venerdì 1 maggio 2015

La biografia di Orson Welles

Henry Jaglom, Orson Welles: A pranzo con Orson, a cura di Peter Biskind, traduzione di Mariagrazia Gini, con uno scritto di Tatti Sanguineti, Adelphi, pagg. 340, euro 26

Risvolto
«A me non piacciono, i film. Mi piace farli». Una delle battute più celebri di Orson Welles sembrerebbe un paradosso, se si considera che di film propriamente intesi questo puro genio ne ha girato uno solo, a 24 anni, nel 1939, e che da quel momento $no alla sua morte i film li ha più che altro raccontati, immaginati, cominciati, interrotti, perduti, ritrovati – o se li è fatti massacrare. Ma per chi conosce bene la sua storia il paradosso è un altro, e cioè che proprio quella specie di fantasticheria permanente in 35 millimetri, che Welles sottoponeva a chiunque avesse voglia di ascoltarlo, ha $nito nell'immaginario di tutti per diventare il cinema – una sostanza quasi alchemica che i $lm in sala contengono spesso solo in tracce. Per tutti gli altri, che magari di Welles conoscono solo l'immagine, o il frammento di una delle innumerevoli leggende da lui stesso messe in circolo, queste conversazioni settimanali con Harry Jaglom a un tavolo del Ma Maison di Los Angeles costituiscono la migliore introduzione possibile a una biogra$ a per definizione più grande del vero, raccontata quasi dalla stessa voce che aveva tanti anni prima reso celebre, alla radio, il suo protagonista. Dove gli episodi verosimilmente $ttizi, come l'affair con Norma Jean Baker prima che diventasse Marilyn, le battute probabilmente ritoccate («Io e lei siamo i due più grandi attori d'America» Welles sostiene gli dicesse Roosevelt a ogni incontro) e i giudizi che invece suonano piuttosto sentiti (Marlon Brando «un salsiccione») sono altrettanti trucchi dell'illusionista Welles per condurre il lettore al centro della più fascinosa macchina da intrattenimento di sempre, e fargliela vedere da vicino, come fosse la prima volta.



Da Marlon Brando a Liz Taylor, il selvaggio taglia e cuci di Orson Welles sui divi di Hollywood
di Annalena Benini | il Foglio 27 Aprile 2015

Gusti, manie, stroncature dell'"infernale" WellesL'amore-odio per la buona tavola e per le belle donne, il precoce talento di illusionista, i giudizi sferzanti. Ecco le confessioni del mago del cinemaStenio Solinas - il Giornale Gio, 30/04/2015

