Neobonapartismo, astensionismo deliberatamente perseguito, riconduzione della politica di massa a conflitto interno alle elites
Il leader neobonapartista ama essere plebiscitato, soprattutto per via
virtuale e in assenza di attrito, ma ama non di meno l'astensionismo e
lo coltiva di conseguenza.
Nelle condizioni di una società
tendenzialmente atomizzata e resa politicamente amorfa attraverso la
frantumazione delle sue identità collettive e dei suoi corpi intermedi e
mediante la cooptazione selettiva delle
risultanti frattaglie, la crisi della rappresentanza, ovvero la
cosiddetta "separazione tra cittadini e istituzioni" - che è poi la
de-rappresentazione ovvero la de-emancipazione delle classi subalterne,
per uscire dalla vaghezza dei postmoderni e dei sociologi di corte - è
un obiettivo imprescindibile della "governance neoliberale".
L'astensionismo non è affatto un problema ma costituisce semmai un
vantaggio e un'opportunità da sollecitare. Resa ormai impossibile ogni
organizzazione autonoma degli interessi in conflitto e neutralizzato
dunque ogni pericolo esterno, l'aumento dell'astensione relativa
facilita la costruzione di maggioranze fittizie, già implicite
nell'adozione della formula maggioritaria. Si tratta, semplicemente, di
elaborare un algoritmo che traduca una minoranza politica in una
maggioranza numerica, in ossequio alla mera forma di una caricatura
della concezione liberale della democrazia.
Più c'è astensione,
dunque, più una minoranza compattata attraverso una precisa catena di
contrattazioni può emergere come maggioranza relativa e trovare con ciò
la legittimazione di un'intera accumulazione di retoriche, rinnovata
dalla vulgata anti-totalitaria e, oggi, anti-populista.
Chi nella
politica di professione dice di voler risolvere la questione
dell'astensionismo mente. Nel sistema statunitense, che è modello di
riferimento, l'astesionismo è necessario per garantire la stabilità e la
continuità delle politiche. Persino in Hannah Arendt la politica era
questione di elites in movimento permanente [SGA].
Carlo Carboni: L’implosione delle élite. Leader contro in Italia e in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli
Risvolto
Leader contro élite, in Italia come in Europa. Dopo la scomparsa delle élite aristocratiche e borghesi, verticali e autocentrate, assistiamo all’implosione delle élite democratiche, paralizzate nelle decisioni dalla propria autoreferenzialità e dalla complessità di un potere plurale e frammentato, afflitto perennemente da veti incrociati di piccoli e grandi centri di potere. Emergono così i capi, non più sostenuti da élite che brillano di luce propria, ma da un “cerchio magico” di obbedienti nominati. Sono leader mediatici, persuasori capaci di andare direttamente al popolo. Di contro, le élite democratiche hanno perso in coesione e consapevolezza tanto che sembra loro rimasta solo la cospirazione, una relazionalità rigata spesso da illeciti e corruzione. Anche le élite europee, ancora somma di quelle degli stati nazionali, rischiano di implodere per povertà di visione strategica e per la loro cocciuta ricerca di sintonie interne nazionali anche al prezzo di mortificare le sintonie esterne necessarie tra i paesi europei. L’autore de La società cinica (2008) e di Élite e classi dirigenti in Italia, premio Capalbio per l’Economia nel 2007, analizza le élite locali, nazionali ed europee intrappolate tra debolezze e le impervie complessità del nostro tempo. Ecco perché le classi dirigenti divengono merce rara e tutti siamo alla ricerca di uomini carismatici capaci di legare il proprio destino personale al futuro comune.
Effetti della globalizzazione
Il disfacimento delle élite
Carlo Carboni esamina il processo di sfilacciamento dei vertici del sistema politico-sociale in Europa e in Italia
di Valerio Castronovo Il Sole Domenica 17.5.15
La globalizzazione ha determinato non solo una denazionalizzazione dello
spazio economico. Ha modificato gli equilibri geo-politici fra le
diverse parti del mondo, in seguito al consolidamento di due grandi
player, come Cina e India, e all’irruzione sulla scena di altri Paesi
emergenti seppur con tassi di sviluppo meno elevati. D’altro canto,
mentre gli Stati Uniti sono riusciti a risollevarsi dalle conseguenze
più pesanti del sisma finanziario del 2008, l’Europa stenta tuttora a
riprendere, nel suo insieme, fiato e vigore; e si è così allontanata dal
suo orizzonte la prospettiva dell’unione politica, di cui la messa in
comune nell’Eurozona di una moneta unica avrebbe dovuto essere il
prologo.
