lunedì 11 maggio 2015

Tempo moderno, tempo postmoderno: Hartmut Rosa sulle compressioni spazio/temporali capitalistiche


Hartmut Rosa: Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, pp. 136, euro 18

Risvolto
La vita moderna è in costante accelerazione. Gli strumenti che ci permettono di risparmiare tempo hanno ormai raggiunto un enorme livello di sviluppo grazie alle tecnologie di produzione e comunicazione, eppure l'impressione di non avere abbastanza tempo non è mai stata cosí diffusa. In tutte le società occidentali, le persone soffrono della mancanza di tempo e si sentono in dovere di correre ancora piú in fretta, non tanto per raggiungere un obiettivo, ma per non perdere posizioni.
Questo libro esamina le cause e gli effetti dei processi di accelerazione della nostra epoca individuandone tre aspetti, tecnico, sociale e individuale. Secondo Rosa l'insieme di tali processi porta a gravi forme di patologia sociale legate al rapporto con il tempo e lo spazio, le cose e le azioni, la percezione di sé e degli altri. Subendo la pressione di un ritmo inesorabile, ognuno di noi affronta il mondo senza essere in grado di contenere quella coazione impersonale alla velocità e alla competizione che non è separabile da disagio e insoddisfazione. L'accelerazione è diventata insomma una «potenza» che domina in modo totalitario la società moderna. Essa divora i nostri «sogni, obiettivi, desideri e progetti di vita» stritolandoli entro gli ingranaggi del suo inarrestabile movimento. Cosa possiamo fare per riappropriarci di momenti di esperienza umana non alienata, di «buona vita» conforme alle nostre aspirazioni e desideri piú veri?
       


Velocità è sinonimo di sopravvivenza
di Armando Torno Il Sole 10.5.15
Velocità: è una parola dalla storia infinita. Che conosciamo però approssimativamente, evocando il “piè veloce Achille” di Omero o chiedendo Internet rapido (per taluni “un diritto”). Ci sfugge, tuttavia, la molteplice gamma dei suoi significati. La velocità, per fare un esempio stranoto, è una grandezza fisica che gli scienziati, almeno con gli attuali sistemi di riferimento, rapportano al tempo e allo spazio; nel calcolarla ossequiano in ogni loro formula quella della luce. Il Codice della Strada, invece, si preoccupa dei nostri movimenti, fulminando con multe chi non rispetta i controlli diventati più numerosi dei girini in uno stagno.
I filosofi non ne parlano e la voce “velocità” non ha trovato credito nei repertori della categoria. I letterati, invece, la conoscono da millenni e le hanno tributato onori, come quegli iconoclasti dei futuristi che le dedicarono liriche; negli sport era e resta fondamentale, anzi a volte è tutto: per questo è idolatrata. Si vorrebbe eguagliare il campione di pugilato Cassius Clay, poi noto con il nome di Muhammad Ali, il quale ebbe a dichiarare in un’intervista: «Ero così veloce che potevo alzarmi dal letto, attraversare la stanza, girare l’interruttore e tornare a letto prima che la luce si fosse spenta».
La velocità gode di ottima salute, anzi trova sempre più credito. In politica, almeno nell’ultimo secolo, è diventata essenziale: le vicende del governo Renzi andrebbero spiegate tenendo conto, appunto, della notevole velocità con cui l'attuale presidente italiano sa muoversi. Anche l’economia ne ha sempre più necessità; la comunicazione ne ha fatto addirittura una ragione di vita. Si potrebbe aggiungere che l’industria la scoprì allorché ebbe bisogno di svelta manodopera per alimentare la produzione e battere la concorrenza. Inutile fissare una data, ma è certo che i primi film comici di inizio Novecento – osservava con arguzia un sottile critico come Beniamino Placido – erano montati con una velocità artificiale per abituare le masse rurali ai celeri ritmi che sarebbero stati necessari nella nuova industria. Coloro che erano cresciuti nella civiltà contadina ne ridevano, ma pagavano l’ingresso allo spettacolo e si preparavano ad accelerare i loro movimenti adattandoli alle richieste. Insomma, il film muto caratterizzato dal buffo agitarsi del mitico Larry Semon, noto come Ridolini, oltre a creare profitti va considerato una trovata geniale.
Ma è proprio sulla velocità, anche se la filosofia non la degna di uno sguardo, che si gioca il futuro. Hartmut Rosa, professore a Jena e direttore del Max-Weber-Kolleg a Erfurt, ha analizzato l’utilizzo del tempo nella tarda modernità in un saggio dal titolo “Accelerazione e alienazione” appena tradotto da Einaudi (pp. 136, euro 18), evidenziando alcune verità che si potrebbero utilizzare quali leggi di un’ipotetica fisica sociale. Proviamo a riassumerne una con parole semplici: nelle civiltà occidentali le persone soffrono per mancanza di tempo e, per tale motivo, sentono il dovere di correre ancora più in fretta, non per riuscire a raggiungere un determinato obiettivo ma per non perdere posizioni. La velocità, per dirla in soldoni, si è trasformata in sinonimo di sopravvivenza. Un’aspirazione antica, aggiungerà qualcuno, divenuta il denominatore comune del presente. O forse ha questa fortuna nei momenti di crisi? D’altra parte, il grande Ralph W. Emerson ne “Il carattere e la vita umana” (si legge nei suoi magnifici “Saggi di filosofia americana”) osserva in pieno Ottocento: “Quando si pattina su ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità”.

