Risvolto
L'Occidente è nato e cresciuto come rivoluzione permanente, cioè come
capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa
rispetto a quella presente. Questa è la caratteristica che ha permesso
all'Europa, dal Medioevo in poi, di formarsi, espandersi, affermare la
sua egemonia. Se ora assistiamo a un innegabile declino dell'Europa, ciò
accade non per mere dinamiche economiche, ma fondamentalmente proprio
per l'incapacità di immaginare un nuovo patto politico che faccia fronte
alle nuove insicurezze che dominano l'età della globalizzazione.
Paolo Prodi Rivoluzione, un universo in declino
di Paolo Pombeni Il Sole 3.5.15
«Il problema fondamentale per la vita nostra e dei nostri figli è se l’Europa, se l’Occidente conserva ancora il potenziale rivoluzionario che ha caratterizzato la sua storia nell’ultimo millennio. Da questo dipende il destino delle nuove generazioni nell’età della globalizzazione».
«Il problema fondamentale per la vita nostra e dei nostri figli è se l’Europa, se l’Occidente conserva ancora il potenziale rivoluzionario che ha caratterizzato la sua storia nell’ultimo millennio. Da questo dipende il destino delle nuove generazioni nell’età della globalizzazione».
È netto Paolo Prodi nel suo piccolo, ma prezioso volume Il tramonto
della rivoluzione. Siamo davanti alla riflessione appassionata, nel
senso più pieno del termine, di uno storico che ha speso una vita a
ragionare sulle grandi categorie della storia occidentale, soprattutto
sui due passaggi fondamentali che qui ritornano come perno della sua
analisi: la separazione fra religione e politica, fra Stato e chiesa; la
tensione irrisolta fra profezia e utopia.
Ormai quando si parla di rivoluzione gli sembra si parli più di
“tumulti”, di “moti di piazza”, che non di quella che è stata la grande
tradizione del pensiero occidentale, quella per cui la rivoluzione era,
appunto, la tensione alla costruzione del futuro, e la profezia era la
capacità di leggere quelle che con antico linguaggio si sarebbero
chiamate «le doglie del parto», piuttosto che scolorare nella proiezione
a sognare realtà che non hanno luogo e consistenza, appunto «u-topie».
C’è da chiedersi se davvero siamo in questa società della tecnica in cui
«lo strumento diviene lo scopo: non più protesi per lo sviluppo della
persona, ma fine. Un linguaggio che possiede l’uomo cancellando il suo
passato». Così muore il senso della storia come strumento di educazione
delle nuove generazioni e si impongono quelle che Prodi chiama «le
discipline senza tempo» («da quelle psicologiche e sociologiche a quella
della comunicazione»).
Naturalmente per lo storico il percorso deve essere diverso. Il nostro
mondo si è costruito in un lungo arco temporale che va dal tramonto del
Medioevo sino allo stabilizzarsi di un certo quadro di convivenze fra
XIX e XX secolo. È emblematica per il nostro autore la vicenda del
diritto, che marcia lungo l’asse della distinzione fra peccato e reato,
il primo da lasciare al terreno dell’etica, su cui dovrebbe vegliare la
religione con le sue istituzioni, il secondo da portare sul terreno
dell’organizzazione della sfera giuridica, che deve rispondere ad altri
fini. Nella sfera del diritto pubblico poi c’è poi la nascita del
costituzionalismo, anch’esso prodotto non di una sola, ma di più
rivoluzioni.
In questa storia si è costruita l’identità dell’Occidente, che non è
quella, osserva Prodi con giusta polemica, dei dibattiti intorno alle
“radici” della, peraltro fallita, carta costituzionale europea, ma
quella che già nel 1740 Voltaire aveva individuato: avere tutti, sia
pure in forme diverse, una struttura giuridica «repubblicana» (cioè
costituzionale), e tutti, sia pure come notava, divisi in sette, «gli
stessi fondamenti di religione». È però altrettanto evidente, e i saggi
raccolti in questo volumetto lo sottolineano bene, che questa identità è
stata sempre più sfidata ed è entrata in crisi, magari nel momento
stesso in cui, secolarizzandosi, riteneva di essere diventata un valore
universale.