Ma quanto è avvenuto negli ultimi anni, sulla scia di un’economia
globalizzata e di un cosmopolitismo multipolare, non ha fatto che
accentuare un processo, già in corso da tempo, segnato dallo
sfilacciamento, un po’ dovunque nel Vecchio Continente, delle forme di
rappresentatività politica e sociale affermatesi di pari passo con
l’evoluzione degli ordinamenti democratici e nell’ambito della società
di massa. È quanto si evince da un saggio di Carlo Carboni che analizza,
con riferimento allo scenario europeo e al caso specifico dell’Italia,
le cause di fondo che avrebbero finito per minare, al volgere del
Novecento, sia il potere d’orientamento sia quello direttivo delle
élite, di matrici e connotazioni diverse, attestate saldamente per un
lungo periodo ai vertici del sistema. Di qui la crisi d’identità che,
secondo l’autore, ha investito le élite democratiche e pluraliste,
protagoniste ed espressione dell’assetto istituzionale ed
economico-sociale subentrato, dal secondo dopoguerra, a quello facente
capo in passato alle élite aristocratiche e borghesi del notabilato e
del ceto colto, verticali e oligarchiche. E ciò in seguito alla
transizione verso una società post-moderna e post-ideologica, o (per
dirla con Zygmut Bauman) una “società liquida” senza più saldi punti
d’attracco e sempre più fluida.
In effetti sono numerosi e pregnanti i segnali sia di indebolimento
delle élite politiche prevalenti sino a poco tempo addietro (in quanto
insidiate da un forte astensionismo elettorale, da una crescente
diffidenza nei riguardi della politica, dall’inaridimento dei canali di
aggregazione e partecipazione costituiti dai partiti, nonché dalla
diffusione di movimenti di protesta e disagio civile) sia di logoramento
di alcuni tradizionali gruppi dirigenti economici (per via del
restringimento del campo d’azione e d’influenza di associazioni
imprenditoriali e di categoria) e delle vecchie centrali sindacali (data
la senescenza dei loro classici procedimenti negoziali-conflittuali). A
non contare la perdita di peso specifico di vari corpi e sodalizi
intermedi.
Al posto di queste componenti elitarie, man mano sdrucitesi a causa
della loro autoreferenzialità e dello scadimento della loro
relazionalità (dovuta anche, nel caso italiano, da corruzione e
illeciti), l’autore sostiene che hanno via via assunto, dagli inizi del
ventunesimo secolo, un ruolo preminente quelle che egli definisce col
termine di “net élite”: ossia, una superclasse di manager apicali
nell’economia e nella finanza, un robusto nucleo di autorevoli
tecnocrati d’alto livello, e una schiera di opinion maker abili
nell’orchestrare l’intera batteria degli strumenti massmediatici.
Insomma, sarebbe avvenuta una sorta di metamorfosi, coincisa sia con la
progressiva evaporazione, dopo l’Ottantanove, delle radicali differenze
politico-ideologiche d’un tempo fra destra e sinistra (ma anche col
declino di una determinata etica pubblica), sia col sopravvento, in un
universo sempre più mutevole e interconnesso, di esigenze di
governabilità, rispetto a quelle di rappresentatività, e quindi di
peculiari capacità decisionali e di nuove efficienti reti relazionali.
Senonché c’è da chiedersi (come rilevano, insieme a Carboni, altri
sociologi e analisti) se, in seguito all’atrofizzarsi degli spazi di
partecipazione politica dei cittadini e alla frammentazione del tessuto
sociale, in un’Europa a trazione tedesca, rimasta inchiodata al
parametro dell’austerità, la democrazia non corra oggi un duplice
rischio. Da un lato, il pericolo di cedere il passo a una strisciante
egemonia delle net élite, di una nomenclatura dai poteri apparentemente
“soft” ma in realtà fortemente condizionanti e pervasivi; e, dall’altro,
quello di essere esposta sia a un rigurgito di nazionalpopulismo sia
alle suggestioni di un carismatico leaderismo.
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