venerdì 15 maggio 2015

"Mobilitazione totale" di Maurizio Ferraris: la rivoluzione digitale come General Intellect e come Panopticon

Risultati immagini per Fer­ra­ris: Mobi­li­ta­zione totale
E' un esempio della persistenza della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione [SGA].

Mau­ri­zio Fer­ra­ris: Mobi­li­ta­zione totale, Laterza, pp.109, euro 14,00

Risvolto
Un fatto è certo. Il panopticon esiste, ed è il web: un panopticon singolare, cieco, e con al posto di controllo non un essere umano ma una memoria infinita, e con un sapere che è essenzialmente burocratico. Tutto questo urta frontalmente con quanto ci era stato detto all'apparire del web, e cioè che i nuovi media avrebbero portato emancipazione, e tendenzialmente una riduzione del lavoro. Per quello che abbiamo visto sin qui, il web non è emancipazione ma mobilitazione. Non si limita a fornire ai suoi utenti nuove possibilità informative ed espressive; diviene lo strumento di trasmissione di responsabilità e ordini finalizzati al compimento di azioni. Trasformando ogni contatto in una richiesta che esige una risposta individuale, il web è un grande apparato su cui non tramonta mai il sole, in cui si lavora senza neppure sapere di stare lavorando. La risposta fondamentale che vuole il web è quella suggerita dallo smartphone quando si digita la s: "Sto arrivando!". 

I diktat del web 

Salone del libro. «Mobilitazione totale»: questo il titolo del volume che Maurizio Ferraris, autore del «Manifesto del nuovo realismo», discuterà oggi al Lingotto nella sua lectio magistralis
Luca Illetterati il Manifesto 15.05.2015
Si parla di armi nel nuovo libro di Mau­ri­zio Fer­ra­ris, Mobi­li­ta­zione totale (Laterza, pp.109, euro 14,00). Anzi, più cor­ret­ta­mente, di ARMI, dove i carat­teri maiu­scoli stanno ad indi­care che non si tratta tanto di pistole, con­trae­rei o droni, ma di un acro­nimo che sta per Appa­rec­chi di Regi­stra­zione e Mobi­li­ta­zione dell’Intenzionalità, ossia, per scio­gliere il plesso ter­mi­no­lo­gico piut­to­sto inquie­tante, il web: quell’apparato che deter­mina le nostre esi­stenze più di quanto ne siamo in genere con­sa­pe­voli.

Un appa­rato che è fatto di vin­coli (ci sen­tiamo in colpa se non con­trol­liamo le mail), oppor­tu­nità (comu­ni­chiamo in modo infi­nito e pos­siamo veri­fi­care seduta stante un’informazione), chia­mate (alle ARMI), nuove forme di socia­liz­za­zione. L’acronimo non è scelto, ovvia­mente, a caso. Le ARMI sono, in effetti, qual­cosa il cui aspetto è real­mente inquie­tante, sono un asso­luto che si impone in ter­mini deci­sa­mente radi­cali, un potere che ci mobi­lita e ci fa entrare in qual­che modo in guerra, innan­zi­tutto nei con­fronti di noi stessi. 