Hartmut Rosa parla dei mutamenti in corso evidenziando alcuni punti. Basta soltanto citarli e ci si accorge della rivoluzione innescata dalla velocità. Per esempio, parlando di accelerazione nota che essa sta colpendo la stessa tecnologia, i mutamenti sociali, il ritmo di vita. La decelerazione, caldeggiata a volte dalle comunità tradizionali, è in un angolo. Di più: il professore di Jena nota che l’accelerazione è “una nuova forma di totalitarismo”. Perché? Lasciamogli per qualche riga la parola: “La progressione dell’accelerazione sociale, trasformando il nostro regime spazio-temporale, può a buon diritto essere definita onnipervasiva e onninclusiva: essa esercita la sua pressione inducendo la paura permanente di poter perdere la battaglia e di non essere più capaci di tenere il ritmo, ovvero di soddisfare in modo adeguato le richieste (sempre più numerose) che ci si trova a fronteggiare; il timore, quindi, di aver bisogno di una pausa e di rimanere per questo esclusi dalla gara. O, per chi è disoccupato o malato, la preoccupazione di non riuscire più a rientrare in gara, di essere già rimasti indietro”. Insomma, la velocità non è innocente. Anche se inevitabile. 

L’accelerazione e l’alienazione di Hartmut RosaSaggi. Il volume "Accelerazione e alienazione| per EinaudiBenedetto Vecchi il Manifesto 6.6.2015
 In un mira­bile pas­sag­gio della Mon­ta­gna incan­tata, Tho­mas Mann fa dire a un per­so­nag­gio del romanzo una frase che ricorre spesso nelle discus­sioni oziose sulla per­ce­zione del tempo: tal­volta le gior­nale, le set­ti­mane, i mesi e gli anni pas­sano veloci; altre volte un giorno sem­bra durare come un anno. Discus­sione non può essere rele­gata solo a una per­ce­zione indi­vi­duale, ma che inve­ste invece la natura stessa del legame sociale. Il romanzo di Mann, è noto, si svolge in un sana­to­rio tra le mon­ta­gne, dove la scan­sione della gior­nata dei malati vede rigide regole e atti­vità da rispet­tare alla let­tera; una rigida agenda neces­sa­ria per man­te­nere la con­nes­sione tra un micro­co­smo auto­re­fe­ren­ziale e la realtà della città, dove tutto invece era fre­ne­tico. La mon­ta­gna può essere il luogo della sospen­sione del tempo, ma deve comun­que un nodo di una moder­nità metro­po­li­tana che ha scar­di­nato, man­dato in fran­tumi il tempo natu­rale e quello con­ven­zio­nal­mente vin­co­lato al ciclo solare del giorno. 
La frase di Mann intro­duce e rias­sume bene il breve sag­gio Acce­le­ra­zione e alie­na­zione del socio­logo e filo­sofo tede­sco Hart­mut Rosa (Einaudi, pp. 119, euro 18), che da anni si dedica a smen­tire la tesi secondo la quale la tec­no­lo­gia ha pro­vo­cato un’accelerazione sociale. Per Rosa, infatti, più che di acce­le­ra­zione sociale, biso­gne­rebbe par­lare di ride­fi­ni­zione delle con­ven­zioni sociali legate al tempo, anche’esso con­ven­zione sociale. Salta infatti il con­fine tra tempo di vita e tempo di lavoro, per­ché il lavoro tende a mono­po­liz­zare la risorsa «tempo». È annul­lato anche l’altro ele­mento cen­trale della moder­nità, lo spa­zio, per­ché la tec­no­lo­gia con­sente la pre­senza, sep­pur vir­tuale, di uomini e donne sepa­rati da oceani e con­ti­nenti. La sud­di­vi­sione e la scan­sione della gior­nata deve lasciare il campo a altri «oro­logi», scan­diti anche essi dal lavoro, che ha la capa­cità di dise­gnare l’intera vita sociale a sua imma­gine e somi­glianza. Una situa­zione che accen­tua l’alienazione, che in que­sto sag­gio è un ter­mine che serve a qua­li­fi­care il senso di smar­ri­mento, di ansia, di acci­dia, di malin­co­nia e ina­de­gua­tezza dei sin­goli rispetto ai ritmi sociali.
Rosa non con­cede tut­ta­via nulla ai teo­rici della decre­scita. Né è sen­si­bile alla cri­tica della tec­no­strut­tura. È sem­mai inte­res­sato a com­pren­dere come que­sta fase di tran­si­zione da alcune con­ven­zioni sociali, che defi­ni­vano la sal­va­guar­dia della vita pri­vata dal lavoro, ad altri «oro­logi» sociali non coin­cida con la can­cel­la­zione di una «pro­messa» insita nella moder­nità di poter libe­rare i sin­goli dalla gab­bia d’acciaio del lavoro.
La tec­no­lo­gia non è però la leva, meglio lo scudo pro­tet­tivo di quella pro­messa di libe­ra­zione del tempo (e dello spa­zio) dalla colo­niz­za­zione del lavoro. Ha un ruolo ambi­va­lente che la rende sia stru­mento di oppres­sione che di poten­ziale libe­ra­zione dalla gab­bia del lavoro.
La tec­no­lo­gia non dà dun­que un valore «nega­tivo» alle con­ven­zioni sociali, ma nep­pure aiuta al supe­ra­mento dell’alienazione come decli­nata da Rosa. La defla­gra­zione del tempo sociale è però un’opportunità, per­ché nei fram­menti pos­sono celarsi le coor­di­nate di una vita d’uscita dalla società fon­data sul lavoro. Imboc­care la quale serve un’accelerazione delle pra­ti­che sociale di sot­tra­zione dal lavoro che, Rosa non lo scrive mai, è sem­pre lavoro salariato.


