Esce da una delle più antiche e illustri famiglie di Francia, François VI principe di Marcillac, duca di La Rochefoucauld, soldato spericolato e cospiratore sempre dalla parte sbagliata, otto giorni di Bastiglia e tre anni d’esilio, cortigiano che alle lettere è arrivato un po’ tardi, ma che per competere con Montaigne non aveva nemmeno bisogno di concentrarsi nella solitudine di un castello. Come un eroe di Dumas, ha giostrato tra Richelieu e Mazzarino, il Gran Condé, Anna d’Austria e il duca di Buckingham. Le delusioni politiche non nutrono in lui la solita memorialistica rancorosa dei perdenti, ma si cristallizzano nelle perle dei «proverbi delle persone brillanti». Nascono come un gioco di salotto in una società colta e sofisticata, dominata da dame sapienti, ma non si sfarinano alle prime luci dell’alba. Da allora sono stati copiati, ripetuti, adattati all’infinito. Oggi, nell’epoca della comunicazione per frammenti, nel regno del copia e incolla, La Rochefoucauld continua ad offrire giacimenti inesauribili anche ai bracconieri digitali.
lunedì 25 maggio 2015
Le Massime di Larochefoucauld nei Millenni Einaudi
I tweet? Arrivano dal secolo di re Sole
Einaudi presenta una nuova edizione delle Massime curata da Carlo Carena. Denunce dell’ipocrisia dell’agire umano brevi come i messaggi dei social
Ernesto Ferrero La Stampa 29 5 2015
Esce da una delle più antiche e illustri famiglie di Francia, François VI principe di Marcillac, duca di La Rochefoucauld, soldato spericolato e cospiratore sempre dalla parte sbagliata, otto giorni di Bastiglia e tre anni d’esilio, cortigiano che alle lettere è arrivato un po’ tardi, ma che per competere con Montaigne non aveva nemmeno bisogno di concentrarsi nella solitudine di un castello. Come un eroe di Dumas, ha giostrato tra Richelieu e Mazzarino, il Gran Condé, Anna d’Austria e il duca di Buckingham. Le delusioni politiche non nutrono in lui la solita memorialistica rancorosa dei perdenti, ma si cristallizzano nelle perle dei «proverbi delle persone brillanti». Nascono come un gioco di salotto in una società colta e sofisticata, dominata da dame sapienti, ma non si sfarinano alle prime luci dell’alba. Da allora sono stati copiati, ripetuti, adattati all’infinito. Oggi, nell’epoca della comunicazione per frammenti, nel regno del copia e incolla, La Rochefoucauld continua ad offrire giacimenti inesauribili anche ai bracconieri digitali.
Esce da una delle più antiche e illustri famiglie di Francia, François VI principe di Marcillac, duca di La Rochefoucauld, soldato spericolato e cospiratore sempre dalla parte sbagliata, otto giorni di Bastiglia e tre anni d’esilio, cortigiano che alle lettere è arrivato un po’ tardi, ma che per competere con Montaigne non aveva nemmeno bisogno di concentrarsi nella solitudine di un castello. Come un eroe di Dumas, ha giostrato tra Richelieu e Mazzarino, il Gran Condé, Anna d’Austria e il duca di Buckingham. Le delusioni politiche non nutrono in lui la solita memorialistica rancorosa dei perdenti, ma si cristallizzano nelle perle dei «proverbi delle persone brillanti». Nascono come un gioco di salotto in una società colta e sofisticata, dominata da dame sapienti, ma non si sfarinano alle prime luci dell’alba. Da allora sono stati copiati, ripetuti, adattati all’infinito. Oggi, nell’epoca della comunicazione per frammenti, nel regno del copia e incolla, La Rochefoucauld continua ad offrire giacimenti inesauribili anche ai bracconieri digitali.
