venerdì 15 maggio 2015

Ian Bremmer: il piano Marshall della Cina


Risultati immagini per cina usaIl Piano Marshall alla cinese per contrastare gli Stati Uniti
di Ian Bremmer Corriere 15.5.15
Dagli anni Ottanta a oggi, l’unica costante nella politica internazionale è stata l’inarrestabile avanzata della Cina. Tuttavia, l’espansione della sua influenza economica si distingue nettamente dall’affermazione del suo ruolo militare. Il presidente Xi Jinping non ha nessuna intenzione di sfidare la supremazia militare americana in un prossimo futuro. Appare ovvio che, al di fuori dell’Est asiatico, il predominio militare convenzionale statunitense faccia piuttosto comodo alla Cina, poiché argina il rischio di conflitti globali che potrebbero nuocere allo sviluppo economico del Paese.
L addove Washington è riuscita ad evitare il conflitto, soprattutto in Medio Oriente, la leadership cinese si mostra restia ad accettare nuovi costi e rischi. Se Mosca non esita a flettere i muscoli, Pechino preferisce lavorare in sordina per gettare solide basi della sua forza futura, grazie a un’economia sempre più dinamica.
Sullo scacchiere asiatico, il presidente Xi si rende conto che una Cina più forte ha incoraggiato i suoi vicini, compresa l’India, a rinsaldare i legami con Washington. E mentre le riforme in Cina rallentano l’economia, Pechino farà di tutto per scongiurare di danneggiare senza motivo i rapporti commerciali con il Giappone, che resta la terza economia mondiale. La Cina, con ogni probabilità, intensificherà gli scontri con Paesi confinanti più piccoli, in particolare quelli, come il Vietnam, che non sono alleati dell’America. La Cina è pronta a sviluppare nuove cyber-capacità, anche perché ne traggono beneficio le aziende cinesi. Se Pechino non è disposta a far la voce grossa con Taiwan nei prossimi mesi, è proprio perché i rapporti con Taiwan sono considerati una questione di politica interna, non estera. In breve, Pechino non ha alcun interesse a scatenare una crisi di sicurezza in qualunque punto del pianeta, se questo rischia di provocare effetti collaterali nocivi per la sua crescita economica e il suo piano di riforme.
Altra storia è invece la crescente influenza economica cinese. Pechino ha lanciato un assalto frontale all’ordine economico globale guidato da Washington offrendo al mondo nuove istituzioni e alternative agli investimenti e agli standard tecnologici statunitensi. Anzi, nessun altro Paese è oggi in grado, come la Cina, di sfruttare la sua potenza economica, sotto la guida statale, per allargare con altrettanta efficacia il suo raggio di influenza.
Settant’anni fa, gli Stati Uniti investirono miliardi di dollari — fino al 4% del loro prodotto interno lordo — nello sforzo di ricostruire le economie europee dopo la Seconda guerra mondiale. Il piano Marshall non aveva certo scopi altruistici, era anzi un piano di investimenti, con finalità strategiche, concepito dall’America per rilanciare la crescita con i suoi principali partner commerciali e per mettere in piedi un ordine globale, a guida americana, allo scopo di contrastare un’eventuale avanzata comunista verso Occidente. Di lì a poco seguirono istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.
Dopo le lunghe e costose guerre in Iraq e Afghanistan, i cittadini americani vogliono che i loro soldi vengano utilizzati in patria, e non sono disposti ad accettare nuove spese in politica estera, specie di tale importo. Il governo Obama, per rispettare questa volontà, farà sempre più ricorso alla «militarizzazione della finanza», vale a dire l’accesso al mercato dei capitali (la carota), e l’applicazione di sanzioni mirate (il bastone) per ottenere i propri scopi senza convogliare né truppe né soldi verso focolai di conflitto. Tuttavia questa strategia complica i rapporti con gli alleati, che spesso si ritrovano con le loro aziende, banche e investitori intrappolati nel fuoco incrociato.
Ma anche la Cina ha pressanti esigenze di spesa pubblica. È in procinto di mettere in piedi la più grande rete di ammortizzatori sociali del pianeta, e di investire in infrastrutture futuristiche per creare nuovi posti di lavoro e stimolare la crescita, senza contare poi la necessità di risanare l’ambiente pesantemente inquinato. Gli investimenti statali, in Cina, non sono però condizionati dal sistema democratico dei contrappesi, né sono esposti al pubblico scrutinio. Il presidente Xi appare convinto che le rivalità all’interno del partito siano gestibili e che le sue riforme godano di un vasto appoggio pubblico.
Le conseguenze per Washington sono sempre più palesi. A differenza del piano Marshall, la Cina non investe nell’espansione della democrazia liberale né di riforme economiche verso il libero mercato, le condizioni prestabilite per i Paesi che ricevettero gli aiuti finanziari americani nel Dopoguerra. Gli accordi cinesi sono quasi sempre stipulati con singoli governi, in modo da sfruttare al massimo la leva negoziale di Pechino, e non puntano più ad assicurare rifornimenti di materie prime a lungo termine né a creare opportunità per le aziende e per i lavoratori cinesi all’estero. Oggi, Pechino investe per promuovere l’allineamento del maggior numero possibile di governi stranieri con la politica industriale cinese, nelle telecomunicazioni, in Internet, nella gestione e nella normativa finanziaria, e per diffondere l’utilizzo della sua valuta, il renminbi. I recenti successi di Pechino nell’attirare alleati statunitensi come la Gran Bretagna (e forse anche il Giappone) a far parte della Banca di investimento per le infrastrutture in Asia, guidata dalla Cina, segna una svolta nell’influenza cinese in campo internazionale. Se l’inclusione di tante economie avanzate assicura da una parte che l’egemonia cinese sui processi decisionali resterà limitata, dall’altra segnala che Pechino è ormai diventato un «prestatore di prima istanza» per una lista sempre più lunga di governi in difficoltà. Questa nuova legittimità rafforzerà il predominio cinese in altri settori, come la via terrestre della seta e le iniziative di investimenti marittimi, che puntano a estendere l’influenza commerciale cinese da un capo all’altro dell’Eurasia, fino all’Europa e al Mediterraneo. Molti americani hanno a lungo pensato che prima o poi la Cina adotterà sistemi politici ed economici occidentali, per evitare un’implosione di stile sovietico. Questa supposizione non è mai parsa così miope come ora. Piuttosto, sarà la concorrenza globale tra Usa e Cina per l’egemonia commerciale a costringere tutti i Paesi intermedi a fare difficili scelte economiche. (Traduzione di Rita Baldassarre) 