Orson Welles, taglia-e-cuci a tavola con alle spalle il Grande Fallimento Da Adelphi le conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles. I discorsi a pranzo con il montatore di «Easy Rider» sono ideali per sbrigliare la natura umorale, disinvolta e agile del regista americano... Raffaele Manica il Manifesto Alias 24 maggio
La tra­di­zione dei discorsi a tavola ha grandi meriti, primo fra tutti tra­man­dare opi­nioni che, nelle ver­sioni uffi­ciali dei fatti, restano in sot­to­fondo; o tra­man­dare fatti che, nelle opi­nioni rese note, restano ugual­mente in sot­to­fondo. Da entrambi i punti di vista A pranzo con Orson Con­ver­sa­zioni tra Henry Jaglom e Orson Wel­les, a cura di Peter Biskind (nella bella tra­du­zione di Maria­gra­zia Gini, con uno scritto di Tatti San­gui­neti, Adel­phi, pp. 340, euro 26,00) è un libro mira­bile, con­si­de­rato che il com­men­sale eletto a titolo ha sem­pre avuto con la realtà e con la verità un rap­porto altret­tanto disin­volto che con la men­zo­gna, il falso, la burla, il fan­ta­stico: fatti e opi­nioni, in Orson Wel­les, sono sem­pre anche umori, idio­sin­cra­sie, pas­sioni, paradossi.
Le con­ver­sa­zioni a tavola coprono gli anni 1983–1985, gli ultimi tre del pro­di­gio che qua­ranta e passa anni prima aveva messo sotto gli occhi del mondo Quarto potere, lascian­dolo seguire, tra con­tro­ver­sie cre­scenti, da una serie di capo­la­vori, con­tem­po­ra­nea­mente incam­mi­nan­dosi verso il bara­tro. Pren­dere cono­scenza di que­sto bara­tro è la migliore intro­du­zione al libro, il suo pae­sag­gio men­tale; così nulla varrà meglio delle righe che aprono la note­vole appen­dice fir­mata da Biskind – che con­tiene anche uno sche­da­rio par­ziale degli innu­me­re­voli per­so­naggi che com­pa­iono, par­lando par­lando, tra una por­tata e l’altra: «Orson Wel­les lasciò incom­piuta una tale quan­tità di lun­go­me­traggi, sce­neg­gia­ture, trat­ta­menti e pitch, oltre a trai­ler, test, corti, spez­zoni e film brevi d’ogni sorta, che è pra­ti­ca­mente impos­si­bile deter­mi­narne il numero pre­ciso. Alla sua morte Wel­les lasciò dician­nove pro­getti incom­pleti». Di quat­tro si parla nelle con­ver­sa­zioni: Don Chi­sciotte, I Sogna­tori, Re Lear, The Other Side of the Wind. Il bara­tro, il punto di risuc­chio di tutte le con­ver­sa­zioni è que­sto per­corso verso l’incompiuto e il fal­li­mento, visto magari, al modo di Faul­k­ner, come una ten­ta­zione; e dun­que costeg­giato e cor­teg­giato anche con auto­com­pia­ci­mento ed esi­bi­zio­ni­smo da parte di Wel­les, come un punto di stre­nuo nar­ci­si­smo che diventa prima un tratto di poe­tica e poi un disa­stro soprat­tutto per le finanze oltre che per il vedersi messo in secondo piano rispetto a tanti infi­ni­ta­mente di lui meno dotati (si può dire «dotato» par­lando di Orson? Non si potrebbe, è una cate­go­ria impro­pria per chi ha genio e tale intel­li­genza delle cose).
Così il grande Orson da subito, e sem­pre più pro­ce­dendo, sem­bra intos­si­cato dal veleno di una vita pre­sunta ostile, e sem­bra spruz­zarne su ogni argo­mento trat­tato, per neces­sità di vivere e per­ché ne trae ener­gia: una lotta affi­data alla reto­rica del veleno, ovvero al veleno orga­niz­zato come una reto­rica, come un sopraf­fino mec­ca­ni­smo di difesa che in ogni secondo è memore del detto che non esi­ste miglior difesa dell’attacco (ma qui ogni attacco è, sep­pure remo­ta­mente, reat­tivo verso un altro attacco, non si sa mai se vero o imma­gi­na­rio). Nes­suno, let­te­ral­mente nes­suno dei nomi fatti (forse con una mezza doz­zina di ecce­zioni, via, com­presi von Stro­heim e John Ford e La grande illu­sione) è esente da parole che al minimo sono di sprezzo, al mas­simo di vili­pen­dio. Eppure, nono­stante tutto, il libro, nem­meno ras­se­gnato, sem­bra stra­na­mente senza ran­core: a suo modo dispe­rato e alle­gro, far­se­sco per disin­can­ta­mento, ebbro di amarezza.