Quando pubblica i suoi aforismi nel 1665, annus mirabilis, Racine ha appena finito l’Andromaca, Molière scrive il Don Giovanni, Bossuet predica a Saint-Thomas del Louvre, La Fontaine pubblica i suoi Racconti, e Poussin muore nella sua amata Roma. Il duca non si appaga del successo immediato. È uso far dono dei suoi aforismi alle persone più care, accompagnandole con biglietti in cui con finta modestia dice che valgono assai meno dei tartufi, ma così facendo li testa, li perfeziona, li smeriglia come un orafo, li aggiorna in quattro altre edizioni, sino a quella definitiva del 1678.
È una vera, sapiente edizione critica delle sue Sentenze e massime morali che tiene conto di tutte queste varianti, e dunque ci conduce direttamente nelle pratiche di laboratorio, quella che ci offre Carlo Carena, einaudiano di lungo corso, e curatore di memorabili edizioni di classici greci, latini e francesi: dalle Vite parallele di Plutarco ai Pensieri e alle Provinciali di Pascal, da un tutto Orazio ai Modi di dire di Erasmo sino al recente La vita felice, selezione dei Moralia di Plutarco. È stato appena festeggiato al Salone del libro per i suoi 90 operosissimi anni, ma il grande regalo lo ha fatto lui a noi (Einaudi, pp. VL-422 con testo originale a fronte e 16 tavole f.t. tratta da dipinti coevi, Euro 80)
In uno scritto che introduce il volume, Jean d’Ormesson, accademico di Francia, ci presenta il duca come «un grande signore cieco che vede la vita in nero» (aveva quasi perso la vista per un colpo di fucile). Ma il pessimista cosmico era soltanto un analista di incredibile e micidiale esattezza, un cecchino che non sbagliava un colpo, un artista della brevitas capace di concentrare interi tomi di riflessioni in due righe (imparino da lui i flebili ossessi di Twitter). Se è crudele e spietato, lo è come può esserlo un chirurgo. Per uno dei tanti paradossi della storia letteraria, in piena età barocca salta fuori un costruttore di lenti che mette a fuoco ustorio tutto quello che preferiamo rimuovere. Da lui discendono per li rami Voltaire, Chamfort (a quando un’edizione italiana di quest’altro grande?), Napoleone (altro coniatore di aforismi in cui brilla lo stesso disincanto), Stendhal, Schopenhauer, Flaubert, giù giù, sino a Nietzsche e Freud. È il primo degli illuministi, un coetaneo di Karl Kraus e di Cioran, un antenato di Ceronetti.
Nel mirino del duca sta la dissimulazione assai poco onesta. Se la vita sociale è teatro, le nostre maschere dicono tutte la stessa cosa: «Le nostre virtù non sono il più delle volte che vizi travestiti». L’unica cosa che ci preme è nutrire il nostro smisurato amor proprio e il nostro egocentrismo, foraggiare i nostri interessi, apparire quello che non siamo. L’amor proprio (e l’invidia sua sorella gemella, «più implacabile dell’odio») sono i satanici strateghi di ogni nostro gesto, anche quello in apparenza più disinteressato.
Darwinista della psiche, La Rochefoucauld ci dice che anche quando crediamo di operare rettamente lo facciamo per qualche nostro utile occulto, magari inconscio. I giansenisti applaudono: se la natura è geneticamente corrotta, l’unica salvezza sta nel dono della grazia. Diderot gli ha dato appunto del «cortigiano giansenista, calunniatore della natura umana» (con l’alta opinione che aveva di sé, è probabile che si sia riconosciuto in qualcuna delle massime). Madame de la Fayette pensava che tutto quel nero di seppia fosse autobiografico, lui negava con un sorriso, come se avesse previsto anche quella reazione di rigetto.
Surfando tra le massime, si ha l’impressione che La Rochefoucauld ci stia osservando con un suo potente telescopio. Ad esempio, coglie a perfezione il clima forcaiolo con relativa gogna mediatica di pronto impiego, in cui viviamo immersi, più rassegnati che indignati. Sentite questa: «La prontezza a credere il male senza averlo esaminato a sufficienza è un effetto dell’orgoglio e della pigrizia. Si vuole trovare dei colpevoli; e non ci si vuol dare la pena di esaminare le accuse».