Hartmut Rosa “Andiamo da nessuna parte ma sempre più in fretta”
Il sociologo della “accelerazione sociale” spiega perché la velocità non migliora più la nostra vita ma è diventata una fonte di ansiaintervista di Claudio Gallo La Stampa 5.6.15

Hartmut Rosa, 50 anni fra due mesi, sociologo tedesco dell’università di Jena, è celebre per gli studi sui mutamenti sociali attraverso l’ «accelerazione sociale», come lui ha definito l’imperativo della velocità che pervade la società fin dalla modernità. Einaudi ha appena pubblicato il suo Accelerazione e alienazione, per una teoria critica della tarda modernità (pp X-125, € 18).

Professor Rosa, oggi si ha la percezione che l’orologio giri sempre più in fretta, come spiega questo fenomeno?
«Naturalmente, il tempo dell’orologio è sempre lo stesso. La percezione dell’accelerazione è un fenomeno psicologico che però ha delle cause sociali. Mettiamola così: il fatto che sentiamo di avere poco o molto tempo dipende dalla relazione del tempo a nostra disposizione con il tempo richiesto dalla lista delle cose da fare. Il problema della nostra società è che questi due fattori coincidono sempre meno, per riuscire a fare tutto servirebbero 48 ore al giorno. Così manca il tempo e noi abbiamo l’impressione che l’orologio scorra più in fretta. Questa sensazione ha anche un’altra causa: quando abbiamo una giornata eccitante il tempo vola via, ma pensandoci alla sera sentiamo che è stata una giornata molto lunga e ricca. Al contrario, quando abbiamo una giornata noiosa, spesa magari in una sala di attesa, il tempo non passa mai. Tuttavia, quando andiamo a letto e ci ripensiamo sembra che la giornata sia stata corta, inconsistente. Questo si chiama il paradosso del tempo. Sentiamo che la giornata è stata lunga quando lascia molte tracce nella memoria. Nella vita della tarda modernità abbiamo perso la capacità di ”appropriarci” delle nostre esperienze, facciamo un mucchio di cose che non ci coinvolgono veramente, alla sera abbiamo dimenticato tutto. Così sentiamo che il tempo passa velocemente».
E’ possibile individuare l’inizio dell’accelerazione del tempo nella storia?
«E’ difficile identificare un momento preciso, perché nel fenomeno convergono numerosi processi. Ma non c’è dubbio che a questo riguardo il XVIII secolo sia stato cruciale. Il cambiamento non è stato prodotto dalle nuove tecnologie ma al contrario la macchina a vapore, la ferrovia e la rivoluzione industriale furono risposte a un cambiamento di mentalità. Si cercava di andare più in fretta già prima delle nuove invenzioni, ad esempio cambiando più spesso i cavalli. Nel XVIII secolo ci fu un mutamento nel modo in cui la società si stabilizzava: da allora in poi per mantenere la stabilità bisognerà crescere: attraverso lo sviluppo economico, l’accelerazione tecnologica, l’innovazione culturale. Dopo il XVIII secolo l’accelerazione è necessaria per la stabilità sociale».
Perché le nostre vite vanno sempre più un fretta eppure ci sembra spesso di non muoverci affatto?