La strategia incompresa del presidente Obama
di Massimo Gaggi Corriere 15.5.15
I «pontieri» al lavoro in Congresso stanno superando il recente stallo sulla concessione al presidente della «corsia preferenziale» necessaria per chiudere i trattati di libero scambio: il Tpp con i partner asiatici degli Stati Uniti e, più in là, il Ttip con i Paesi dell’Unione europea. La strada, però, è ancora lunga (il difficile verrà alla Camera) e lo strappo a sinistra tra Obama e i liberal del suo partito è molto profondo. Il leader democratico ha usato contro gli oppositori interni un linguaggio durissimo, come raramente (qualcuno dice mai) ha fatto coi repubblicani. Quando Elizabeth Warren ha attaccato, giudicando il free trade un regalo alle imprese e un modo per ridurre i controlli su Wall Street, un Obama furente ha replicato che la senatrice dice cose assolutamente false: si comporta come un «politico qualunque» che trasforma le sue fantasiose ipotesi in fatti.
   Parole assai aspre perché, spiegano alla Casa Bianca, Obama è offeso dall’opposizione preconcetta di molti della sua parte politica ai trattati così come anni fa era offeso dall’opposizione preconcetta dei repubblicani alla sua riforma sanitaria. Ma non si tratta solo di orgoglio ferito. Nella strategia del presidente i trattati con l’area del Pacifico e con la Ue sono molto più che accordi per «oliare» il business e creare un po’ di posti di lavoro: sono il cuore della nuova politica estera americana, l’architrave di una leadership (o influenza) Usa diversa, destinata a basarsi sempre meno sulla presenza militare nel mondo e sempre più sulla capacità di promuovere attività e legami economici. Dovrebbe rifletterci su anche l’Europa che sembra preoccuparsi solo della diffusione degli Ogm.
   C’è un cambio di passo di Obama che non è stato capito: i sindacati e il sindaco di New York, de Blasio, sempre più ansioso di presentarsi come capofila della sinistra radicale, continuano a demonizzare i trattati e i Paesi, come Giappone e Malesia, che dovrebbero firmarli. Ma per il presidente l’alleanza commerciale servirà anche a contenere e delimitare l’influenza della Cina in Estremo Oriente: Giappone e Malesia sono pedine essenziali di questo disegno. Ma rinvii e battaglie al Congresso stanno irritando i partner asiatici di Washington mentre Pechino approfitta di questo vuoto per reclutare vari alleati degli Usa — Corea del Sud, Germania , Gran Bretagna e anche l’Italia — nella sua banca per le Infrastrutture: lo strumento, osteggiato dall’America, col quale la leadership cinese vuole dare centralità internazionale al grande Paese asiatico. 