A dif­fe­renza che nelle con­ver­sa­zioni con Peter Bog­da­no­vich (che, a pranzo, Orson non nasconde di non sop­por­tare più), qui Wel­les tende a uscire spesso dal mondo di cel­lu­loide: saprà il cine­filo vedere che nella fazio­sità è cono­scenza? Che effetto potrà mai fare la ridu­zione a niente della Fine­stra sul cor­tile e della Donna che visse due volte? E sarà bene­fica la misu­ra­zione della vanità di Cha­plin? Ognuno decide per sé, ovvio, come è chiaro che, a pranzo (ma Wel­les man­giava ormai pochis­simo, pare), chiun­que può tran­ciare qua­lun­que giu­di­zio. Senza cor­ret­tezze poli­ti­che o sto­ri­che. Si va appo­sta a pranzo o a cena insieme. Ma qui parla Orson: un pen­siero potente, fili­gra­nato dal gusto dell’autore di F for Fake. Che, medi­tando sul suo Sha­ke­speare, e sulla con­get­tu­ra­bile pin­gue­dine di Amleto, lan­ciando sassi su Lau­rence Oli­vier, qual­che indul­genza può con­ce­dere solo all’eventuale inter­vi­sta­tore tele­vi­sivo che, aven­dolo ospite, non esor­di­sca (molti se ne sen­tono in obbligo), allu­dendo alla sua tarda obe­sità: come non capirlo: sull’argomento chiun­que va con natu­ra­lezza oltre la pro­pria con­sueta stronzaggine.
Per citare solo una delle migliaia di cita­zioni pos­si­bili (la bat­tuta verso un came­riere o verso una cele­brità che si avvi­cina al tavolo senza sapere che cosa si saet­terà appena se ne sia allon­ta­nata) a pro­po­sito di sto­ria e cor­ret­tezza ed ego­cen­tri­smo: «OW: “Un dit­ta­tore alto non è mai esi­stito. Mai”. HJ: “O dio santo”. OW: “Fammi un nome. Sono tutti al di sotto del nor­male”. HJ: “Mus­so­lini era basso?”. OW: “Bas­sis­simo”. HJ: “Franco?”. OW: “Basso. Hitler era basso. Anche quelli che magari ti potreb­bero pia­cere un po’ di più, come Tito: un pic­co­letto. Sta­lin: un pic­co­letto»: HJ: «Una nuova teo­ria della sto­ria». OW: «Guarda che i grandi malin­co­nici sono tutti giganti, non tappi. Sono i tappi e i nani che hanno le manie di gran­dezza». HJ: “Tu quanto sei alto?”. OW. “Una volta ero un metro e novan­tuno, ma adesso sono sull’uno e ottan­totto. Uno e ottan­ta­sette, forse. Con­ti­nuo a per­dere collo. È la forza di gra­vità. Come Eli­za­beth Tay­lor: ormai è senza collo! Le orec­chie le toc­cano le spalle. Ed è ancora gio­vane! Ora imma­gina dove sarà la sua fac­cia quando avrà la mia età. Nell’ombelico, no?”». Mol­ti­pli­cate un tono così per tre­cento e comin­ce­rete a intuire che cos’è que­sto libro.
Come è stato con­fe­zio­nato A pranzo con Orson? L’interlocutore, già mon­ta­tore di Easy Riders, esor­diente poi alla regia con Un posto tran­quillo (1971), il regi­stra­tore nasco­sto (così voleva Orson), le bobine lasciate dor­mire per anni. Un abile mon­tag­gio del terzo uomo, il terzo nome in coper­tina, Peter Biskind, l’autore (1998) di Easy Riders, Raging Bulls: come la gene­ra­zione sesso-droga-rock’n’roll ha sal­vato Hol­ly­wood, secondo il titolo della tra­du­zione ita­liana del 2007 (E&S): sag­gio su una delle rina­scite del cinema ame­ri­cano (quella legata a Scor­sese, Cop­pola, Spiel­berg e De Niro, Pacino, Nichol­son) rea­liz­zato attra­verso cen­ti­naia di inter­vi­ste a coloro che gira­rono intorno a quella sta­gione. Dopo quel libro, il taglia e cuci di A pranzo con Orson non deve essere stato troppo inameno.
L’11 otto­bre del 1985 Wel­les muore, all’una di notte, con la mac­china da scri­vere in brac­cio, scri­vendo un altro pro­getto che non si rea­liz­zerà. Scrive Jaglom: «l’ho guar­dato alla moviola in Qual­cuno da amare, che sto mon­tando, quando dice che si nasce, si vive e si muore soli. “Sol­tanto con l’amore e l’amicizia si crea l’illusione di non essere com­ple­ta­mente soli” dice, e que­sta è la sua ultima appa­ri­zione cine­ma­to­gra­fica, la sua ultima scrit­tura da attore». Il 6 mag­gio scorso Orson avrebbe com­piuto cento anni, ricorda Tatti San­gui­neti all’inizio del suo ele­gante vaga­bon­dag­gio cri­tico tra le peri­pe­zie di Wel­les in Ita­lia. Leg­gen­dolo, si vede ancora una volta come l’autore di F for Fake, il re del falso in quanto auten­tico, con una di quelle inat­tese, inso­spet­tate prove di agi­lità che pos­sono con­sen­tirsi senza sforzo solo uomini di grande peso, è stato anche l’autore di It’s All True (Tutto è verità). Diceva di essere un illu­sio­ni­sta dilet­tante ed era un mago pro­vetto, dilet­tante solo per la gioia che quell’arte gli procurava.


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