Un voca­bo­la­rio di guerra
Le ARMI sono, a un tempo, strut­tura coer­ci­tiva e stru­mento di libe­ra­zione: potere deter­mi­nante nei con­fronti delle esi­stenze – per cui ci si trova a orga­niz­zare il pro­prio tempo vitale sulla base di agende che sono coe­renti con il sistema della rete, si apprende e si com­menta ciò che Goo­gle, Face­book o Twit­ter ci chie­dono di appren­dere e com­men­tare – e insieme pos­si­bi­lità di eman­ci­pa­zione – forza in grado di abbat­tere muri prima nem­meno scal­fi­bili, di rag­giun­gere cono­scenze prima pro­tette da densi e opa­chi fil­tri sociali, facendo sen­tire la pro­pria voce (anzi la pro­pria scrit­tura, per­ché la voce sem­bra ormai scom­parsa) là dove prima non ne arri­vava nem­meno l’eco.
Ma Fer­ra­ris insi­ste soprat­tutto, con­tro la reto­rica della con­di­vi­sione totale e coe­ren­te­mente con alcuni suoi assunti teo­rici, sull’aspetto sub­do­la­mente costrit­tivo e per­for­ma­tivo delle ARMI: «ciò a cui stiamo assi­stendo … è il dispie­garsi su scala mon­diale di un potere il cui ante­nato più pros­simo è appunto l’alleanza tra buro­cra­zia e potere mili­tare che si mani­fe­sta nelle espe­rienze sto­ri­che della mobi­li­ta­zione totale». In que­sto senso se c’è un voca­bo­la­rio in grado di pene­trare e ren­dere ragione delle dina­mi­che di fun­zio­na­mento del web, della sua straor­di­na­ria per­va­si­vità e della sua capa­cità di modi­fi­care e strut­tu­rare nel pro­fondo le vite di coloro che spesso si illu­dono di domi­narne il senso, que­sto è appunto il voca­bo­la­rio della mili­ta­riz­za­zione e della guerra. Il Web è un appa­rato che mobi­lita, che deter­mina le prio­rità, che pla­sma alla radice le tem­po­ra­lità esi­sten­ziali, che destrut­tura e ristrut­tura i con­cetti clas­sici di lavoro, di azione, di pro­du­zione, di mer­cato. Den­tro il sistema delle ARMI, infatti, la distin­zione tra tempo di lavoro e tempo di riposo diventa illu­so­ria, così come inde­fi­ni­bile è per molti versi il con­fine tra atti­vità pri­vata e atti­vità pub­blica, e dun­que, in ter­mini ancora più gene­rali, tra libertà e ingiun­zione.
Né apo­ca­lit­tica denun­cia del nuovo e invi­si­bile potere costi­tuito dalla Rete, né inte­grata lode nei con­fronti dei nuovi oriz­zonti da essa dischiusi, il lavoro di Fer­ra­ris non è un’indagine lata­mente socio­lo­gica, e non è un pam­phlet di cri­tica del costume. È un discorso schiet­ta­mente filo­so­fico che si situa, espli­ci­ta­mente, su un livello antro­po­lo­gico, come un un discorso sulla natura umana. La radice delle ARMI non è infatti, secondo Fer­ra­ris, il Capi­tale, non è un’agenzia di mul­ti­na­zio­nali che guida gli indi­vi­dui verso com­por­ta­menti fina­liz­zati a un inte­resse spe­ci­fico; non è nem­meno la CIA o la Natio­nal Secu­rity Agency (cosa che la visione di Citi­zen­four, il docu­men­ta­rio di Laura Poi­tras su Edward Sno­w­den potrebbe anche far pen­sare) o una qual­che Spec­tre di altro tipo: non è appan­nag­gio di Apple né di Micro­soft. E non per­ché que­sti non siano reali poteri, ma per­ché, sem­pli­ce­mente, fer­marsi a que­sto livello equi­var­rebbe alla rinun­cia di una spie­ga­zione radi­cale del feno­meno. La fonte ger­mi­nale delle ARMI, la forza da cui sca­tu­ri­scono è, dice Fer­ra­ris, la natura umana, la pecu­liare ten­denza degli umani a sop­pe­rire alle debo­lezze e alle fra­gi­lità della pro­pria natura con pro­tesi tec­ni­che. La radice delle ARMI è la natura ori­gi­na­ria­mente tec­nica dell’umano; ridurla a stru­mento ela­bo­rato dal potere di taluni per il domi­nio degli altri signi­fica non com­pren­derne la radi­ca­lità. Anzi, pro­prio nella loro duplice natura di stru­mento di vin­colo e oppres­sione, e allo stesso tempo, di ribel­lione ed eman­ci­pa­zione, le ARMI mostrano di essere una delle moda­lità di emer­sione della natura dell’umano. 

