Cento anni fa la decisione dell’intervento cambiava il destino del Paese Le mosse della diplomazia, lo scontro tra fautori e avversari del conflitto
di Antonio Carioti Corriere 24.5.15
La storia ama i paradossi. E il 24 maggio 1915 è un caso del genere.
Furono due convinti conservatori, il capo del governo Antonio Salandra e
il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, che portarono l’Italia nella
Prima guerra mondiale. Ma quella scelta ebbe l’effetto di un terremoto
sulla vita quotidiana dei cittadini, sulla cultura e sul costume, sul
sistema politico. In breve, costrinse l’intero Paese a misurarsi con la
modernità in una forma traumatica, che non è esagerato definire
rivoluzionaria. Nessuno avrebbe più potuto governare l’Italia come lo
era stata fino ad allora.
Su quel passaggio epocale il «Corriere della Sera» offre ai suoi lettori
uno strumento di conoscenza e riflessione: il volume a più voci 24
maggio 1915. L’Italia è in guerra , che non vuole essere una
pubblicazione celebrativa, ma inserirsi nel dibattito che il centenario
del conflitto sta suscitando. I contributi di Sergio Romano ed Ernesto
Galli della Loggia analizzano le ripercussioni dello scontro bellico.
Simona Colarizi, ricostruisce i passaggi che condussero all’intervento.
Giovanni Belardelli e Franco Cardini si domandano che cosa sarebbe
avvenuto se la scelta dell’Italia fosse stata diversa. Il volume
comprende inoltre scritti sul ruolo del «Corriere» albertiniano, sul
fallimento dei socialisti, sulla cultura interventista, sulla posizione
del Vaticano, sul punto di vista austro-ungarico.
Numerosi sono tuttora gli interrogativi aperti sugli eventi del 1915.
Perché oggi non può non apparirci strano che l’Italia abbia compiuto
quel passo quando già era evidente, dopo dieci mesi di ostilità nel
resto d’Europa, che si trattava di una guerra incerta, cruenta,
costosissima in ogni senso, destinata a durare e a lasciare i
contendenti stremati. Tanto più che la maggioranza del Parlamento,
legata al leader liberale neutralista Giovanni Giolitti, avrebbe
preferito senz’altro la pace, così come contrario al conflitto era il
partito di sinistra più numeroso e organizzato, quello socialista,
mentre assai recalcitranti si mostravano le masse legate alla Chiesa
cattolica.
«Salandra e Sonnino erano convinti che entrare in guerra fosse l’unica
via per fare dell’Italia una grande potenza di livello europeo. E non si
resero conto che rivendicare anche territori abitati da slavi e
tedeschi avrebbe indebolito la nostra posizione diplomatica, nel momento
in cui gli altri Stati dell’Intesa si presentavano, sia pure con
qualche ipocrisia, come difensori dei popoli oppressi», osserva lo
storico Antonio Varsori, che a quei fatti ha appena dedicato il libro
Radioso maggio (Il Mulino, pp. 215, e 12). E poi c’era un rilevante
aspetto di politica interna: «Attraverso la guerra Salandra voleva anche
mutare gli equilibri parlamentari: imporre una svolta conservatrice per
farla finita con l’esperimento di apertura a socialisti e cattolici
avviato da Giolitti».
Ma come mai la manovra riuscì, mettendo in scacco avversari che sulla
carta erano preponderanti a Montecitorio e nel Paese? Un altro studioso,
Fulvio Cammarano, ha approfondito il comportamento delle forze
neutraliste nel saggio Abbasso la guerra! (Le Monnier, pp. 605, e 29). E
segnala al «Corriere» la debolezza di fondo dell’eterogeneo
schieramento che invocava la pace: «Le sue tre componenti, liberali
giolittiani, Psi e Chiesa cattolica, sono assai distanti sotto il
profilo ideologico e si rifiutano pervicacemente di collaborare per lo
scopo comune. A tutti loro l’obiettivo di tenere l’Italia fuori dalla
guerra appare secondario rispetto alla difesa della propria identità. E
infatti, per esempio, non appena un esponente socialista cerca di
dialogare con i cattolici, subito qualcuno lo impallina sulla stampa del
suo partito».
