lunedì 18 maggio 2015

Crisi delle elites o guerra e rinnovamento interno alle elites e alle classi dominanti?

Neobonapartismo, astensionismo deliberatamente perseguito, riconduzione della politica di massa a conflitto interno alle elites



Il leader neobonapartista ama essere plebiscitato, soprattutto per via virtuale e in assenza di attrito, ma ama non di meno l'astensionismo e lo coltiva di conseguenza.
Nelle condizioni di una società tendenzialmente atomizzata e resa politicamente amorfa attraverso la frantumazione delle sue identità collettive e dei suoi corpi intermedi e mediante la cooptazione selettiva delle risultanti frattaglie, la crisi della rappresentanza, ovvero la cosiddetta "separazione tra cittadini e istituzioni" - che è poi la de-rappresentazione ovvero la de-emancipazione delle classi subalterne, per uscire dalla vaghezza dei postmoderni e dei sociologi di corte - è un obiettivo imprescindibile della "governance neoliberale".

L'astensionismo non è affatto un problema ma costituisce semmai un vantaggio e un'opportunità da sollecitare. Resa ormai impossibile ogni organizzazione autonoma degli interessi in conflitto e neutralizzato dunque ogni pericolo esterno, l'aumento dell'astensione relativa facilita la costruzione di maggioranze fittizie, già implicite nell'adozione della formula maggioritaria. Si tratta, semplicemente, di elaborare un algoritmo che traduca una minoranza politica in una maggioranza numerica, in ossequio alla mera forma di una caricatura della concezione liberale della democrazia.

Più c'è astensione, dunque, più una minoranza compattata attraverso una precisa catena di contrattazioni può emergere come maggioranza relativa e trovare con ciò la legittimazione di un'intera accumulazione di retoriche, rinnovata dalla vulgata anti-totalitaria e, oggi, anti-populista.

Chi nella politica di professione dice di voler risolvere la questione dell'astensionismo mente. Nel sistema statunitense, che è modello di riferimento, l'astesionismo è necessario per garantire la stabilità e la continuità delle politiche. Persino in Hannah Arendt la politica era questione di elites in movimento permanente [SGA].

L'implosione delle éliteCarlo Carboni: L’implosione delle élite. Leader contro in Italia e in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli

Risvolto
Leader contro élite, in Italia come in Europa. Dopo la scomparsa delle élite aristocratiche e borghesi, verticali e autocentrate, assistiamo all’implosione delle élite democratiche, paralizzate nelle decisioni dalla propria autoreferenzialità e dalla complessità di un potere plurale e frammentato, afflitto perennemente da veti incrociati di piccoli e grandi centri di potere. Emergono così i capi, non più sostenuti da élite che brillano di luce propria, ma da un “cerchio magico” di obbedienti nominati. Sono leader mediatici, persuasori capaci di andare direttamente al popolo. Di contro, le élite democratiche hanno perso in coesione e consapevolezza tanto che sembra loro rimasta solo la cospirazione, una relazionalità rigata spesso da illeciti e corruzione. Anche le élite europee, ancora somma di quelle degli stati nazionali, rischiano di implodere per povertà di visione strategica e per la loro cocciuta ricerca di sintonie interne nazionali anche al prezzo di mortificare le sintonie esterne necessarie tra i paesi europei. L’autore de La società cinica (2008) e di Élite e classi dirigenti in Italia, premio Capalbio per l’Economia nel 2007, analizza le élite locali, nazionali ed europee intrappolate tra debolezze e le impervie complessità del nostro tempo. Ecco perché le classi dirigenti divengono merce rara e tutti siamo alla ricerca di uomini carismatici capaci di legare il proprio destino personale al futuro comune.