Oriz­zonti antro­po­lo­gici
Per que­sto il discorso sulle ARMI non può che essere un’antropologia. E l’antropologia che emerge in que­sto lavoro di Fer­ra­ris è fon­da­men­tal­mente pes­si­mi­stica. Il punto è cru­ciale per­ché getta una luce niente affatto banale su quel (nuovo) rea­li­smo filo­so­fico di cui molto si è discusso in que­sti anni, a volte con stizza e non di rado con accenti iste­rici. In un certo senso, in que­sta antro­po­lo­gia sem­bra di poter scor­gere una delle moti­va­zioni pro­fonde che spin­gono verso quella opzione onto­lo­gica e meta­fi­sica. Nel sot­to­li­neare e nell’insistere sulla neces­sità di pen­sare l’indipendenza del reale dalle menti e, con­se­guen­te­mente, la dipen­denza delle menti dal reale, il rea­li­smo di Fer­ra­ris si fa in que­ste pagine, rea­li­smo esi­sten­ziale.
Nell’antropologia che viene pro­po­sta in que­sta ana­lisi della rete come luogo den­tro il quale le nostre esi­stenze si tro­vano get­tate a vivere, l’esistenza si rivela in effetti ade­guata solo in quanto acco­glie la sua dipen­denza dal reale. La con­vin­zione che Fer­ra­ris cerca di difen­dere qui è dun­que que­sta: che l’esistenza non sia tanto for­ma­trice di mondo (come voleva Hei­deg­ger, che distin­gueva così il modo d’essere dell’uomo dal modo d’essere della pie­tra – priva di mondo – e dall’animale – povero di mondo) ma sia sem­mai dipen­dente dal mondo. Più radi­cal­mente ancora: è il mondo, con il suo cor­re­lato di lin­guaggi, tra­di­zioni, leggi e sto­rie, a essere for­ma­tore di esi­stenze. Le vite degli umani rice­vono il loro senso dal mondo e da tutte quelle stra­ti­fi­ca­zioni di senso che vi si sono for­mate, fuori da qual­siasi dina­mica volon­ta­ri­stica e inten­zio­nale: dalla gram­ma­tica delle abi­tu­dini al sistema di norme sociali che costi­tui­scono il gigan­te­sco incon­scio den­tro il quale già da sem­pre siamo e già da sem­pre, fin dal nostro primo respiro, ci muoviamo. 

In que­sto senso il rea­li­smo di Fer­ra­ris, e con esso la sua idea di esi­stenza, la sua stessa idea di filo­so­fia e di pra­tica cul­tu­rale, per quanto spesso gio­cata in ter­mini di leg­ge­rezza, di iro­nia e di humour, è molto più radi­cal­mente pes­si­mi­sta (in un senso che direi quasi leo­par­diano) di tanto pen­siero nega­tivo, di tanta reto­rica del tra­gico, di tanta mesti­zia della fini­tu­dine e della colpa, che, die­tro l’apparente mode­stia, direbbe Hegel, nasconde non di rado la più altez­zosa super­bia: quella di sen­tirsi in potere di dire all’uomo, alle cose e al mondo nella sua com­ples­sità, come l’uomo, il mondo e le cose deb­bano essere per essere ciò che sono. 

Ovvia­mente, l’idea che l’esistenza sia innan­zi­tutto dipen­denza, prima che auto­de­ter­mi­na­zione, è la più pro­ble­ma­tica e spi­nosa di tutta la fac­cenda. Una delle accuse che sono state rivolte al nuovo rea­li­smo è infatti quella di non riu­scire a pen­sare l’istanza eman­ci­pa­tiva, di non riu­scire a dare senso a un biso­gno di tra­sfor­ma­zione del reale a par­tire da istanze di giu­sti­zia: a par­tire, ad esem­pio, da un qual­che senso di inac­cet­ta­bi­lità delle cir­co­stanze date. Se infatti si vuole tra­sfor­mare il reale è neces­sa­rio pen­sare a una qual­che pos­si­bi­lità costrut­tiva nei con­fronti della realtà, è neces­sa­rio potersi muo­vere nei suoi con­fronti den­tro un rap­porto che non sia di sola dipen­denza; è neces­sa­rio, cioè, rico­no­scere un ele­mento di ori­gi­na­ria auto­de­ter­mi­na­zione da parte dell’umano affin­chè sia capace di instau­rare una dina­mica eman­ci­pa­tiva e tra­sfor­ma­tiva rispetto al mondo. 

