E' un esempio della persistenza della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione [SGA].
Maurizio Ferraris:
Mobilitazione totale, Laterza, pp.109, euro 14,00
Risvolto
Un fatto è certo. Il panopticon esiste, ed è
il web: un panopticon singolare, cieco, e con al posto di controllo non
un essere umano ma una memoria infinita, e con un sapere che è
essenzialmente burocratico. Tutto questo urta frontalmente con quanto ci
era stato detto all'apparire del web, e cioè che i nuovi media
avrebbero portato emancipazione, e tendenzialmente una riduzione del
lavoro. Per quello che abbiamo visto sin qui, il web non è emancipazione
ma mobilitazione. Non si limita a fornire ai suoi utenti nuove
possibilità informative ed espressive; diviene lo strumento di
trasmissione di responsabilità e ordini finalizzati al compimento di
azioni. Trasformando ogni contatto in una richiesta che esige una
risposta individuale, il web è un grande apparato su cui non tramonta
mai il sole, in cui si lavora senza neppure sapere di stare lavorando.
La risposta fondamentale che vuole il web è quella suggerita dallo
smartphone quando si digita la s: "Sto arrivando!".
I diktat del web
Salone del libro. «Mobilitazione totale»: questo il titolo del volume che Maurizio Ferraris, autore del «Manifesto del nuovo realismo», discuterà oggi al Lingotto nella sua lectio magistralis
Luca Illetterati il Manifesto 15.05.2015
Si parla di armi nel nuovo libro di Maurizio Ferraris, Mobilitazione totale (Laterza, pp.109, euro 14,00). Anzi, più correttamente, di ARMI, dove i caratteri maiuscoli stanno ad indicare che non si tratta tanto di pistole, contraerei o droni, ma di un acronimo che sta per Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità, ossia, per sciogliere il plesso terminologico piuttosto inquietante, il web: quell’apparato che determina le nostre esistenze più di quanto ne siamo in genere consapevoli.
Un apparato che è fatto di vincoli (ci sentiamo in colpa se non controlliamo le mail), opportunità (comunichiamo in modo infinito e possiamo verificare seduta stante un’informazione), chiamate (alle ARMI), nuove forme di socializzazione. L’acronimo non è scelto, ovviamente, a caso. Le ARMI sono, in effetti, qualcosa il cui aspetto è realmente inquietante, sono un assoluto che si impone in termini decisamente radicali, un potere che ci mobilita e ci fa entrare in qualche modo in guerra, innanzitutto nei confronti di noi stessi.
Un vocabolario di guerra
Le ARMI sono, a un tempo, struttura coercitiva e strumento di liberazione: potere determinante nei confronti delle esistenze – per cui ci si trova a organizzare il proprio tempo vitale sulla base di agende che sono coerenti con il sistema della rete, si apprende e si commenta ciò che Google, Facebook o Twitter ci chiedono di apprendere e commentare – e insieme possibilità di emancipazione – forza in grado di abbattere muri prima nemmeno scalfibili, di raggiungere conoscenze prima protette da densi e opachi filtri sociali, facendo sentire la propria voce (anzi la propria scrittura, perché la voce sembra ormai scomparsa) là dove prima non ne arrivava nemmeno l’eco.
Ma Ferraris insiste soprattutto, contro la retorica della condivisione totale e coerentemente con alcuni suoi assunti teorici, sull’aspetto subdolamente costrittivo e performativo delle ARMI: «ciò a cui stiamo assistendo … è il dispiegarsi su scala mondiale di un potere il cui antenato più prossimo è appunto l’alleanza tra burocrazia e potere militare che si manifesta nelle esperienze storiche della mobilitazione totale». In questo senso se c’è un vocabolario in grado di penetrare e rendere ragione delle dinamiche di funzionamento del web, della sua straordinaria pervasività e della sua capacità di modificare e strutturare nel profondo le vite di coloro che spesso si illudono di dominarne il senso, questo è appunto il vocabolario della militarizzazione e della guerra. Il Web è un apparato che mobilita, che determina le priorità, che plasma alla radice le temporalità esistenziali, che destruttura e ristruttura i concetti classici di lavoro, di azione, di produzione, di mercato. Dentro il sistema delle ARMI, infatti, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di riposo diventa illusoria, così come indefinibile è per molti versi il confine tra attività privata e attività pubblica, e dunque, in termini ancora più generali, tra libertà e ingiunzione.