L’Arabia vuole un nucleare «alla pari» con Teheran
Il vertice di Camp David. L’incontro di Obama con i leader del Golfo (e senza il re saudita) «Per i conflitti in Libia e nella regione la soluzione non è militare ma politica»di Mario Platero Il Sole 15.5.15
New York Ci sono due aspetti simbolici che danno la misura di quanto siano difficili i rapporti di Barack Obama con gli antichi alleati del Golfo Persico: dei sei leader che avrebbero dovuto partecipare al vertice di Camp David di ieri fra Stati Uniti e i paesi membri del Consiglio per la cooperazione nel Golfo ne sono venuti soltanto due, in loro vece sono arrivati rappresentanti di alto livello. Alcuni dei leader arabi hanno cercato di salvare le apparenze giustificandosi con malattie. Altri, come Re Salman di Arabia Saudita, hanno semplicemente detto di avere affari di stato più importanti di cui occuparsi. E il sovrano saudita lo ha fatto poco dopo un annuncio con cui la Casa Bianca annunciava la sua partecipazione. E Re Hamadi bin Isa al-Khalifa del Bahrein ha preferito andare a un concorso di cavalli a Palazzo Windsor, su invito della Regina Elisabetta.
Nel comunicato finale, il vertice di ieri ha chiarito che «non c’è soluzione militare» per i conflitti in corso in Libia e nella regione, inclusi quelli in Siria, Iraq, Yemen e Libia, «che possono solo essere risolti attraverso mezzi politici e pacifici». Ma il vertice ha chiarito anche che, al di là delle dichiarazioni formali, vi è ancora profondo risentimento nei Paesi del Golfo per come l’amministrazione Obama ha gestito il negoziato sul nucleare con l’Iran. Questa freddezza si traduce in opportunità perché altri Paesi – e fra questi certamente l’Italia - rafforzino i loro rapporti con i Paesi del Golfo, anche sul piano economico. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha fatto una visita lampo a Abu Dhabi, dove ha parlato degli investimenti in Alitalia e delle partecipazioni UniCredit e delle attività dell’Eni. Ma il suo collega francese François Hollande si è recato in tutta calma in Arabia Saudita, il Paese chiave, dove ha chiuso affari per decine di miliardi di euro. È chiaro dunque che sul piano economico la freddezza fra Stati Uniti e i sei Paesi membri del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo - Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein e Oman – apre nuove opportunità da perseguire con rapidità.
Ma ci sono altre notizie allarmanti che giungono ai margini di questo vertice di Camp David: l’Arabia Saudita ha confermato proprio ieri che perseguirà a sua volta un programma nucleare volto a metterla esattamente in pari con quello che ha fatto finora l’Iran. Questo vuol dire che metterà insieme almeno 5mila centrifughe e avvierà dei programmi di ricerca atomica che le potranno consentire di realizzare una bomba atomica se necessario.
Secondo alcuni commentatori americani, come David Sanger del New York Times, l’intero pacchetto negoziale avviato dal 5+1 con l’Iran finisce con l’aumentare il rischio di proliferazione nucleare invece di diminuirlo, con un problema che viene soltanto rimandato di dieci anni se l’accordo con l’Iran sarà firmato il 30 giugno rispettando i termini attuali dell’intesa. Proprio il New York Times anticipa che la fornitura tecnologica di cui avrebbe bisogno l’Arabia Saudita per avviare il suo programma atomico potrebbe venire dal Pakistan. Ma fonti informate interpellate dal Sole 24 Ore anticipano che in realtà l’Arabia Saudita sarebbe già molto più avanti: il Pakistan che ha potuto realizzare i progetti atomici avviati dal celebre scienziato Khan grazie ai finanziamenti dell’Arabia Saudita, avrebbe già prodotto per conto di Riad almeno una bomba atomica in attesa di essere consegnata su richiesta del “cliente”.
Il paradosso è che i Paesi del Golfo oggi si trovano allineati sulla stessa posizione di Israele per ciò che riguarda l’esito del negoziato nucleare con l’Iran: l’America aveva promesso che avrebbe costretto Teheran a chiudere tutte le centrifughe e che non avrebbe consentito la continuazione di programmi di ricerca che puntano alla costruzione di centrifughe per l’arricchimento dell’Uranio ancora più potenti di quelle di oggi. I Paesi del Golfo sunniti si trovano dunque con un vicino ingombrante, di fede islamica sciita, un paese che viene percepito in espansione, che si rafforzerà sul piano economico quando le sanzioni sul nucleare saranno eliminate, senza adeguate garanzie da parte di quello che credevano essere l’alleato storico.
In cambio delle aperture all’Iran i paesi del Golfo volevano un trattato militare che impegnasse l’America a proteggerli in caso di attacchi esterni. Ma Obama non voluto perseguire un trattato che avrebbe vincolato gli Stati Uniti in modo più formale al di là dell’amminsitrazione Obama. Ieri con parole solenni ha dato una sua rassicurazione personale che i Paesi del Golfo sanno avrà una durata di meno di due anni visto che nel gennaio del 2017 alla Casa Bianca ci sarà un altro presidente. 

Nessun commento: