lunedì 4 maggio 2015

La rivoluzione ovvero la storia


Cover Il tramonto della rivoluzionePaolo Prodi: Il tramonto della rivoluzione, il Mulino, Bologna, pagg. 120, € 11,00
Risvolto
L'Occidente è nato e cresciuto come rivoluzione permanente, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente. Questa è la caratteristica che ha permesso all'Europa, dal Medioevo in poi, di formarsi, espandersi, affermare la sua egemonia. Se ora assistiamo a un innegabile declino dell'Europa, ciò accade non per mere dinamiche economiche, ma fondamentalmente proprio per l'incapacità di immaginare un nuovo patto politico che faccia fronte alle nuove insicurezze che dominano l'età della globalizzazione. 

Paolo Prodi Rivoluzione, un universo in declino
di Paolo Pombeni Il Sole 3.5.15
«Il problema fondamentale per la vita nostra e dei nostri figli è se l’Europa, se l’Occidente conserva ancora il potenziale rivoluzionario che ha caratterizzato la sua storia nell’ultimo millennio. Da questo dipende il destino delle nuove generazioni nell’età della globalizzazione».

È netto Paolo Prodi nel suo piccolo, ma prezioso volume Il tramonto della rivoluzione. Siamo davanti alla riflessione appassionata, nel senso più pieno del termine, di uno storico che ha speso una vita a ragionare sulle grandi categorie della storia occidentale, soprattutto sui due passaggi fondamentali che qui ritornano come perno della sua analisi: la separazione fra religione e politica, fra Stato e chiesa; la tensione irrisolta fra profezia e utopia.
Ormai quando si parla di rivoluzione gli sembra si parli più di “tumulti”, di “moti di piazza”, che non di quella che è stata la grande tradizione del pensiero occidentale, quella per cui la rivoluzione era, appunto, la tensione alla costruzione del futuro, e la profezia era la capacità di leggere quelle che con antico linguaggio si sarebbero chiamate «le doglie del parto», piuttosto che scolorare nella proiezione a sognare realtà che non hanno luogo e consistenza, appunto «u-topie».
C’è da chiedersi se davvero siamo in questa società della tecnica in cui «lo strumento diviene lo scopo: non più protesi per lo sviluppo della persona, ma fine. Un linguaggio che possiede l’uomo cancellando il suo passato». Così muore il senso della storia come strumento di educazione delle nuove generazioni e si impongono quelle che Prodi chiama «le discipline senza tempo» («da quelle psicologiche e sociologiche a quella della comunicazione»).
Naturalmente per lo storico il percorso deve essere diverso. Il nostro mondo si è costruito in un lungo arco temporale che va dal tramonto del Medioevo sino allo stabilizzarsi di un certo quadro di convivenze fra XIX e XX secolo. È emblematica per il nostro autore la vicenda del diritto, che marcia lungo l’asse della distinzione fra peccato e reato, il primo da lasciare al terreno dell’etica, su cui dovrebbe vegliare la religione con le sue istituzioni, il secondo da portare sul terreno dell’organizzazione della sfera giuridica, che deve rispondere ad altri fini. Nella sfera del diritto pubblico poi c’è poi la nascita del costituzionalismo, anch’esso prodotto non di una sola, ma di più rivoluzioni.
In questa storia si è costruita l’identità dell’Occidente, che non è quella, osserva Prodi con giusta polemica, dei dibattiti intorno alle “radici” della, peraltro fallita, carta costituzionale europea, ma quella che già nel 1740 Voltaire aveva individuato: avere tutti, sia pure in forme diverse, una struttura giuridica «repubblicana» (cioè costituzionale), e tutti, sia pure come notava, divisi in sette, «gli stessi fondamenti di religione». È però altrettanto evidente, e i saggi raccolti in questo volumetto lo sottolineano bene, che questa identità è stata sempre più sfidata ed è entrata in crisi, magari nel momento stesso in cui, secolarizzandosi, riteneva di essere diventata un valore universale.
Si tratta di un universo che il confronto con civiltà diverse dalla nostra ha costretto a ripensare. Come viene ricordato nell’ultimo denso saggio che si misura con «Islam, primavere arabe e terrorismo» ci vuole uno sguardo un po’ più acuto di quello che si ferma agli stereotipi dello scontro di civiltà o della fine della storia. L’occidente viene da una tradizione che ha sviluppato «il primato della coscienza sulla legge. I due poteri in concorrenza quello sacerdotale e quello politico sono espressione di due poteri in concorrenza che non possono mai identificarsi l’uno con l’altro e sono destinati ad una perpetua tensione». L’oriente viene da una rielaborazione della tradizione “bizantina” in cui imperatore e vertice della chiesa si identificano perché uno solo rappresenta la divinità in terra. Questa tradizione passa, sia pure con molte tensioni ed evoluzioni, nell’islamismo.
Di qui le tensioni odierne per un confronto che si è riaperto anche in presenza di un parallelo universo interpretativo che Prodi definisce «confuciano», in cui nuovamente, quasi in un ritorno all’antico, individuo e cosmo tendono a confondersi nel primato del secondo sul primo e di conseguenza nella sottovalutazione della capacità creativa (rivoluzionaria) dell’uomo.

Critica del presente e diritto al futuro, due voci del passato
Storia. In "Il tramonto della rivoluzione" di Paolo Prodi, una analisi dei sintomi che rivelano il comprimersi del tempo storico, e il senso di essere consegnati a un eterno, immodificabile presenteIgor Mineo Manifesto 27.9.2015, 6:00
Que­sta ele­men­tare dia­gnosi la ritro­viamo nel libro che Paolo Prodi dedica appunto al Tra­monto della rivo­lu­zione (Il Mulino, pp. 119, euro 11,00) pre­zioso non tanto nel rie­pi­logo di una delle que­stioni chiave del voca­bo­la­rio storico-politico, quanto nell’originale messa in pro­spet­tiva di un nodo tra i più attuali (e tra i più discussi). L’esaurimento della rivo­lu­zione vi appare come momento, e sin­tomo, di un feno­meno più largo e più denso: il com­pri­mersi del tempo sto­rico, l’appannarsi dell’orizzonte delle attese di cui tanto si dice (in modi, peral­tro, sem­pre più ripe­ti­tivi), il senso dell’immodificabilità di un eterno pre­sente gover­nato da leggi sulle quali il pro­dotto mag­giore della moder­nità poli­tica – lo stato sovrano, e poi la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva – nulla più possono.
Più che essere rac­con­tata una qual­che sto­ria meri­te­vole di atten­zione, viene dun­que rive­lata la densa stra­ti­gra­fia di un aspetto deci­sivo della nostra attua­lità. «I feno­meni strut­tu­rali hanno una loro forza che va al di là di ogni cin­ci­schia­mento poli­to­lo­gico» – ammo­ni­sce a un certo punto, per­fi­da­mente, Prodi, con rife­ri­mento al decli­nante trend demo­gra­fico dell’Europa. Ora, que­sta strut­tu­ra­lità è, per intel­let­tuali come lui, innan­zi­tutto e emi­nen­te­mente sto­rica. È gra­zie alla sto­ria che è pos­si­bile deci­frare la spe­ci­fi­cità occi­den­tale della rivo­lu­zione, intesa dun­que come una delle forme fon­da­men­tali della dia­let­tica fra poteri diversi e spesso in con­flitto, reli­gioso da una parte, politico-temporale dall’altra; privi entrambi, tali poteri, della pos­si­bi­lità del mono­po­lio. Si tratta di una con­fi­gu­ra­zione che si viene for­mando all’inizio del secondo mil­len­nio e che nasce dalla rot­tura di quella pre­ce­dente tar­doan­tica e alto­me­die­vale, ma anche, ad altre lati­tu­dini, bizan­tina e isla­mica, segnata all’opposto dalla sovrap­po­si­zione di regno e sacerdozio.
Nel qua­dro di lungo periodo segnato da que­sto dua­li­smo emerge gra­dual­mente uno stato di «rivo­lu­zione per­ma­nente» che è uno dei tratti distin­tivi nell’Europa moderna. L’istanza che le è pro­pria riprende e tra­sforma una fun­zione svolta per secoli dalla pro­fe­zia reli­giosa: la denun­cia del male poli­tico come tra­di­mento del mes­sag­gio di Dio. Satura di que­sta ere­dità, la rivo­lu­zione si carica di una pro­messa di futuro radi­cal­mente uto­pica, ma capace di incar­narsi in luo­ghi quali la patria, l’umanità, la classe.