Né apocalittica denuncia del nuovo e invisibile potere costituito dalla Rete, né integrata lode nei confronti dei nuovi orizzonti da essa dischiusi, il lavoro di Ferraris non è un’indagine latamente sociologica, e non è un pamphlet di critica del costume. È un discorso schiettamente filosofico che si situa, esplicitamente, su un livello antropologico, come un un discorso sulla natura umana. La radice delle ARMI non è infatti, secondo Ferraris, il Capitale, non è un’agenzia di multinazionali che guida gli individui verso comportamenti finalizzati a un interesse specifico; non è nemmeno la CIA o la National Security Agency (cosa che la visione di Citizenfour, il documentario di Laura Poitras su Edward Snowden potrebbe anche far pensare) o una qualche Spectre di altro tipo: non è appannaggio di Apple né di Microsoft. E non perché questi non siano reali poteri, ma perché, semplicemente, fermarsi a questo livello equivarrebbe alla rinuncia di una spiegazione radicale del fenomeno. La fonte germinale delle ARMI, la forza da cui scaturiscono è, dice Ferraris, la natura umana, la peculiare tendenza degli umani a sopperire alle debolezze e alle fragilità della propria natura con protesi tecniche. La radice delle ARMI è la natura originariamente tecnica dell’umano; ridurla a strumento elaborato dal potere di taluni per il dominio degli altri significa non comprenderne la radicalità. Anzi, proprio nella loro duplice natura di strumento di vincolo e oppressione, e allo stesso tempo, di ribellione ed emancipazione, le ARMI mostrano di essere una delle modalità di emersione della natura dell’umano.
Orizzonti antropologici
Per questo il discorso sulle ARMI non può che essere un’antropologia. E l’antropologia che emerge in questo lavoro di Ferraris è fondamentalmente pessimistica. Il punto è cruciale perché getta una luce niente affatto banale su quel (nuovo) realismo filosofico di cui molto si è discusso in questi anni, a volte con stizza e non di rado con accenti isterici. In un certo senso, in questa antropologia sembra di poter scorgere una delle motivazioni profonde che spingono verso quella opzione ontologica e metafisica. Nel sottolineare e nell’insistere sulla necessità di pensare l’indipendenza del reale dalle menti e, conseguentemente, la dipendenza delle menti dal reale, il realismo di Ferraris si fa in queste pagine, realismo esistenziale.
Nell’antropologia che viene proposta in questa analisi della rete come luogo dentro il quale le nostre esistenze si trovano gettate a vivere, l’esistenza si rivela in effetti adeguata solo in quanto accoglie la sua dipendenza dal reale. La convinzione che Ferraris cerca di difendere qui è dunque questa: che l’esistenza non sia tanto formatrice di mondo (come voleva Heidegger, che distingueva così il modo d’essere dell’uomo dal modo d’essere della pietra – priva di mondo – e dall’animale – povero di mondo) ma sia semmai dipendente dal mondo. Più radicalmente ancora: è il mondo, con il suo correlato di linguaggi, tradizioni, leggi e storie, a essere formatore di esistenze. Le vite degli umani ricevono il loro senso dal mondo e da tutte quelle stratificazioni di senso che vi si sono formate, fuori da qualsiasi dinamica volontaristica e intenzionale: dalla grammatica delle abitudini al sistema di norme sociali che costituiscono il gigantesco inconscio dentro il quale già da sempre siamo e già da sempre, fin dal nostro primo respiro, ci muoviamo.
In questo senso il realismo di Ferraris, e con esso la sua idea di esistenza, la sua stessa idea di filosofia e di pratica culturale, per quanto spesso giocata in termini di leggerezza, di ironia e di humour, è molto più radicalmente pessimista (in un senso che direi quasi leopardiano) di tanto pensiero negativo, di tanta retorica del tragico, di tanta mestizia della finitudine e della colpa, che, dietro l’apparente modestia, direbbe Hegel, nasconde non di rado la più altezzosa superbia: quella di sentirsi in potere di dire all’uomo, alle cose e al mondo nella sua complessità, come l’uomo, il mondo e le cose debbano essere per essere ciò che sono.
Ovviamente, l’idea che l’esistenza sia innanzitutto dipendenza, prima che autodeterminazione, è la più problematica e spinosa di tutta la faccenda. Una delle accuse che sono state rivolte al nuovo realismo è infatti quella di non riuscire a pensare l’istanza emancipativa, di non riuscire a dare senso a un bisogno di trasformazione del reale a partire da istanze di giustizia: a partire, ad esempio, da un qualche senso di inaccettabilità delle circostanze date. Se infatti si vuole trasformare il reale è necessario pensare a una qualche possibilità costruttiva nei confronti della realtà, è necessario potersi muovere nei suoi confronti dentro un rapporto che non sia di sola dipendenza; è necessario, cioè, riconoscere un elemento di originaria autodeterminazione da parte dell’umano affinchè sia capace di instaurare una dinamica emancipativa e trasformativa rispetto al mondo.
I diritti della realtà
In effetti, risponde Ferraris, è possibile emancipazione solo là dove si riconoscono alla realtà i suoi diritti, dove si pensano le differenze tra diversi tipi di realtà, dove è chiaro rispetto a quali realtà è in nostro potere agire e rispetto a quali, invece, pretendere di essere costruttivi è solo un’operazione ideologica. Si coglie qui tutta la fatica di coniugare il pessimismo antropologico con la possibilità di pensare un’azione in grado di rendere il mondo migliore rispetto a come è.
In questo senso, se c’è un limite in questo lavoro al solito brillante, rigoroso e questa volta più di altre segnato, e forse esistenzialmente attraversato, da una intrinseca e produttiva problematicità, è quello per cui un certo ottimismo ontologico non è sempre all’altezza del pessimismo antropologico radicale che anima tutto il lavoro. Per difendere la ragioni della realtà (cosa che a mio parere Ferraris fa benissimo a fare, contro tutte le caricature ideologiche e costruttivistiche e contro tutti i velleitarismi soggettivistici) questo libro tende, a volte, a leggere la realtà storica e sociale con categorie non altrettanto raffinate di quelle usate per indagare non solo quella manifestazione specifica del presente che sono le ARMI, ma anche i modi con cui le nostre esistenze concrete si fanno da esse plasmare.
Natura di una cultura
Dire ad esempio, come si dice con insistenza nelle pagine finali del libro, che non è mai esistita un’epoca con tanta cultura, proprio grazie alle possibilità offerte dalla rete e alle sue conseguenti possibilità emancipative, è certamente dire una cosa vera, persino banalmente vera (e Ferraris sosterrebbe che è sempre meglio una cosa banalmente vera che una profondamente falsa), ma non ci dice in realtà molto della forma che ha questa cultura, del senso che essa incarna, della sua possibilità di essere davvero e radicalmente decostruttiva. Forse, non basta decostruire il costruttivismo soggettivistico: per rendere ragione della realtà, per guardarla in faccia con occhio sincero, bisogna anche decostruire i realismi che la imprigionano.