«Molti pensano che l’ossessione per la velocità e i cambiamenti intorno a noi siano fenomeni superficiali, che sotto ci sia una totale inerzia. Sembra che si stia andando ”da nessuna parte ma più in fretta” per parafrasare il titolo di un brano rock (Nowhere Fast, ndr). A partire dal XVIII secolo fino a non molto tempo fa, l’accelerazione, la crescita e l’innovazione erano percepiti come un progresso. L’accelerazione sociale era considerata un movimento della storia: attraverso la crescita economica si poteva vincere la scarsità materiale, attraverso tecnologie più veloci la scarsità di tempo, e grazie alla scienza e alla politica si poteva ottenere una vita migliore e più libera. Nel XXI secolo però il background culturale è cambiato radicalmente: l’accelerazione non serve più al progresso: è necessaria per non collassare. Se l’Italia, la Germania o la Grecia non accelerano, non possono mantenere la stabilità sociale, crolla lo status quo: la gente perde il lavoro, le fabbriche chiudono, diminuisce la ricchezza e il sistema politico è delegittimato. Per la prima volta nella storia occidentale ci si affanna perché i figli non abbiano una vita peggiore dei genitori. La gente sente che anno dopo anno deve andare più fretta soltanto per restare dov’è, come un criceto sulla ruota. La vita non sarà sempre meglio ma, al contrario, sempre più dura. Questa è per me la condizione postmoderna: non andiamo più verso un avvenire radioso ma corriamo per non cadere nell’abisso alle nostre spalle».
Alcuni autori accusano di questi mali il capitalismo, secondo lei invece le forze che guidano l’accelerazione sociale sono al di là del capitalismo…
«E’ vero che non do la colpa di tutto al capitalismo ma ciò non significa che il capitalismo non abbia un ruolo centrale nell’accelerazione. Il capitalismo è uno dei primi motori dell’accelerazione sociale: il tempo diventa merce rara, è denaro come diceva Benjamin Franklin. Essere più veloci degli altri è una necessità strutturale nel modo di produzione capitalistico. Sono convinto che senza cambiamenti nell’economia non usciremo mai dal ciclo dell’accelerazione. Il mercato e la competizione devono essere reintegrati nei nostri stili di vita sociali e culturali, non il contrario, devono essere limitati attraverso nuove forme di economia democratica. Penso a un reddito di cittadinanza legato a un sistema fiscale globale. Tuttavia il capitalismo non è l’unico colpevole. Ci sono altri fattori come la logica delle differenze funzionali, la divisione del lavoro e l’orientamento culturale che vede nella velocità una risposta al problema della finitudine e della morte: se vivo a una velocità doppia è come se vivessi due vite e così via. Credo che alla base del problema della velocità ci sia un orientamento culturale sbagliato (o almeno molto problematico) verso la vita e il mondo».
L’accelerazione sociale produce alienazione, come sfuggire a questa impasse?
«E’ impossibile lasciare la società così com’è e semplicemente rallentare. Non credo troppo alla Decelerazione o alla Slow Life, le risposte individuali non possono funzionare. L’alienazione si può superare solo con un nuovo modo di relazionarsi con il mondo. Potremmo chiamarlo ”Risonanza”. La Risonanza è l’opposto e l’alternativa all’alienazione. Noi non siamo alienati da un gruppo di persone (la famiglia, ad esempio) o da una situazione sociale (l’ambiente di lavoro) quando c’è una relazione risonante, attiva tra noi e loro. In quel caso ci sentiamo attivi, connessi ma anche capaci di relazionarci con gli altri. La Risonanza tuttavia non è uno stato emotivo: è una forma di rapporto e una caratteristica della società. Dunque per far sì che il mondo sia più risonante dobbiamo cambiare sia il nostro atteggiamento sia le strutture del nostro mondo sociale ed economico. Un’economia democratica, il reddito di cittadinanza e l’idea di Risonanza potrebbero essere componenti essenziali per un tale cambiamento».
 

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