I diritti della realtà
In effetti, risponde Fer­ra­ris, è pos­si­bile eman­ci­pa­zione solo là dove si rico­no­scono alla realtà i suoi diritti, dove si pen­sano le dif­fe­renze tra diversi tipi di realtà, dove è chiaro rispetto a quali realtà è in nostro potere agire e rispetto a quali, invece, pre­ten­dere di essere costrut­tivi è solo un’operazione ideo­lo­gica. Si coglie qui tutta la fatica di coniu­gare il pes­si­mi­smo antro­po­lo­gico con la pos­si­bi­lità di pen­sare un’azione in grado di ren­dere il mondo migliore rispetto a come è.
In que­sto senso, se c’è un limite in que­sto lavoro al solito bril­lante, rigo­roso e que­sta volta più di altre segnato, e forse esi­sten­zial­mente attra­ver­sato, da una intrin­seca e pro­dut­tiva pro­ble­ma­ti­cità, è quello per cui un certo otti­mi­smo onto­lo­gico non è sem­pre all’altezza del pes­si­mi­smo antro­po­lo­gico radi­cale che anima tutto il lavoro. Per difen­dere la ragioni della realtà (cosa che a mio parere Fer­ra­ris fa benis­simo a fare, con­tro tutte le cari­ca­ture ideo­lo­gi­che e costrut­ti­vi­sti­che e con­tro tutti i vel­lei­ta­ri­smi sog­get­ti­vi­stici) que­sto libro tende, a volte, a leg­gere la realtà sto­rica e sociale con cate­go­rie non altret­tanto raf­fi­nate di quelle usate per inda­gare non solo quella mani­fe­sta­zione spe­ci­fica del pre­sente che sono le ARMI, ma anche i modi con cui le nostre esi­stenze con­crete si fanno da esse plasmare. 

Natura di una cul­tura
Dire ad esem­pio, come si dice con insi­stenza nelle pagine finali del libro, che non è mai esi­stita un’epoca con tanta cul­tura, pro­prio gra­zie alle pos­si­bi­lità offerte dalla rete e alle sue con­se­guenti pos­si­bi­lità eman­ci­pa­tive, è cer­ta­mente dire una cosa vera, per­sino banal­mente vera (e Fer­ra­ris soster­rebbe che è sem­pre meglio una cosa banal­mente vera che una pro­fon­da­mente falsa), ma non ci dice in realtà molto della forma che ha que­sta cul­tura, del senso che essa incarna, della sua pos­si­bi­lità di essere dav­vero e radi­cal­mente deco­strut­tiva. Forse, non basta deco­struire il costrut­ti­vi­smo sog­get­ti­vi­stico: per ren­dere ragione della realtà, per guar­darla in fac­cia con occhio sin­cero, biso­gna anche deco­struire i rea­li­smi che la imprigionano.

