Una vergogna [SGA].
Il consiglio di lettura di Saviano scatena gli antisemiti su Facebook Elena Loewenthal
C’è chi la butta sul personale con un lapidario «Saviano ebreo». Chi avanza ardite ipotesi teologico-storiche: «Israele vive con la mentalità dell’ultima guerra, quel popolo è rimasto fermo a quell’epoca, si rendono antipatici perché pigolano sempre… solite storie che loro sono il popolo eletto, lo stesso popolo che ha crocifisso Nostro Signore». Chi sentenzia di «nazismo ebraico», di Israele come «il male del Medio Oriente» che «deve sparire dalla faccia della terra» e del titolare della pagina come suo servo («e gli rende tanto») e protettore degli assassini. È bastato che Roberto Saviano postasse sulla sua seguitissima pagina Facebook un consiglio di lettura, nella fattispecie La collina del giovane autore israeliano Assaf Gavron, appena tradotto dalla Giuntina, per innescare una valanga di commenti tanto deliranti quanto indignati.
«Se odiate Israele, se odiate i coloni, leggete questo romanzo. Se amate Israele e difendete i coloni leggete questo romanzo. Ma anche se non vi importa niente del Medio Oriente ma amate la letteratura, allora leggete questo romanzo»: in modo più bipartisan di così non poteva esprimersi. Ma a quanto pare dalla neutralità (e in fondo dal senso stesso) della letteratura al pregiudizio bell’e buono il passo è molto breve, almeno sui social network. Che, tanto per cambiare, sfoderano il consueto repertorio di un antisemitismo ormai disarcionato da ogni decenza, condito di un’ignoranza disarmante. Difficile immaginare quale possa essere la terapia, in questo mondo della comunicazione globale dove tutti scrivono ma quasi nessuno legge.
“Vi racconto il far west della Cisgiordania”
Per
il suo romanzo “La collina” lo scrittore israeliano Assaf Gavron si è
immerso nella complessa realtà di un insediamento illegale dei coloni
di Susanna Nierenstein Repubblica 25.5.15
STUFI degli assonnati spiriti borghesi del paese, in fuga forse dal
proprio passato, in cerca di un senso, un po’ freak, convinti di poter
darsi le leggi da soli, amanti del vento, del paesaggio estremo, della
solitudine, della sfida, e del cielo conturbante della Bibbia. Ne
sapevamo poco dei coloni della Cisgiordania, solo dalle cronache.
Ora, con l’ottimo La collina, il settimo romanzo del 47enne Assaf
Gavron, ci ritroviamo tra i settler del West Bank, anzi, tra quelli di
un outpost illegale, Maalé Chermesh C, una decina di container di 4
metri per 11 che funzionano da case e sinagoghe e asili, il genere di
postazione che siamo abituati a immaginare abitata da una banda di
estremisti invasati. Beh, era la stessa cosa che pensava Gavron,
israeliano di supersinistra, capitano della squadra di calcio degli
scrittori del paese, cantante in una rock band, di origini inglesi,
vincitore con La collina del Bernstein Prize e finalista al Saphire e al
Brenner. Ma lì ha trovato invece una quindicina di normali esseri
umani. Sì, beffano l’esercito e il ministro che vuole sradicarli facendo
telefonate ai politici amici, oppure alleandosi paradossalmente con i
palestinesi locali e con manifestanti di Shalom Achshav per non far
costruire il muro di difesa su quel terreno; ma poi lavorano sodo,
vivono semplicemente, amano o divorziano, stanno dietro ai figli a volte
devotissimi (ma pronti, come la bella Ghitit, ad avere le prime
emozioni amorose con il soldato di guardia), altre, come Yakir, pieni di
dubbi sul rapporto violento con gli arabi. Pregano, si rivolgono a Dio,
ma non ossessivamente in fondo.
Anzi, il più pio è Gabi, uno che arriva da una storia di kibbutz e
fallimenti per una serie di gravi corti circuiti mentali che, in tanta
mitezza, lo rendono violento. Suo fratello Roni è l’opposto, un leader
in ogni campo, scuola, pallacanestro, esercito, imprenditoria. Eppure
anche lui finisce a Maalé Chermesch C, disperato, subito pronto però a
cercare di rimettersi in piedi facendo un business con l’olio di oliva
dei vicini palestinesi. C’è tanto in questo libro soffuso di ironia, a
brevi tratti di sublime, di dolore che emerge dai flash back. Capiamo
molto di quello che non abbiamo mai capito.
Mr Gavron, come ha deciso di inoltrarsi in un tema tanto scottante?
