del Golfo. Nessuno aveva mai visto nulla di simile. Montezuma ne ebbe
timore: «Ne ebbe infinito sgomento e ne restò come atterrito e fu
squassato dal pianto e proruppe in lamenti». Interrogò le leggende del
popolo, e credette di comprendere che l’uomo vestito di nero, circondato
da una moltitudine di seguaci, fosse il dio Quetzalcoatl, il «Serpente
Piumato», che ritornava tra il popolo che tempo prima aveva abbandonato.
Montezuma aveva vissuto fino allora come un greco o un romano, sotto il
segno di molti dèi, conciliando la sua fedeltà a Quetzalcoatl, il dio
della famiglia materna e dei sacerdoti, con la fedeltà a tutti gli altri
dèi messicani. Ora, improvvisamente, era posto di fronte a una scelta
tremenda. Cosa doveva fare? Prendere le parti del suo dio ritornato, che
veniva a sconvolgere il fragile equilibro del mondo azteco? O difendere
Messico? Comprese che non apparteneva a nessuno; e non poteva
combattere Quetzalcoatl né abbandonare Huitzilopochtli o Tezcatlipoca.
Così la sua condotta fu un solo intreccio di ambiguità, di
contraddizioni, di incertezze, di sospensioni, di rinvii. Nel fondo del
cuore sapeva che tutto quello che faceva era inutile. Quello che gli
astri avevano deciso si sarebbe verificato. Lui non poteva che attendere
passivamente la volontà del cielo.
Il 9 novembre 1519, gli spagnoli giunsero a Messico. Un gran corteo di
nobili, coi mantelli multicolori, un fulgore di piume ed ornamenti in
oro, venne loro incontro. Quando si fermarono davanti a Cortés, ciascuno
toccò la terra con una mano e la baciò. Poi Cortés giunse davanti a
Montezuma e gli disse: «Sei forse tu? Sei proprio tu? È vero che sei
Montezuma?» L’imperatore gli rispose: «Sì, sono io». Poi si alzò in
piedi per riceverlo, chinò la testa e gli disse: «Signore, ti sei
affaticato, ti sei stancato, e ora sei giunto alla tua terra. Sei
arrivato alla tua città. Sei venuto a sederti sul tuo trono. Coi miei
occhi vedo il tuo viso e la tua persona. Sono giorni che aspettavo
questo momento. Sono giorni che il mio cuore guardava nella direzione da
cui sei giunto. Tu sei uscito dalle nuvole e dalle nebbie, dal luogo
nascosto a noi tutti. Sii il benvenuto. Ora riposa. Qui c’è la tua casa,
qui ci sono i tuoi palazzi».
Cortés fece imprigionare l’imperatore azteco e lo mise in ceppi.
Montezuma accettò di venire battezzato. Intanto i messicani elessero un
nuovo re, assediando gli spagnoli nel loro palazzo. Cortés fece salire
Montezuma su una terrazza: l’imperatore fece segno agli Aztechi di fare
silenzio perché voleva parlare con loro. Allontanò da sé lo scudo che lo
proteggeva, e ingiunse agli Aztechi di non fare del male agli spagnoli
perché egli così ordinava. I messicani lo insultarono, imputandogli di
essere divenuto succube degli spagnoli: egli si era accordato con loro
per mettere a morte i più valorosi e potenti signori aztechi. Non lo
riconoscevano più come signore. Prima che Montezuma potesse ripararsi
dietro lo scudo, venne lanciata una pietra contro di lui, che lo colpì
sulla fronte e lo uccise.
L’anno dopo Cortés decise di radere al suolo la città che aveva tanto
amato. Ordinò ai soldati di distruggere tutte le case: di spianarle, di
colmare i canali, e di trasformarli in una desolata terraferma.
L’avanzata continuò, come un incubo, la notte e il giorno, ritmata dal
terribile rullo dei tamburi spagnoli e dal suono sacrificale dei corni
aztechi. Sul lago cessò improvviso ogni rumore. Non più fracasso di
tamburi, di corni e di trombe, non più colpi di fucile e di cannone, o
strepiti e urla di combattenti: si spense ogni voce; e un silenzio
pauroso cadde sopra gli dèi morti, i templi, la piazza una volta così
animata, i giardini, le piume di Messico.
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