Esce da una delle più antiche e illustri famiglie di Francia, François VI principe di Marcillac, duca di La Rochefoucauld, soldato spericolato e cospiratore sempre dalla parte sbagliata, otto giorni di Bastiglia e tre anni d’esilio, cortigiano che alle lettere è arrivato un po’ tardi, ma che per competere con Montaigne non aveva nemmeno bisogno di concentrarsi nella solitudine di un castello. Come un eroe di Dumas, ha giostrato tra Richelieu e Mazzarino, il Gran Condé, Anna d’Austria e il duca di Buckingham. Le delusioni politiche non nutrono in lui la solita memorialistica rancorosa dei perdenti, ma si cristallizzano nelle perle dei «proverbi delle persone brillanti». Nascono come un gioco di salotto in una società colta e sofisticata, dominata da dame sapienti, ma non si sfarinano alle prime luci dell’alba. Da allora sono stati copiati, ripetuti, adattati all’infinito. Oggi, nell’epoca della comunicazione per frammenti, nel regno del copia e incolla, La Rochefoucauld continua ad offrire giacimenti inesauribili anche ai bracconieri digitali.
Quando pubblica i suoi aforismi nel 1665, annus mirabilis, Racine ha appena finito l’Andromaca, Molière scrive il Don Giovanni, Bossuet predica a Saint-Thomas del Louvre, La Fontaine pubblica i suoi Racconti, e Poussin muore nella sua amata Roma. Il duca non si appaga del successo immediato. È uso far dono dei suoi aforismi alle persone più care, accompagnandole con biglietti in cui con finta modestia dice che valgono assai meno dei tartufi, ma così facendo li testa, li perfeziona, li smeriglia come un orafo, li aggiorna in quattro altre edizioni, sino a quella definitiva del 1678.
È una vera, sapiente edizione critica delle sue Sentenze e massime morali che tiene conto di tutte queste varianti, e dunque ci conduce direttamente nelle pratiche di laboratorio, quella che ci offre Carlo Carena, einaudiano di lungo corso, e curatore di memorabili edizioni di classici greci, latini e francesi: dalle Vite parallele di Plutarco ai Pensieri e alle Provinciali di Pascal, da un tutto Orazio ai Modi di dire di Erasmo sino al recente La vita felice, selezione dei Moralia di Plutarco. È stato appena festeggiato al Salone del libro per i suoi 90 operosissimi anni, ma il grande regalo lo ha fatto lui a noi (Einaudi, pp. VL-422 con testo originale a fronte e 16 tavole f.t. tratta da dipinti coevi, Euro 80)
In uno scritto che introduce il volume, Jean d’Ormesson, accademico di Francia, ci presenta il duca come «un grande signore cieco che vede la vita in nero» (aveva quasi perso la vista per un colpo di fucile). Ma il pessimista cosmico era soltanto un analista di incredibile e micidiale esattezza, un cecchino che non sbagliava un colpo, un artista della brevitas capace di concentrare interi tomi di riflessioni in due righe (imparino da lui i flebili ossessi di Twitter). Se è crudele e spietato, lo è come può esserlo un chirurgo. Per uno dei tanti paradossi della storia letteraria, in piena età barocca salta fuori un costruttore di lenti che mette a fuoco ustorio tutto quello che preferiamo rimuovere. Da lui discendono per li rami Voltaire, Chamfort (a quando un’edizione italiana di quest’altro grande?), Napoleone (altro coniatore di aforismi in cui brilla lo stesso disincanto), Stendhal, Schopenhauer, Flaubert, giù giù, sino a Nietzsche e Freud. È il primo degli illuministi, un coetaneo di Karl Kraus e di Cioran, un antenato di Ceronetti.