Per giunta in quel mondo si registrano importanti defezioni, come
illustra lo storico Mario Isnenghi nel suo nuovo libro Convertirsi alla
guerra (Donzelli, pp. 282, e 20). All’estrema sinistra Benito Mussolini è
solo il caso più noto di adesione all’interventismo, cui si aggiungono
altre figure di rilievo come Cesare Battisti, Alceste De Ambris, Maria
Rygier. Mentre al fianco del comandante supremo Luigi Cadorna, un
credente che riporta i cappellani nell’esercito, troviamo due frati
cattolici della statura di Giovanni Semeria e Agostino Gemelli.
Anche l’interventismo per la verità è composito, spiega Cammarano, ma ha
un asso nella manica: «Si presenta come il partito del futuro, che
intende costruire un’Italia grande e rigenerata, come potenza imperiale
per alcuni, come democrazia moderna per altri. Invece il neutralismo,
che non vuole rischiare l’azzardo della guerra, offre di sé un’immagine
timida e sbiadita, quella di chi si accontenta di proseguire nella cauta
gestione dell’esistente perseguita da quel Giolitti che era considerato
da molti un vero e proprio corruttore della vita pubblica».
Proprio su questo tema focalizza la sua analisi un altro studioso, Luigi
Compagna, nel libro Italia 1915: in guerra contro Giolitti (Rubbettino,
pagine 192, e 12), che denuncia come gli interventisti liberali e
democratici, sordi ai moniti del neutralista Benedetto Croce, abbiano
allora ceduto alle pericolose sirene dell’antiparlamentarismo pur di
raggiungere i loro scopi. «Salandra — ricorda Varsori — si dimostrò
abile: dopo aver concluso il patto di Londra per l’entrata in guerra
dalla parte dell’Intesa, si dimise da capo del governo per dimostrare
che Giolitti non aveva la forza per subentrargli e rovesciare la sua
politica. Così lo mise fuori gioco. Lo favorirono la scarsa credibilità
delle offerte territoriali austriache, che Vienna pretendeva di mettere
in esecuzione solo dopo la fine della guerra, ma anche i moti della
piazza interventista, che a Roma trovò un leader dal carisma formidabile
come Gabriele D’Annunzio».
Eppure, sottolinea Cammarano, c’era anche una piazza neutralista: «Dalle
ricerche che ho compiuto risulta che i manifestanti contrari alla
guerra, prima delle giornate più roventi di maggio, erano maggioritari,
specie là dove non c’era una presenza rilevante degli studenti
universitari, punta di lancia dell’interventismo. Contro la guerra si
manifesta, nel Nord come nel Sud, anche una resistenza prepolitica,
generata dai bisogni immediati delle classi popolari, che non vogliono
essere mandate a morire in battaglia. Ma l’iniziativa era in mano ai
fautori della guerra e i loro avversari sono passati alla storia come
una sorta di sparring partner».
Il modo in cui una minoranza attiva prese il sopravvento ha indotto
qualcuno a dipingere il maggio 1915 come una sorta di «colpo di Stato»,
definizione che Varsori trova eccessiva: «Tutto avvenne a norma dello
Statuto. Il re svolse regolari consultazioni, constatò che nessuno si
faceva avanti per sostituire Salandra e lo rimandò alle Camere, dove il
capo del governo ottenne una larghissima maggioranza sulla mozione che
apriva la strada alla guerra. Ma in realtà Vittorio Emanuele III si
comportò in modo molto ambiguo: con i messaggi inviati in quei giorni al
re d’Inghilterra e allo zar, aveva di fatto avallato il patto di
Londra. E i disordini di piazza furono gravi, gli studenti interventisti
cercarono persino d’invadere Montecitorio e ne infransero le vetrate.
Le forme costituzionali vennero rispettate, ma si verificò una forzatura
che indebolì le istituzioni rappresentative».
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