venerdì 1 maggio 2015
L'oro di Dongo? Oliva e l'astuto Quirico emuli di Pisanò e Petacco
Risvolto
Dongo, 27 aprile 1945, è una mattina livida e piovosa, quando Mussolini e
i gerarchi in fuga vengono fermati dai partigiani della 52ª brigata
Garibaldi, sulla litoranea del lago di Como. Nella lunga autocolonna che
accompagna il Duce e gli epigoni del fascismo di Salò viene trovata
un'ingente quantità di beni preziosi, banconote di ogni taglio, oro,
gioielli, titoli di Stato, valuta straniera, in gran parte provenienti
dai fondi segreti dei ministeri della Repubblica sociale. Un ricco
bottino che da quel giorno tutti conosceranno come il «tesoro di Dongo».
Chi si è impossessato di quell'oro, destinato alle autorità del nuovo
Stato italiano? Chi lo ha trasferito alla federazione comunista di Como?
Chi se n'è impadronito in seguito? E chi ha fatto scomparire il
«capitano Neri» e la partigiana «Gianna», combattenti garibaldini che ne
avevano compilato l'inventario? Nella primavera del 1957 ha finalmente
inizio, presso la Corte d'assise di Padova, il processo che dovrebbe
fare luce su questi interrogativi. Un procedimento che suscita tante
attese, ma che viene rinviato dopo quarantatré udienze per il suicidio
di un giudice popolare e che non verrà mai più ripreso, perché
«scomodo». Dalle carte disponibili emergono infatti con chiarezza le
responsabilità politiche degli eventi che si sono consumati in quei
lontani giorni del 1945. Secondo tutte le testimonianze, il tesoro
finisce nelle casse del Partito comunista, in un momento in cui gli
equilibri della nuova Italia sono ancora da determinare e l'ala più
oltranzista del partito persegue una prospettiva rivoluzionaria da
sostenere con adeguate risorse finanziarie. Gianni Oliva, utilizzando le
decine di deposizioni del processo, ricostruisce con ritmo incalzante i
frangenti drammatici di fine conflitto, quando il Lario diventa il lago
dei destini incrociati: il crepuscolo tragico di Mussolini e dei
gerarchi si intreccia con il recupero del tesoro, con le accese
divergenze sulla sua destinazione, con le tensioni di una guerra non
ancora conclusa che già si prolunga nella pace. Sullo sfondo, si respira
l'atmosfera della resa dei conti, un clima in cui si eliminano con
troppa facilità i nemici di ieri e quelli di oggi: Mussolini e la
Petacci, fucilati a Giulino di Mezzegra, ma anche il comunista «Neri»,
comandante partigiano, ingiustamente accusato di tradimento e fatto
sparire nel lago. Con rigore documentario e abilità narrativa, l'autore
restituisce le tinte forti di un passaggio epocale in cui la «grande
storia» dei potenti si incontra con la «piccola storia» della gente
comune, che assiste, incredula, alla «caduta degli dei». La vicenda del
tesoro di Dongo diventa così una sorta di osservatorio privilegiato per
«capire come siamo usciti dal conflitto e dal fascismo».
Il giallo dell’oro di Dongo e le responsabilità del Pci
Il nuovo libro di Gianni Oliva ricostruisce il mistero del tesoro che Mussolini e i gerarchi portarono con sé nell’ultima fuga
di Domenico Quirico La Stampa 30.4.15
L’oro
di Dongo… Si sono ingrassati i settimanali popolari e i giornali del
pomeriggio, fino ai Settanta, con il tesoro scomparso di Mussolini. Son
loro forse gli unici ad essere diventati davvero ricchi con quel
fantasma. L’Italia stantuffava nel Miracolo e ancora c’erano inviati di
buona lena che scovavano, sulle rive del lago e tra i catecumeni del
partito comunista, rivelazioni ovviamente ultimative, memoriali rimasti
sepolti nella discrezione di cellule e parrocchie o affidati alla
sepolcrale confidenza dei notai di provincia.
Gli epuratori, che
volevano cancellare ogni traccia di fascismo cominciando con il
cancellare in se stessi il più lontano ricordo delle loro
corresponsabilità, erano già rientrati nell’ordine. Lo sbrego del
ventennio era stato rapidamente rattoppato. Restava l’oro: in sospeso,
tra parentesi. Quello non sprofonda nell’oblio come i sogni dissipati
dall’alba. Perché argomento in fondo senza rischi e scenografico. I
regimi, per tradizione, affondano sempre tra turpitudini priapesche e
lucri cessanti… Vicenda perfetta: miliardi, titoli al portatore,
gioielli e morti ammazzati, giunture storiche tumultuose e dense di
gente torbida, gerarchi orfani di idee di prepotenza e in cerca di una
tana salvifica e partigiani pronti per definitive liquidazioni e
remunerativi conti in banca. E soprattutto grande e opaca incertezza.