Il grande paradosso dell’era digitale
Maurizio Ferraris analizza luci e ombre dell’esistenza 2.0 Tra controllo dei nostri dati e libertà di accedere a un tesoro di conoscenzedi Fabio Chiusi Repubblica 17.5.15
NELL’ERA della sorveglianza digitale di massa, chiunque ragioni sulla
sua radice, la registrazione, sta contribuendo ad andare al cuore del
problema. A identificarlo, quantomeno. Dargli un nome. Per il filosofo
Maurizio Ferraris si chiama Mobilitazione totale, come il suo ultimo
saggio appena pubblicato da Laterza. Una riflessione profonda, non
semplice — richiede, per essere compresa a fondo, il bagaglio del
pensatore contemporaneo — che ruota tuttavia intorno a una semplice,
inquietante domanda: chi ce lo fa fare, a essere sempre connessi? Chi ce
lo fa fare, risponde Ferraris, è l’apparato che sta dietro a quella
mobilitazione. Ciò che la chiama, e con la forza di un ordine militare,
scrive il filosofo: il telefonino. Che controlliamo anche di notte,
usiamo per lavorare anche quando non dovremmo, anche non retribuiti e al
costo di smarrire la distinzione tra tempo libero e tempo di lavoro,
oltre che tra pubblico e privato. Anche la questione, centrale, della
privacy, in Ferraris diventa niente più che un ingranaggio in un
meccanismo molto più ampio: l’esplosione della scrittura, che
contrariamente alle profezie di sventura di McLuhan negli anni ’60 è
viva come non mai, al punto di definire la distinzione fondamentale tra
il web e ciò che l’ha preceduto. Ancora, è il tradursi in fatti
dell’idea, centrale, per cui il web non è anzitutto informazione, ma
azione. Azione che chi detiene le nostre registrazioni, e produce i
nostri device, sa trasformare in potere. E potenzialmente in dominio, se
si legge che uno smartphone riesce «là dove Goebbels aveva fallito, e
senza il sostegno di una forza politica e militare, anzi, con il pieno
consenso degli utenti».
Ma non significa che dobbiamo sposare il catastrofismo. Ferraris dice
chiaramente che quello stesso web che svela i meccanismi più profondi
della società è allo stesso tempo un magazzino sterminato di conoscenza.
In cui Ferraris crede ancora, e lo rivendica fermamente. «Per la prima
volta», scrive tra conclusioni che lasciano un senso di speranza,
«l’umanità dispone di una biblioteca, cineteca e discoteca infinite».
Dobbiamo partire da lì, da lì «si tratta di rilanciare, contro il
discredito postmoderno del sapere, l’ideale della cultura, che proprio
nell’età del web può disporre di risorse in precedenza inimmaginabili ».
Se siamo insomma strutturalmente dipendenti dalla chiamata delle
tecnologie dell’era iperconnessa, siamo al contempo e per la stessa
ragione — Internet — strutturalmente aperti a un mondo sterminato di
arte, letteratura, giornalismo. Documenti, che insieme ci tracciano e
definiscono. Ma che non per questo non possiamo controllare. Un auspicio
che ci si augura possa inverarsi subito, nei progetti di riforma dei
poteri dell’intelligence di tutto il mondo. Perché è ora che in troppi
paesi sta avvenendo l’opposto.
Iper-responsabilizzazione da email e sms
Rispondo dunque sono?
Maurizio Ferraris, “Mobilitazione totale” Laterza
di Anna Li Vigni Il Sole Domenica 24.5.15
«Canto le armi e l’uomo» scrive il poeta. Ed è esattamente ciò di cui
parla Maurizio Ferraris in Mobilitazione totale. Il tema è quello
dell’umanità odierna e del regime di mobilitazione cui essa è soggetta
per mezzo delle ARMI. ARMI, acronimo che sta per «Apparecchi di
Registrazione e di Mobilitazione dell’Intenzionalità». Tutti sappiamo
cosa significhi ricevere una notifica email in piena notte, quando
vorremmo riposare, ma non possiamo resistere a quel misto di senso di
colpa e invito alla responsabilità che si genera non appena sentiamo il
segnale sonoro del tablet o dello smartphone: quel trillo di sirena
tecnologica non è solo una comunicazione, è un invito individuale
all’azione che non riusciamo a lasciare inevaso, anche perché ne resta
una traccia registrata e dovremo per forza cedere all’ineludibile
memento. Il risultato è una condizione di “militarizzazione” della vita
dei milioni di «mobilitati», un’incessante certificazione di ordini cui
ognuno si sottopone senza difendersi. «Volete una guerra totale, più
totale di quanto potreste immaginare?» gridava Goebbels nel 1943. E non è
forse una guerra totale questo regime di mobilitazione cui ci
sottomettiamo volontariamente, sopportando «un’oggettiva diminuzione di
libertà, che non viene contraccambiata da un qualche vantaggio economico
e che anzi il più delle volte si trasforma in un lavoro gratuito»?