«Perché non mi accontentavo di demonizzare i settler, volevo capire
perché e come qualcuno decide di fare una scelta che ha delle
ripercussioni dirette sulla mia vita, sulle possibilità di pace,
sull’immagine del paese, su come anche io, in quanto israeliano, vengo
percepito dal mondo. Volevo andare a vedere. E ho trovato delle persone
affascinanti, certo controverse, ma con una passione interiore
sconosciuta a molti. Gente con background diversissimi, russi,
americani, kibbutznik, informatici, coltivatori di rucola e pomodorini,
pastori, insieme in una tensione quotidiana alta, in una terra senza
confini chiari, dove valgono ancora i miti della frontiera e farwest ».
Ha vissuto in un outpost per diverso tempo.
«Andavo e venivo. Per due anni ho visitato molti insediamenti. Ma
soprattutto l’avamposto Tekoa D, piccolo, moderato, non ostile — altrove
mi avevano mandato via. Erano incuriositi che uno di Tel Aviv non
volesse per forza criticarli ma conoscerli e scrivere un libro su di
loro. Per tre giorni alla settimana potevo stare in una capanna di legno
a strapiombo su un dirupo, come quella costruita da Gabriel, nel
silenzio e tra i venti».
Ha trovato quello che si aspettava?
«Non ero stupito, ero certo che non sarebbero stati uguali allo
stereotipo del male. Ma mi ha sorpreso la varietà della gente, che
politica e religione fossero sì importanti, ma non quanto il fatto che
quel luogo fosse poco costoso, bellissimo e, paradossalmente,
rilassante. Nonostante la tensione con gli arabi e l’esercito, la vita
di ogni giorno si svolgeva in mezzo alla natura e a un cielo
spettacolare».
La loro fede l’ha tentata?
«No, mi sentivo un antropologo. E poi dal momento in cui passi la
frontiera avverti una sorta di nervosismo nell’aria, che non fa sentire a
proprio agio, come quando ero soldato. No, niente mi ha tentato, non
sono cambiato, né io, né le mie idee».
Non ci sono mai cattivi.
«A volte puoi dimenticare che la loro dimensione sia anche così
politica, e qualcuno dice anche che non è interessato a quest’aspetto.
Vivono, lavorano, ridono, litigano. E io non volevo scrivere un libro
polemico, volevo descrivere chi erano. Comunque nel romanzo i fanatici
ci sono, Otniel è un tipico ideologo del movimento, Neta è una
capopopolo, ma poi invita la sorella per il week end, fa l’estetista,
vuole un bambino... ».
Non ci sono neanche i buoni.
Ognuno ha dei difetti. Ma lei è totalmente empatico, non giudica. Sembra
lo stesso metodo usato nel suo libro La mia storia, la tua storia ,
dove entrava nella testa di un terrorista palestinese. In Israele fu
molto criticato. Come è stato accolto questa volta?
«Per me ogni persona è un essere umano, orribile o fantastico che sia.
Un romanzo ha il potere di mostrare proprio che non tutto è bianco o
nero. Io amo entrare in personaggi controversi su cui in genere si usano
degli stereotipi. Nel caso del kamikaze volevo capire come si diventa
uno che vuole uccidere altre 20 o 50 persone oltre se stesso. La collina
è piaciuto alla critica. Anche se credo non mi leggano né quelli
dell’estrema destra, che non si fidano di me, né quelli dell’estrema
sinistra: per loro che un colono sia un essere umano non è previsto».
Kibbutz e colonie: spesso nel romanzo vengono accostati come due piccoli
universi ugualmente chiusi, con un controllo sociale esasperato, una
forte ideologia e la sicurezza di essere perfetti.
«Non sono il primo a dire che sono simili. Ma raccontarlo in un romanzo è
un’altra cosa: se prendiamo i primi anni dei kibbutz, la loro
scomodità, l’audacia, l’appropriarsi illegalmente di qualche metro in
più... quel sentirsi una minoranza superiore a tutti gli altri, la
passione... Si assomigliano, ne sono sicuro».
I fratelli Gabi e Roni sono le due facce di Israele oggi?
«Non l’avevo pianificato. Ma in effetti sono complementari, e il loro
insieme è l’Israele contemporanea. Roni che eccelle e tenta la fortuna
rischiando tutto, Gabi timido, ma con una buona dose di violenza pronta
ad esplodere. Ma si amano molto, le loro parti in conflitto possono
trovare un accordo ».
Tempo fa ha detto che i settler erano il maggior ostacolo alla pace.
Oggi, pensando anche a Gaza e a Hamas, al nuovo governo di destra sempre
in lite con Obama, l’Isis, la Siria, l’Iran, lo direbbe ancora?
«Non è il maggior ostacolo, ma il primo, il più diretto, alla soluzione due popoli due stati».
E tutto il resto?
«Non siamo circondati da amici. Ma penso che nessuno ci cancellerà dalla faccia della terra».
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