L’Italia, in quei giorni di settanta anni fa, era una spugna di cose
vissute e sofferte.
Neppure la cifra esatta del tesoro che quanto
restava del Ventennio aveva condotto con sé per la fuga finale è mai
stata ben definita: per gli ottimisti otto miliardi di lire e
sessantasei chili di oro, gioielli, fedi improvvidamente donate alla
patria; solo duecento milioni e qualche valigia di preziosi per i
prudenti. Tutta questa manna è finita nel lago! L’han portata in
Germania i meticolosi alemanni! L’ha requisita il partito comunista,
anzi no! gli Alleati. L’hanno nascosta i fascisti con l’ideuzza della
«revanche»! Ma no! L’hanno razziata avidi testimoni spigolando nella
confusione dell’ora nel convoglio fascista bloccato dai partigiani…
Gianni Oliva, inesauribile investigatore della nostre disavventure
recenti, prova a fissare il punto a capo: con un libro edito da
Mondadori (Il tesoro dei vinti, il mistero dell’oro di Dongo, pp. 240, €
20) che ha l’incalzante ritmo di una inchiesta giudiziaria. Con una
differenza, non da poco. La vera Giustizia, quella dell’Italia
repubblicana uscita da quel tragico sconquasso, non è riuscita ad
arrivare ad una conclusione e a chiudere il caso. Oliva sì. Insomma uno
almeno degli innumerevoli misteri d’Italia è catalogabile, si può dire,
nell’archivio degli «affaire» risolti. Già. Il tesoro, piccolo o grande
che fosse, è finito nella casse del partito comunista, preda bellica
leggiadramente requisita senza rimorsi, per finanziare forse la seconda
ondata, quella che avrebbe dovuto ripulire il paese e farlo entrare
nelle latitudini dove sventolava la rivoluzione proletaria. All’epoca
somatizzata nel sorriso tigresco del Padre dei popoli con pipa e
stivaloni.
Fortunatamente la Storia ha liquefatto oro e palanche in
epopee economiche più domestiche: probabilmente gli affitti di cellule e
sezioni, la propaganda, le spese di cancelleria, gli stipendi agli
impiegati della rivoluzione ormai in pantofole e mezze maniche.
La
storia del processo ha gli echi permanenti delle nostre vicende
nazionali. Quando viene messo a ruolo l’oro di Dongo l’eco delle grida
epuratrici dei nuovi giudici che vorrebbero fare dell’Italia una valle
di Giosafatte si sono già spente. Dodici anni per arrivare in aula! La
solita litania delle competenze: la giustizia militare, poi quella
civile, poi la Cassazione, poi il tribunale di Como. Nel 1957 non si può
dire che i fatti fossero ancora caldi. Arrivarono a Como legioni di
giornalisti da tutto il mondo, è ancora una Europa evidentemente
intontita da quel sanguinoso fracasso. Sfilano testimoni per 43 udienze:
garibaldini della 52a diventati onorevoli, testimoni più o meno diretti
di quel giorno, partigiani rimasti insabbiati nelle loro epopee,
«Bill», «Pedro», tutto nella prosa greve e goffa dei cancellieri di
provincia. Anche storie tragiche, e infami, come quella di un
partigiano, il capitano Neri, che sapeva tutto e non voleva esser
complice della «requisizione», eliminato. Con la fidanzata ingenuamente
venuta a cercare la verità. Poi il malore di un giurato e il rinvio in
saecula saeculorum a nuovo ruolo, che ci priva, nota Oliva, della solita
provvidenziale assoluzione per insufficienza di prove. Abituale happy
end della nostrane fisiopatologie giudiziarie.
Questa è in sintesi la
storia. Ma affascina nel libro, ancor più, la ricostruzione di quei
giorni e di quelle ore. E’ l’Italia di aprile, i giorni della
rivoluzione che si apriva come un fiore di ferro, il vento che si leva.
Sta per giungere l’ora X. Gli incerti fiutano l’aria, cercano segni, li
interrogano. I parassiti, che debbono tutto al despota e tolto lui
affonderebbero, sperano ancora ringiovanisca come il re decrepito delle
fantasie alchimistiche: vedrete, avrà qualche colpo di genio anche
stavolta. E poi annunci di weltanschauung infuocate, di ultimi «ridotti»
alpestri dove cercare la bella morte, la proclamata volontà di cupe
disumane coerenze all’altezza di quanto stava accadendo nell’alleata
Germania rocciosa gotica catafratta. Il furor teutonicus in versione
cisalpina, invece, si scioglie nella resa senza combattere: tutto marcio
come si sapeva. Gli irriducibili, i fanatici e qualche avvilito si
mettono in marcia. Infagottati in tabarri borghesi incolonnati con
tedeschi già usciti dalla guerra, già casalinghi: trapanati dalla
sconfitta come un dente guasto non dimenticano nello schiacciasassi
della storie le valigie, quelle dei marenghi.
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