Si tratta di un universo che il confronto con civiltà diverse dalla
nostra ha costretto a ripensare. Come viene ricordato nell’ultimo denso
saggio che si misura con «Islam, primavere arabe e terrorismo» ci vuole
uno sguardo un po’ più acuto di quello che si ferma agli stereotipi
dello scontro di civiltà o della fine della storia. L’occidente viene da
una tradizione che ha sviluppato «il primato della coscienza sulla
legge. I due poteri in concorrenza quello sacerdotale e quello politico
sono espressione di due poteri in concorrenza che non possono mai
identificarsi l’uno con l’altro e sono destinati ad una perpetua
tensione». L’oriente viene da una rielaborazione della tradizione
“bizantina” in cui imperatore e vertice della chiesa si identificano
perché uno solo rappresenta la divinità in terra. Questa tradizione
passa, sia pure con molte tensioni ed evoluzioni, nell’islamismo.
Di qui le tensioni odierne per un confronto che si è riaperto anche in
presenza di un parallelo universo interpretativo che Prodi definisce
«confuciano», in cui nuovamente, quasi in un ritorno all’antico,
individuo e cosmo tendono a confondersi nel primato del secondo sul
primo e di conseguenza nella sottovalutazione della capacità creativa
(rivoluzionaria) dell’uomo.
Critica del presente e diritto al futuro, due voci del passato
Critica del presente e diritto al futuro, due voci del passato
Storia. In "Il
tramonto della rivoluzione" di Paolo Prodi, una analisi dei sintomi che
rivelano il comprimersi del tempo storico, e il senso di essere
consegnati a un eterno, immodificabile presenteIgor Mineo Manifesto 27.9.2015, 6:00
Non si può dire che la parola «rivoluzione» sia uscita dal
nostro lessico quotidiano; al contrario, ogni sommovimento
sociale, ogni forma di resistenza, ogni cambio di regime vengono
disinvoltamente etichettati come «rivoluzionari» presso
un’opinione pubblica dopata da una stampa incline, in genere, più
a suscitare emozioni forti (quanto effimere) che a favorire la
riflessione. Ecco quindi, specie dopo la fine del socialismo reale,
il moltiplicarsi delle rivoluzioni colorate, qualche
rivoluzione floreale, o anche una jeans revolution (Bielorussia
2006). Senza contare l’impiego di rivoluzione nella routine
politico-amministrativa di questo o di quel paese ogniqualvolta venga
formulata una riforma senza la quale – assicura il governante di
turno – il paese in questione sarebbe spacciato. Ma questo uso
inflattivo di rivoluzione è reso possibile, in realtà, dallo
svuotamento del significato suo proprio, o meglio di quello
maturato tra XVIII e XIX secolo, quando si identificarono con
«rivoluzione» non tutti gli sconvolgimenti dell’ordine politico ma
solo quelli carichi (e spesso sovraccarichi) di progettualità
alternativa e di aspettative progressive sul futuro.
Questa elementare diagnosi la ritroviamo nel libro che Paolo
Prodi dedica appunto al Tramonto della rivoluzione (Il Mulino, pp.
119, euro 11,00) prezioso non tanto nel riepilogo di una delle
questioni chiave del vocabolario storico-politico, quanto
nell’originale messa in prospettiva di un nodo tra i più attuali (e
tra i più discussi). L’esaurimento della rivoluzione vi appare come
momento, e sintomo, di un fenomeno più largo e più denso: il
comprimersi del tempo storico, l’appannarsi dell’orizzonte delle
attese di cui tanto si dice (in modi, peraltro, sempre più
ripetitivi), il senso dell’immodificabilità di un eterno presente
governato da leggi sulle quali il prodotto maggiore della modernità
politica – lo stato sovrano, e poi la democrazia rappresentativa –
nulla più possono.