Nel mirino del duca sta la dissimulazione assai poco onesta. Se la vita sociale è teatro, le nostre maschere dicono tutte la stessa cosa: «Le nostre virtù non sono il più delle volte che vizi travestiti». L’unica cosa che ci preme è nutrire il nostro smisurato amor proprio e il nostro egocentrismo, foraggiare i nostri interessi, apparire quello che non siamo. L’amor proprio (e l’invidia sua sorella gemella, «più implacabile dell’odio») sono i satanici strateghi di ogni nostro gesto, anche quello in apparenza più disinteressato.
Darwinista della psiche, La Rochefoucauld ci dice che anche quando crediamo di operare rettamente lo facciamo per qualche nostro utile occulto, magari inconscio. I giansenisti applaudono: se la natura è geneticamente corrotta, l’unica salvezza sta nel dono della grazia. Diderot gli ha dato appunto del «cortigiano giansenista, calunniatore della natura umana» (con l’alta opinione che aveva di sé, è probabile che si sia riconosciuto in qualcuna delle massime). Madame de la Fayette pensava che tutto quel nero di seppia fosse autobiografico, lui negava con un sorriso, come se avesse previsto anche quella reazione di rigetto.
Surfando tra le massime, si ha l’impressione che La Rochefoucauld ci stia osservando con un suo potente telescopio. Ad esempio, coglie a perfezione il clima forcaiolo con relativa gogna mediatica di pronto impiego, in cui viviamo immersi, più rassegnati che indignati. Sentite questa: «La prontezza a credere il male senza averlo esaminato a sufficienza è un effetto dell’orgoglio e della pigrizia. Si vuole trovare dei colpevoli; e non ci si vuol dare la pena di esaminare le accuse».
Il gran virtuoso della malinconia
La Rochefoucauld era pessimista ma con misura: la conversazione lo consolava e apprezzava il capriccio
Le malattie dell’anima sono esplorate palmo a palmo, l’indagine affronta l’amor proprio e finalmente approda alla saggezzadi Pietro Citati Corriere 29.6.15
Françis
de La Rochefoucauld, nato a Parigi nel 1613 e morto a Parigi nel 1680,
era un malinconico. Nel suo bellissimo autoritratto, disse così di se
stesso: «Mi sono studiato abbastanza per conoscermi bene. Per parlare
del mio temperamento, sono malinconico, e lo sono al punto che in tre o
quattro anni mi si è visto ridere sì e no tre o quattro volte…La
malinconia mi pervade in tal modo l’immaginazione e mi occupa così tanto
lo spirito, che per il più del tempo o fantastico senza aprire bocca o
non bado quasi per nulla a ciò che dico. Sono molto chiuso con gli
sconosciuti, né estremamente aperto con la maggior parte di coloro che
conosco». Posseduto da questa malinconia, agì nella prima parte della
sua vita: fu deluso e sconfitto, amaramente e tragicamente; e poi si
ritirò nei salotti di Parigi, insieme ai suoi amici, tra i quali madame
de la Fayette, con cui si abbandonava al conforto e alla gioia della
conversazione. Conversare era per lui, in primo luogo, saper ascoltare:
un’estrema facoltà di attenzione.
Alla conversazione con gli amici, e
a quella conversazione più intima e sconosciuta che teneva con sé
stesso, la Rochefoucauld dovette la sua opera più famosa, un libro che
getta la sua disperata e ironica ombra su tutta la letteratura francese e
su molta letteratura europea: le Sentenze e massime morali , di cui
Carlo Carena ha appena procurato un’eccellente edizione — traduzione
(Einaudi), dove le frasi italiane fronteggiano senza essere sconfitte le
mirabili sentenze francesi. Nos vertus ne sont le plus souvent que des
vices déguisés . Le nostre virtù non sono più delle volte che vizi
travestiti, dichiara l’epigrafe a partire dalla quarta edizione,
annunciando uno dei temi ricorrenti del libro.