La fine del mito della rivo­lu­zione tra­scina dun­que con sé la fine della capa­cità di met­tere sotto pro­cesso il pre­sente, e il ter­mine del senso stesso di un «diritto» al futuro. Più in pro­fon­dità, però, essa è il segno dell’esaurirsi della dia­let­tica tra i poteri e del loro reci­proco con­te­ni­mento, pre­an­nun­ciato nel Nove­cento dall’affermazione di vere e pro­prie reli­gioni poli­ti­che all’interno delle espe­rienze tota­li­ta­rie. Ed è qui che la zam­pata di Prodi pro­duce l’effetto più desta­bi­liz­zante: denun­ciando la con­fu­sione, se non l’identificazione, di poteri un tempo distinti all’interno di un unico san­tua­rio disci­pli­nare, pro­dut­tivo di norme a un tempo eti­che ed eco­no­mi­che, di comandi poli­tici e di pre­scri­zioni com­por­ta­men­tali: l’ordine che ne risulta viene avver­tito come irri­for­ma­bile e inva­li­ca­bile. Non solo: anche nel mondo isla­mico, o in una parte di esso, là dove non si è com­piuta la distin­zione fra stato e chiesa, si assi­ste oggi al radi­ca­liz­zarsi di un’osmosi fra legge reli­giosa e legge poli­tica per molti versi spe­cu­lare al nuovo moni­smo occi­den­tale. Nella denun­cia della vio­lenza ter­ro­ri­stica come defi­ni­tivo altro da sé l’Occidente tende a rimuo­vere il tratto in comune, e la comune radice delle cul­ture fon­date sulla reli­gio­sità mono­tei­stica del libro.
Non se ne fa mistero: si sta par­lando dell’ordine neo­li­be­rale glo­ba­liz­zato e della qua­lità post­de­mo­cra­tica delle sue isti­tu­zioni: «La civiltà dei con­sumi tende a uni­fi­care la terra (…) con la costi­tu­zione di un’identità col­let­tiva unica che può disfarsi dei costi e degli affanni della demo­cra­zia e dei diritti sog­get­tivi», ossia di alcuni beni (o valori) poli­tici pro­get­tati e (pre­ca­ria­mente) acqui­siti per via, appunto, rivo­lu­zio­na­ria. In que­sti avver­ti­menti risuo­nano, tra­gi­ca­mente, gli echi, anche primo-novecenteschi, di un pro­fe­ti­smo laico al quale siamo, con ogni evi­denza, disabituati.
Può susci­tare disa­gio l’implacabile sot­to­li­nea­tura dell’eccezionalità euro­pea, messa sotto scacco dalle nuove «reli­gioni poli­ti­che e – vor­remmo dire – eco­no­mi­che». Eppure que­sta evi­denza non pos­siede alcuna moda­lità apo­lo­ge­tica: il tema essendo pro­prio quello del declino di una moder­nità poli­tica attra­ver­sata in pas­sato da con­flitti e cam­bia­menti e oggi rim­piaz­zata da una costel­la­zione di poteri irre­spon­sa­bili, sovra­na­zio­nali, e talora glo­bali, eco­no­mici e poli­tici insieme, appa­ren­te­mente inat­tac­ca­bili, e, quel che più vale, pro­tetti da una rin­no­vata aura di sacra­lità. Imper­mea­bili, par­rebbe, alla cri­tica di una ragione rivo­lu­zio­na­ria spen­tasi insieme al loro trionfo.

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