Più che essere raccontata una qualche storia meritevole di attenzione, viene dunque rivelata la densa stratigrafia di un aspetto decisivo della nostra attualità. «I fenomeni strutturali hanno una loro forza che va al di là di ogni cincischiamento politologico» – ammonisce a un certo punto, perfidamente, Prodi, con riferimento al declinante trend demografico dell’Europa. Ora, questa strutturalità è, per intellettuali come lui, innanzitutto e eminentemente storica. È grazie alla storia che è possibile decifrare la specificità occidentale della rivoluzione, intesa dunque come una delle forme fondamentali della dialettica fra poteri diversi e spesso in conflitto, religioso da una parte, politico-temporale dall’altra; privi entrambi, tali poteri, della possibilità del monopolio. Si tratta di una configurazione che si viene formando all’inizio del secondo millennio e che nasce dalla rottura di quella precedente tardoantica e altomedievale, ma anche, ad altre latitudini, bizantina e islamica, segnata all’opposto dalla sovrapposizione di regno e sacerdozio.
Nel quadro di lungo periodo segnato da questo dualismo emerge gradualmente uno stato di «rivoluzione permanente» che è uno dei tratti distintivi nell’Europa moderna. L’istanza che le è propria riprende e trasforma una funzione svolta per secoli dalla profezia religiosa: la denuncia del male politico come tradimento del messaggio di Dio. Satura di questa eredità, la rivoluzione si carica di una promessa di futuro radicalmente utopica, ma capace di incarnarsi in luoghi quali la patria, l’umanità, la classe.
La fine del mito della rivoluzione trascina dunque con sé la fine della capacità di mettere sotto processo il presente, e il termine del senso stesso di un «diritto» al futuro. Più in profondità, però, essa è il segno dell’esaurirsi della dialettica tra i poteri e del loro reciproco contenimento, preannunciato nel Novecento dall’affermazione di vere e proprie religioni politiche all’interno delle esperienze totalitarie. Ed è qui che la zampata di Prodi produce l’effetto più destabilizzante: denunciando la confusione, se non l’identificazione, di poteri un tempo distinti all’interno di un unico santuario disciplinare, produttivo di norme a un tempo etiche ed economiche, di comandi politici e di prescrizioni comportamentali: l’ordine che ne risulta viene avvertito come irriformabile e invalicabile. Non solo: anche nel mondo islamico, o in una parte di esso, là dove non si è compiuta la distinzione fra stato e chiesa, si assiste oggi al radicalizzarsi di un’osmosi fra legge religiosa e legge politica per molti versi speculare al nuovo monismo occidentale. Nella denuncia della violenza terroristica come definitivo altro da sé l’Occidente tende a rimuovere il tratto in comune, e la comune radice delle culture fondate sulla religiosità monoteistica del libro.
Non se ne fa mistero: si sta parlando dell’ordine neoliberale globalizzato e della qualità postdemocratica delle sue istituzioni: «La civiltà dei consumi tende a unificare la terra (…) con la costituzione di un’identità collettiva unica che può disfarsi dei costi e degli affanni della democrazia e dei diritti soggettivi», ossia di alcuni beni (o valori) politici progettati e (precariamente) acquisiti per via, appunto, rivoluzionaria. In questi avvertimenti risuonano, tragicamente, gli echi, anche primo-novecenteschi, di un profetismo laico al quale siamo, con ogni evidenza, disabituati.
Può suscitare disagio l’implacabile sottolineatura dell’eccezionalità europea, messa sotto scacco dalle nuove «religioni politiche e – vorremmo dire – economiche». Eppure questa evidenza non possiede alcuna modalità apologetica: il tema essendo proprio quello del declino di una modernità politica attraversata in passato da conflitti e cambiamenti e oggi rimpiazzata da una costellazione di poteri irresponsabili, sovranazionali, e talora globali, economici e politici insieme, apparentemente inattaccabili, e, quel che più vale, protetti da una rinnovata aura di sacralità. Impermeabili, parrebbe, alla critica di una ragione rivoluzionaria spentasi insieme al loro trionfo.