La Rochefoucauld crede
nella Provvidenza: «Per quanta instabilità e varietà appaia nel mondo,
vi si mostra tuttavia una certa concatenazione segreta e un ordine
regolato da sempre dalla Provvidenza, che fa sì che ogni cosa procede al
suo posto e segue il corso del suo destino». All’interno del mondo
della Provvidenza, egli sceglie la figura del peccatore, che considera
l’uomo reale, l’unico che egli conosca visibilmente, sebbene mostri una
silenziosa venerazione per l’uomo che vive nella grazia e obbedisce alla
grazia. Ricerca le leggi del regno del peccatore: l’immenso, reale e
fantastico, quotidiano e grandioso, territorio dell’amor proprio a cui
dedica la parte più evidente del suo libro, perché «vi rimangono ancora
molte terre ignote». Il regno dell’amor proprio ha anche un altro nome:
l’interesse che, come l’amor proprio, ha infinite manifestazioni spesso
capovolte. «L’interesse parla ogni sorta di lingua e interpreta ogni
sorta di personaggi, anche quello del disinteressato».
L’amor proprio
suscita in la Rochefoucauld una meravigliosa eloquenza, che si nutre
alla propria fonte, senza esaurirsi mai. «L’amor proprio è l’amore di se
stesso e di ogni cosa per sé: esso rende gli uomini idolatri di se
stessi. Nulla è più impetuoso come i suoi desideri, nulla è nascosto
come i suoi propositi, nulla astuto come i suoi comportamenti… Non si
può sondare la profondità né fendere le tenebre dei suoi abissi. Là è al
coperto degli occhi più penetranti: vi compie mille impercettibili giri
e rigiri». L’amor proprio ha, in primo luogo, una vita inconscia. «Vi
concepisce, vi nutre e vi alleva inconsapevolmente un grande numero di
affetti e di odi; ne forma di così mostruosi, che quando li ha messi in
luce, li disconosce od esita ad approvarli». Ma ha anche una
lussureggiante vita conscia, posseduta da una prodigiosa forza
immaginativa. Alla fine, La Rochefoucauld è spaventato dalla sua stessa
creatura: perché l’amor proprio rende gli uomini più crudeli di quanto
li renda la stessa «ferocia naturale».
Nel regno dell’amor proprio,
la Rochefoucauld scopre una forza, che ha qualcosa di grandiosamente
meccanico: quella del rovesciamento, di cui egli segue i movimenti e gli
spostamenti, come Freud, secoli dopo, seguirà gi spostamenti della sua
meccanica psicologica. «Le passioni ne generano spesso di contrarie.
L’avarizia produce talvolta la prodigalità, e la prodigalità
l’avarizia». «Gli uomini non solo sono soggetti a perdere i ricordi dei
benefici e delle offese: essi odiano persino coloro che li hanno resi
debitori». «Questa clemenza di cui si fa una virtù è praticata talora
per vanità, qualche volta per pigrizia, spesso per timore, e quasi
sempre per tutt’e tre le cose insieme». Così il mondo reale, il mondo
nel quale egli vive e conversa, e noi continuiamo a vivere e conversare,
è quello della maschera, che diventa una forza interna, perché siamo
così abituati a mascherarci agli altri che alla fine ci mascheriamo
anche a noi stessi. Tutti esibiscono una sembianza, per apparire
all’esterno quel che vogliono essere creduti, così che il mondo non è
composto che di infinite sembianze.
Nelle sue esplorazioni la
Rochefoucauld si sofferma su ciò che è più visibile ed evidente: il
mondo del corpo, che ha una corrispondenza continua e incessante con
quello dell’anima. Basta fissare il fisico e si risale al cuore. Ci sono
malattie dell’anima e malattie del corpo: ferite del corpo e difetti
dell’anima; la cicatrice si vede sempre. Tutte le passioni non sono
altro che diversi gradi di calore e di freddezza del corpo. Le malattie
traggono origine dalle passioni e dalle sofferenze dell’animo. Questo
causa, molto spesso, una conseguenza: noi non ci conosciamo: perché
ignoriamo gli umori del corpo, che muovono e volgono impercettibilmente
le nostre volontà: essi esercitano un dominio occulto dentro di noi; e
hanno una parte considerevole in tutte le nostre azioni, senza che lo
sappiamo. Dovunque la Rochefoucauld volge il suo sguardo lucidissimo, la
luce della realtà si spegne rapidamente davanti a lui, che scorge
soltanto tenebre.