Postmodernità, età del post: 24 ore su 24, utenti bramosi di visibilità
condividono sul web qualsiasi cosa – testi, immagini, video – lasciando
che il privato sconfini nel pubblico, il riposo nel lavoro, l’amicizia
nell’inimicizia. D’altronde, non c’è modo di scomparire dalla rete:
anche il dissidente più accanito usa il sistema per postare le sue
critiche allo stesso sistema e non potrebbe evitare di farlo, pena
un’emarginazione di cui poi si pentirebbe amaramente. Rispondo, dunque
sono! Accetto l’incitamento all’azione, perché mi sento
responsabilizzato. Ma - osserva Ferraris con la sua consueta lucida
ironia – «chi me lo fa fare»?
Un tale regime di iper-responsabilizzazione deriva, in ultima analisi,
dalla registrazione. Un tempo, quando i telefoni erano apparecchi
immobili e privi di qualsiasi memoria (orale o scritta), chi non veniva
raggiunto da una chiamata era libero da ogni impegno morale: oggi,
invece, nell’era dell’esplosione della scrittura, «la punta più
acuminata della responsabilità si nasconde proprio (…) in un sms inevaso
che staziona nel nostro telefonino». Verba volant, scripta manent.
Tutto dipende dalla registrazione, una funzione che è solo
apparentemente passiva, ma è in verità responsabile della cultura e
dello stesso pensiero – la memoria è infatti una forma di “scrittura”
interiore. La registrazione sta alla base dell’immenso Archivio
Documentale che caratterizza il vero “Capitale” della società mediale. A
ogni sollecitazione che riceviamo dalla rete, corrisponde una
registrazione della nostra reazione, nonché di tutte le informazioni che
ci riguardano e che vanno ad arricchire l’Archivio: una condizione
impensabile nell’era ormai della televisione che, per quanto fosse una
“cattiva maestra”, poteva comunque essere ignorata. Il web non è solo il
luogo in cui si compiono atti e si generano oggetti sociali: esso si
identifica con la struttura profonda dalla quale emerge la natura stessa
della società in cui viviamo. La rete è la realizzazione storica della
«microfisica del potere» di Foucault: un potere che non consiste più
nell’esplosione di forza di un ente, bensì nella costituzione di una
rete invisibile e capillare di informazioni e interazioni, controllata
da un immenso Archivio; tale sistema ci condiziona tramite gli apparati,
anche se siamo noi a contribuire a generarlo concedendo a esso la
nostra disponibilità assoluta.
Smontando la teoria sociale dell’intenzionalità di Searle, così come le
principali tesi costruttiviste, in una prospettiva strettamente
ontologica l’autore trae le conclusioni delle premesse teoriche di
Ontologia del telefonino, Documentalità, Anima e ipad: insiste sulla
condizione di relativa passività e dipendenza dell’individuo umano
rispetto all’ambiente ecologico e sociale in cui vive e di cui assume e
imita le norme biologiche e culturali. Rispondendo poi alle tesi
anti-tecnologiche e spesso apocalittiche mosse dalla critica
postmoderna, Ferraris argomenta che la tecnologia non è altro che una
seconda natura per l’uomo, essa non è di per sé né buona né cattiva, non
esercita un dominio sulla società, ma semplicemente rivela la società a
se stessa. La conclusione non è catastrofista. Al contrario, consiste
in un invito verso un altro genere di mobilitazione. Un invito a un uso
«politico» della cultura, alla promozione di un nuovo umanesimo che
sfrutti a proprio vantaggio l’enorme potenziale culturale offerto dal
web. Per reagire alla chiamata alle ARMI è necessario comprenderle e
rendersi intellettualmente indipendenti da esse. Aiutando, in questo,
anche i più giovani: e, a mio avviso, questa è la sfida più grande che
la scuola sia trovi ad affrontare. Da qui bisogna partire. Dal motto
illuminista Sapere aude!
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