Più che essere raccontata una qualche storia meritevole di attenzione, viene dunque rivelata la densa stratigrafia di un aspetto decisivo della nostra attualità. «I fenomeni strutturali hanno una loro forza che va al di là di ogni cincischiamento politologico» – ammonisce a un certo punto, perfidamente, Prodi, con riferimento al declinante trend demografico dell’Europa. Ora, questa strutturalità è, per intellettuali come lui, innanzitutto e eminentemente storica. È grazie alla storia che è possibile decifrare la specificità occidentale della rivoluzione, intesa dunque come una delle forme fondamentali della dialettica fra poteri diversi e spesso in conflitto, religioso da una parte, politico-temporale dall’altra; privi entrambi, tali poteri, della possibilità del monopolio. Si tratta di una configurazione che si viene formando all’inizio del secondo millennio e che nasce dalla rottura di quella precedente tardoantica e altomedievale, ma anche, ad altre latitudini, bizantina e islamica, segnata all’opposto dalla sovrapposizione di regno e sacerdozio.
Nel quadro di lungo periodo segnato da questo dualismo emerge gradualmente uno stato di «rivoluzione permanente» che è uno dei tratti distintivi nell’Europa moderna. L’istanza che le è propria riprende e trasforma una funzione svolta per secoli dalla profezia religiosa: la denuncia del male politico come tradimento del messaggio di Dio. Satura di questa eredità, la rivoluzione si carica di una promessa di futuro radicalmente utopica, ma capace di incarnarsi in luoghi quali la patria, l’umanità, la classe.
La fine del mito della rivoluzione trascina dunque con sé la fine della capacità di mettere sotto processo il presente, e il termine del senso stesso di un «diritto» al futuro. Più in profondità, però, essa è il segno dell’esaurirsi della dialettica tra i poteri e del loro reciproco contenimento, preannunciato nel Novecento dall’affermazione di vere e proprie religioni politiche all’interno delle esperienze totalitarie. Ed è qui che la zampata di Prodi produce l’effetto più destabilizzante: denunciando la confusione, se non l’identificazione, di poteri un tempo distinti all’interno di un unico santuario disciplinare, produttivo di norme a un tempo etiche ed economiche, di comandi politici e di prescrizioni comportamentali: l’ordine che ne risulta viene avvertito come irriformabile e invalicabile. Non solo: anche nel mondo islamico, o in una parte di esso, là dove non si è compiuta la distinzione fra stato e chiesa, si assiste oggi al radicalizzarsi di un’osmosi fra legge religiosa e legge politica per molti versi speculare al nuovo monismo occidentale. Nella denuncia della violenza terroristica come definitivo altro da sé l’Occidente tende a rimuovere il tratto in comune, e la comune radice delle culture fondate sulla religiosità monoteistica del libro.
Non se ne fa mistero: si sta parlando dell’ordine neoliberale globalizzato e della qualità postdemocratica delle sue istituzioni: «La civiltà dei consumi tende a unificare la terra (…) con la costituzione di un’identità collettiva unica che può disfarsi dei costi e degli affanni della democrazia e dei diritti soggettivi», ossia di alcuni beni (o valori) politici progettati e (precariamente) acquisiti per via, appunto, rivoluzionaria. In questi avvertimenti risuonano, tragicamente, gli echi, anche primo-novecenteschi, di un profetismo laico al quale siamo, con ogni evidenza, disabituati.
Può suscitare disagio l’implacabile sottolineatura dell’eccezionalità europea, messa sotto scacco dalle nuove «religioni politiche e – vorremmo dire – economiche». Eppure questa evidenza non possiede alcuna modalità apologetica: il tema essendo proprio quello del declino di una modernità politica attraversata in passato da conflitti e cambiamenti e oggi rimpiazzata da una costellazione di poteri irresponsabili, sovranazionali, e talora globali, economici e politici insieme, apparentemente inattaccabili, e, quel che più vale, protetti da una rinnovata aura di sacralità. Impermeabili, parrebbe, alla critica di una ragione rivoluzionaria spentasi insieme al loro trionfo.
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