L’esplorazione di La Rochefoucauld continua ad
estendersi: sempre più lontano, sempre più lontano, nel ristretto e
immenso regno dell’amor proprio. Più vede, più la difficoltà di vedere
sembra accrescersi, perché nel cuore di ogni persona ci sono infinite
contraddizioni: molte più di quante ne può inventare l’immaginazione;
talvolta si è tanto diversi da se stessi quanto dagli altri. Un
individuo può avere molte verità: un altro soltanto una: quello che ha
molte verità è più pregevole; e nella vita deve osservare lo stesso
equilibro che osservano, nella musica, le varie voci e i vari strumenti.
Col
procedere dello sguardo, il pessimismo delle Sentenze aumenta. Ecco
l’invidia: questa passione timida e ignobile, che non osa mai confessare
se stessa; un vero delirio, che dura sempre più a lungo della felicità
di coloro che spia. Ecco la vanità tremenda e spregevole: mentre le
passioni più violente ci lasciano qualche volta una tregua, essa ci
agita sempre, unica, ossessiva, attraverso tutte le forme che assume.
Ecco l’inganno, che viene disprezzato come segno di un intelletto
piccolo o mediocre. E la malvagità, che domina l’uomo e non gli lascia
via di fuga: «Solitamente si fa del bene per poter fare impunemente del
male». «Ci sono dei cattivi che sarebbero meno pericolosi se non
avessero affetti buoni». C’è infine la grande malvagità, che spesso è
propria degli uomini grandi; e per essi la Rochefoucauld nutre una
profonda ammirazione.
C’è un’oasi, per la quale la Rochefoucauld
nutre una specie di tenerezza: il mondo volatile e libertino del
capriccio, «ancora più bizzarro di quello della fortuna». È il mare
enorme dei temperamenti leggeri e frivoli: temperamenti incostanti, per
incostanza, leggerezza, amore, curiosità, tedio e disgusto; essi stanno a
metà, senza avere difetti né qualità solide. Qui trionfa l’ esprit , la
galanteria dell’intelletto. Per loro le Sentenze provano un divertito
disprezzo. La Rochefoucauld gioca deliziosamente, rinunciando ai toni
alti e superbi. Ecco le immagini spiritose, spesso di prodigiosa
eleganza. «I vecchi amano dare precetti, per consolarsi di non essere
più in grado di dare cattivi esempi».
Avremmo torto a vedere nelle
Sentenze soltanto il sistema dell’amor proprio. La Rochefoucauld
possiede un’immensa fantasia; e a un certo punto, la sua creazione gli
sembra piccola, ed egli si eleva sempre più in alto. «Coloro che si
applicano troppo alle piccole cose, di solito diventano incapaci delle
grandi», dice, certo pensando al suo libro. Se ci sono i falsi, gli
uomini con la maschera, ci sono anche — e non importa che siano pochi — i
sinceri. Il loro è il regno della grandezza dello spirito, chiamato
giudizio: «Il giudizio non è che la grandezza del lume dell’intelletto:
questo lume penetra al fondo delle cose, vi rileva tutto ciò che bisogna
rilevare e percepisce quelle che sembrano impercettibili».
Con quale
rilievo ed esaltazione, egli sottolinea la grandezza del lume
dell’intelletto: lo stesso lume che illumina la totalità delle Sentenze .