Il grande paradosso dell’era digitale
Maurizio Ferraris analizza luci e ombre dell’esistenza 2.0 Tra controllo dei nostri dati e libertà di accedere a un tesoro di conoscenzedi Fabio Chiusi Repubblica 17.5.15
NELL’ERA della sorveglianza digitale di massa, chiunque ragioni sulla sua radice, la registrazione, sta contribuendo ad andare al cuore del problema. A identificarlo, quantomeno. Dargli un nome. Per il filosofo Maurizio Ferraris si chiama Mobilitazione totale, come il suo ultimo saggio appena pubblicato da Laterza. Una riflessione profonda, non semplice — richiede, per essere compresa a fondo, il bagaglio del pensatore contemporaneo — che ruota tuttavia intorno a una semplice, inquietante domanda: chi ce lo fa fare, a essere sempre connessi? Chi ce lo fa fare, risponde Ferraris, è l’apparato che sta dietro a quella mobilitazione. Ciò che la chiama, e con la forza di un ordine militare, scrive il filosofo: il telefonino. Che controlliamo anche di notte, usiamo per lavorare anche quando non dovremmo, anche non retribuiti e al costo di smarrire la distinzione tra tempo libero e tempo di lavoro, oltre che tra pubblico e privato. Anche la questione, centrale, della privacy, in Ferraris diventa niente più che un ingranaggio in un meccanismo molto più ampio: l’esplosione della scrittura, che contrariamente alle profezie di sventura di McLuhan negli anni ’60 è viva come non mai, al punto di definire la distinzione fondamentale tra il web e ciò che l’ha preceduto. Ancora, è il tradursi in fatti dell’idea, centrale, per cui il web non è anzitutto informazione, ma azione. Azione che chi detiene le nostre registrazioni, e produce i nostri device, sa trasformare in potere. E potenzialmente in dominio, se si legge che uno smartphone riesce «là dove Goebbels aveva fallito, e senza il sostegno di una forza politica e militare, anzi, con il pieno consenso degli utenti».
Ma non significa che dobbiamo sposare il catastrofismo. Ferraris dice chiaramente che quello stesso web che svela i meccanismi più profondi della società è allo stesso tempo un magazzino sterminato di conoscenza. In cui Ferraris crede ancora, e lo rivendica fermamente. «Per la prima volta», scrive tra conclusioni che lasciano un senso di speranza, «l’umanità dispone di una biblioteca, cineteca e discoteca infinite». Dobbiamo partire da lì, da lì «si tratta di rilanciare, contro il discredito postmoderno del sapere, l’ideale della cultura, che proprio nell’età del web può disporre di risorse in precedenza inimmaginabili ». Se siamo insomma strutturalmente dipendenti dalla chiamata delle tecnologie dell’era iperconnessa, siamo al contempo e per la stessa ragione — Internet — strutturalmente aperti a un mondo sterminato di arte, letteratura, giornalismo. Documenti, che insieme ci tracciano e definiscono. Ma che non per questo non possiamo controllare. Un auspicio che ci si augura possa inverarsi subito, nei progetti di riforma dei poteri dell’intelligence di tutto il mondo. Perché è ora che in troppi paesi sta avvenendo l’opposto.