Effetti della globalizzazione

Il disfacimento delle élite
Carlo Carboni esamina il processo di sfilacciamento dei vertici del sistema politico-sociale in Europa e in Italia

di Valerio Castronovo Il Sole Domenica 17.5.15
La globalizzazione ha determinato non solo una denazionalizzazione dello spazio economico. Ha modificato gli equilibri geo-politici fra le diverse parti del mondo, in seguito al consolidamento di due grandi player, come Cina e India, e all’irruzione sulla scena di altri Paesi emergenti seppur con tassi di sviluppo meno elevati. D’altro canto, mentre gli Stati Uniti sono riusciti a risollevarsi dalle conseguenze più pesanti del sisma finanziario del 2008, l’Europa stenta tuttora a riprendere, nel suo insieme, fiato e vigore; e si è così allontanata dal suo orizzonte la prospettiva dell’unione politica, di cui la messa in comune nell’Eurozona di una moneta unica avrebbe dovuto essere il prologo.
Ma quanto è avvenuto negli ultimi anni, sulla scia di un’economia globalizzata e di un cosmopolitismo multipolare, non ha fatto che accentuare un processo, già in corso da tempo, segnato dallo sfilacciamento, un po’ dovunque nel Vecchio Continente, delle forme di rappresentatività politica e sociale affermatesi di pari passo con l’evoluzione degli ordinamenti democratici e nell’ambito della società di massa. È quanto si evince da un saggio di Carlo Carboni che analizza, con riferimento allo scenario europeo e al caso specifico dell’Italia, le cause di fondo che avrebbero finito per minare, al volgere del Novecento, sia il potere d’orientamento sia quello direttivo delle élite, di matrici e connotazioni diverse, attestate saldamente per un lungo periodo ai vertici del sistema. Di qui la crisi d’identità che, secondo l’autore, ha investito le élite democratiche e pluraliste, protagoniste ed espressione dell’assetto istituzionale ed economico-sociale subentrato, dal secondo dopoguerra, a quello facente capo in passato alle élite aristocratiche e borghesi del notabilato e del ceto colto, verticali e oligarchiche. E ciò in seguito alla transizione verso una società post-moderna e post-ideologica, o (per dirla con Zygmut Bauman) una “società liquida” senza più saldi punti d’attracco e sempre più fluida.
In effetti sono numerosi e pregnanti i segnali sia di indebolimento delle élite politiche prevalenti sino a poco tempo addietro (in quanto insidiate da un forte astensionismo elettorale, da una crescente diffidenza nei riguardi della politica, dall’inaridimento dei canali di aggregazione e partecipazione costituiti dai partiti, nonché dalla diffusione di movimenti di protesta e disagio civile) sia di logoramento di alcuni tradizionali gruppi dirigenti economici (per via del restringimento del campo d’azione e d’influenza di associazioni imprenditoriali e di categoria) e delle vecchie centrali sindacali (data la senescenza dei loro classici procedimenti negoziali-conflittuali). A non contare la perdita di peso specifico di vari corpi e sodalizi intermedi.
Al posto di queste componenti elitarie, man mano sdrucitesi a causa della loro autoreferenzialità e dello scadimento della loro relazionalità (dovuta anche, nel caso italiano, da corruzione e illeciti), l’autore sostiene che hanno via via assunto, dagli inizi del ventunesimo secolo, un ruolo preminente quelle che egli definisce col termine di “net élite”: ossia, una superclasse di manager apicali nell’economia e nella finanza, un robusto nucleo di autorevoli tecnocrati d’alto livello, e una schiera di opinion maker abili nell’orchestrare l’intera batteria degli strumenti massmediatici.
Insomma, sarebbe avvenuta una sorta di metamorfosi, coincisa sia con la progressiva evaporazione, dopo l’Ottantanove, delle radicali differenze politico-ideologiche d’un tempo fra destra e sinistra (ma anche col declino di una determinata etica pubblica), sia col sopravvento, in un universo sempre più mutevole e interconnesso, di esigenze di governabilità, rispetto a quelle di rappresentatività, e quindi di peculiari capacità decisionali e di nuove efficienti reti relazionali.
Senonché c’è da chiedersi (come rilevano, insieme a Carboni, altri sociologi e analisti) se, in seguito all’atrofizzarsi degli spazi di partecipazione politica dei cittadini e alla frammentazione del tessuto sociale, in un’Europa a trazione tedesca, rimasta inchiodata al parametro dell’austerità, la democrazia non corra oggi un duplice rischio. Da un lato, il pericolo di cedere il passo a una strisciante egemonia delle net élite, di una nomenclatura dai poteri apparentemente “soft” ma in realtà fortemente condizionanti e pervasivi; e, dall’altro, quello di essere esposta sia a un rigurgito di nazionalpopulismo sia alle suggestioni di un carismatico leaderismo.

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