Nelle Riflessioni diverse insiste. Le conoscenze del grande intelletto
sono sterminate, agisce sempre nello stesso modo e con la stessa
alacrità, distingue gli oggetti lontani come fossero presenti, capisce,
immagina le più grandi cose, vede e conosce le più piccole: i suoi
pensieri sono elevati, vasti, giusti e comprensibili. Nulla sfugge alla
sua perspicacia. Egli dice tutto ciò che occorre, e non dice se non ciò
che occorre. Fa intendere in poche parole molte cose, mentre gli spiriti
piccini hanno il dono di parlare molto senza dire nulla.
La
grandezza del lume dell’intelletto ha molti nomi, che non ne esauriscono
i limiti. Il coraggio: «L’intrepidezza è una forza straordinaria
dell’animo, che lo innalza al di sopra dei turbamenti, degli scompigli e
delle emozioni; ed è grazie a questa forza che gli eroi si mantengono
in uno stato tranquillo». La fierezza: «L’orgoglio, come stanco dei suoi
artifici e delle sue diverse metamorfosi, dopo aver interpretato lui
solo i personaggi della commedia umana, si mostra con un volto naturale,
ci si scopre con la sua fierezza, per cui, propriamente, la fierezza è
la manifestazione e la liberazione dell’orgoglio». Sopratutto i disegni e
i propositi: le grandi anime non sono quelle che hanno meno passione e
più virtù delle anime comuni, ma semplicemente quelle che hanno più
grandi disegni. Nel sistema dell’amor proprio, il coraggio, la fierezza,
e i disegni e i propositi venivano ricondotti, come maschere, a vizi
che occultavano. Qui, invece, queste facoltà dell’animo valgono per se
stesse, riportate al loro modello eroico.
L’amore occupa il colmo
dell’animo. È molto difficile definirlo. Si può dire — così la
Rochefoucauld si avvicina al suo tema — che nell’animo esso è una
bramosia di dominio: negli spiriti un’affinità; e nel corpo un desiderio
nascosto e sottile di possedere ciò che si ama dopo tanti misteri. Poi
le Sentenze compiono un passo terribile: se giudichiamo l’amore dalla
maggior parte dei suoi affetti, assomiglia più all’odio che
all’amicizia; «più si ama un’amante, e più si è prossimi ad odiarla».
Infine la costanza, che dovrebbe sostenere l’amore, si dissolve in
incostanza. La costanza in amore è un’incostanza perenne, per cui il
nostro cuore si attacca incessantemente a tutte le qualità delle persone
amate, dando la preferenza ora a questo ora all’altro; sicché questa
costanza è un’incostanza ristretta e racchiusa in un medesimo soggetto.
Il
tentativo di avvicinarsi all’amore non ha fine. Ora è una febbre; e non
abbiamo alcun potere né sulla febbre né sull’amore, sia per la loro
violenza, sia per la loro durata. Ora è come il mare: l’amore che si
estingue e muore è simile a quelle lunghe bonacce, a quelle calme e
tediose che si incontrano all’equatore: stanchi di un lungo viaggio
aneliamo a concludere; scorgiamo la terra, ma manca il vento per
raggiungerla: le malattie e i languori impediscono di agire: l’acqua e i
viveri mancano: siamo stanchi di tutto ciò che scorgiamo; stiamo sempre
sugli stessi pensieri e siamo sempre tediati. Ma attraverso tutte le
metamorfosi e le trasformazioni, l’amore ci dimostra ogni giorno di
esistere; e di essere una grande passione, che occupa il centro della
nostra vita e del nostro cuore, avvolgendo come un alone il lume
dell’intelletto. «L’amore, da solo, ha creato più male che tutto il
resto insieme; ma poiché procura anche i più grandi beni della vita,
anziché maledirlo, si deve tacere; e lo si deve temere e rispettare
sempre». L’amore si chiude così, nel silenzio.
Intorno al culmine del
cuore, sta una facoltà misteriosa, che non possiamo chiamare che
follia. Essa ci accompagna in ogni tempo della vita. Infine fa un balzo:
nasce dalla più sottile saggezza, e costituisce l’essenza stessa della
saggezza. «Invecchiando si diventa più folli e più saggi».