Iper-responsabilizzazione da email e sms
Rispondo dunque sono?
Maurizio Ferraris, “Mobilitazione totale” Laterza
di Anna Li Vigni Il Sole Domenica 24.5.15
«Canto le armi e l’uomo» scrive il poeta. Ed è esattamente ciò di cui parla Maurizio Ferraris in Mobilitazione totale. Il tema è quello dell’umanità odierna e del regime di mobilitazione cui essa è soggetta per mezzo delle ARMI. ARMI, acronimo che sta per «Apparecchi di Registrazione e di Mobilitazione dell’Intenzionalità». Tutti sappiamo cosa significhi ricevere una notifica email in piena notte, quando vorremmo riposare, ma non possiamo resistere a quel misto di senso di colpa e invito alla responsabilità che si genera non appena sentiamo il segnale sonoro del tablet o dello smartphone: quel trillo di sirena tecnologica non è solo una comunicazione, è un invito individuale all’azione che non riusciamo a lasciare inevaso, anche perché ne resta una traccia registrata e dovremo per forza cedere all’ineludibile memento. Il risultato è una condizione di “militarizzazione” della vita dei milioni di «mobilitati», un’incessante certificazione di ordini cui ognuno si sottopone senza difendersi. «Volete una guerra totale, più totale di quanto potreste immaginare?» gridava Goebbels nel 1943. E non è forse una guerra totale questo regime di mobilitazione cui ci sottomettiamo volontariamente, sopportando «un’oggettiva diminuzione di libertà, che non viene contraccambiata da un qualche vantaggio economico e che anzi il più delle volte si trasforma in un lavoro gratuito»? Postmodernità, età del post: 24 ore su 24, utenti bramosi di visibilità condividono sul web qualsiasi cosa – testi, immagini, video – lasciando che il privato sconfini nel pubblico, il riposo nel lavoro, l’amicizia nell’inimicizia. D’altronde, non c’è modo di scomparire dalla rete: anche il dissidente più accanito usa il sistema per postare le sue critiche allo stesso sistema e non potrebbe evitare di farlo, pena un’emarginazione di cui poi si pentirebbe amaramente. Rispondo, dunque sono! Accetto l’incitamento all’azione, perché mi sento responsabilizzato. Ma - osserva Ferraris con la sua consueta lucida ironia – «chi me lo fa fare»?
Un tale regime di iper-responsabilizzazione deriva, in ultima analisi, dalla registrazione. Un tempo, quando i telefoni erano apparecchi immobili e privi di qualsiasi memoria (orale o scritta), chi non veniva raggiunto da una chiamata era libero da ogni impegno morale: oggi, invece, nell’era dell’esplosione della scrittura, «la punta più acuminata della responsabilità si nasconde proprio (…) in un sms inevaso che staziona nel nostro telefonino». Verba volant, scripta manent. Tutto dipende dalla registrazione, una funzione che è solo apparentemente passiva, ma è in verità responsabile della cultura e dello stesso pensiero – la memoria è infatti una forma di “scrittura” interiore. La registrazione sta alla base dell’immenso Archivio Documentale che caratterizza il vero “Capitale” della società mediale. A ogni sollecitazione che riceviamo dalla rete, corrisponde una registrazione della nostra reazione, nonché di tutte le informazioni che ci riguardano e che vanno ad arricchire l’Archivio: una condizione impensabile nell’era ormai della televisione che, per quanto fosse una “cattiva maestra”, poteva comunque essere ignorata. Il web non è solo il luogo in cui si compiono atti e si generano oggetti sociali: esso si identifica con la struttura profonda dalla quale emerge la natura stessa della società in cui viviamo. La rete è la realizzazione storica della «microfisica del potere» di Foucault: un potere che non consiste più nell’esplosione di forza di un ente, bensì nella costituzione di una rete invisibile e capillare di informazioni e interazioni, controllata da un immenso Archivio; tale sistema ci condiziona tramite gli apparati, anche se siamo noi a contribuire a generarlo concedendo a esso la nostra disponibilità assoluta.

Smontando la teoria sociale dell’intenzionalità di Searle, così come le principali tesi costruttiviste, in una prospettiva strettamente ontologica l’autore trae le conclusioni delle premesse teoriche di Ontologia del telefonino, Documentalità, Anima e ipad: insiste sulla condizione di relativa passività e dipendenza dell’individuo umano rispetto all’ambiente ecologico e sociale in cui vive e di cui assume e imita le norme biologiche e culturali. Rispondendo poi alle tesi anti-tecnologiche e spesso apocalittiche mosse dalla critica postmoderna, Ferraris argomenta che la tecnologia non è altro che una seconda natura per l’uomo, essa non è di per sé né buona né cattiva, non esercita un dominio sulla società, ma semplicemente rivela la società a se stessa. La conclusione non è catastrofista. Al contrario, consiste in un invito verso un altro genere di mobilitazione. Un invito a un uso «politico» della cultura, alla promozione di un nuovo umanesimo che sfrutti a proprio vantaggio l’enorme potenziale culturale offerto dal web. Per reagire alla chiamata alle ARMI è necessario comprenderle e rendersi intellettualmente indipendenti da esse. Aiutando, in questo, anche i più giovani: e, a mio avviso, questa è la sfida più grande che la scuola sia trovi ad affrontare. Da qui bisogna partire. Dal motto illuminista Sapere aude!

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