La
Rochefoucauld è maestro in tutti gli stili: non solo nel fulgore rapido e
istantaneo della sentenza, ma nella prosa diffusa e costruita che
eccelle nelle Riflessioni diverse , le quali discorrono del vero, della
società, della conversazione, della confidenza, della gelosia ma anche
di un personaggio straordinario e impossibile come Alessandro Magno,
«modello di elevazione d’animo e di grandezza d’ardimento». Dovunque,
non solo nelle Sentenze , la prosa tende alla concentrazione e alla
sintesi. La Rochefoucauld si abbandona al suo mirabile istinto
analitico: distingue e ancora distingue e sottodistingue; poi costruisce
massime abbaglianti e misteriose, che talora comprendono la ricchezza
nascosta di un racconto, colpiscono la nostra anima e ci inducono a
fantasticare.
La forza delle Massime del frondista sconfitto
Esce in una nuova edizione l’opera del duca di La Rochefoucauld una raccolta dalla straordinaria penetrazione psicologica e dallo stile elegante
BENEDETTA CRAVERI Repubblica 4 10 2015
Sono passati oltre tre secoli e mezzo da quando il duca di La Rochefoucauld aveva dato alle stampe le sue Massime , eppure «l’impassibile arciere», come lo chiamava Giovanni Macchia, continua a centrare il bersaglio, cogliendoci di sorpresa e costringendoci a rimettere in gioco le nostre certezze di figli della psicanalisi. Ad offrircene una nuova occasione è oggi la bella edizione che Carlo Carena ha curato per Einaudi e che merita davvero molti lettori. A conferire alle 504 massime che compongono la raccolta la loro permanente attualità non è certo l’originalità dell’assunto: «le nostre virtù non sono il più delle volte che vizi travestiti ». A dispetto della marcia trionfale del Grand Siècle, il pessimismo era un sentimento assai diffuso nella Francia di Luigi XIV. La sconfitta della Fronda nel 1653 e il trionfo dell’assolutismo avevano infatti segnato il tramonto definitivo dell’eroismo aristocratico e i nobili si erano rassegnati a fare i cortigiani. Mentre una nuova morale – quella dell’honnêteté – insegnava l’arte di adattarsi con buona grazia al principio di autorità ed invitava ad esercitare la propria libertà di giudizio solo nel segreto della coscienza, il giansenismo offriva all’aristocrazia in crisi una nuova forma di primato: l’eroismo della rinunzia. Dal canto suo, La Rochefoucauld lottò per ritrovare a corte un posto rispondente al suo rango, facendo dello smascheramento dell’amor proprio e dell’egoismo – sorgente avvelenata di tutte le passioni umane – la chiave di volta delle sue Massime . Per armarle di una forza magnetica, il duca non ebbe bisogno di ricorrere alla religione, gli bastò portare all’estremo punto di perfezione due dei maggiori atout della cultura aristocratica: la straordinaria penetrazione psicologica capace di sondare anche i «pensieri non pensati» e l’eleganza dello stile.
Nate come gioco di società, le massime di La Rochefoucauld non hanno nulla di sentenzioso, ma mirano a provocare, scandalizzare, divertire il lettore. Ma se «il vero gentiluomo è colui che non si picca di nulla» (massima 203), La Rochefoucauld fu il primo ad entrare in contraddizione con il suo personaggio. Da gran signore qual era non si degnò di firmare le sue Massime , ma questo non lo immunizzò dal demone dell’ambizione letteraria. Per garantire il successo del libro, il duca mise a punto il primo lancio publicitario dell’editoria moderna. Iniziò facendo leggere il manoscritto alle amiche più influenti, si munì di una prefazione che lo assolveva dall’assenza di qualsivolglia allusione alla morale cristiana, orientò la critica e mise a punto cinque edizioni delle sue Massime perfezionandone lo stile. Mai successo doveva rivelarsi più meritato: il frondista sconfitto aveva trovato la sua rivalsa scrivendo un capolavoro destinato ad attraversare vittoriosamente i secoli.
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