martedì 26 maggio 2015
L'ultima offensiva nazista nella Seconda guerra mondiale
Antony Beevor: Ardenne. L'ultima sfida di Hitler, Rizzoli
Risvolto
Nel dicembre del 1944, in una vera e propria scommessa per costringere gli Alleati a chiedere la pace, Adolf Hitler ordinò la più grande controffensiva tedesca della Seconda guerra mondiale nello scacchiere europeo occidentale.
Un’iniziativa spericolata e pericolosissima con obiettivo Anversa, passando attraverso le Ardenne. Messi duramente alla prova, molti soldati americani disertarono o si arresero, altri resistettero eroicamente rallentando l’avanzata del nemico, in un teatro di guerra in cui uomini e natura rivaleggiarono in ferocia e crudeltà. Avvalendosi degli studi più recenti e obiettivi, Antony Beevor ricostruisce in queste pagine appassionate una delle battaglie simbolo della Seconda guerra mondiale, il colpo di coda di Hitler.
Giorni d’ansia sulle Ardenne
Dicembre 1944: le rivalità tra gli alleati favorirono l’ultima offensiva nazista
di Paolo Mieli Corriere 26.5.15
Nei giorni di fine dicembre 1944, in una Parigi li berata da appena
cinque mesi, all’improvviso l’atmosfera si fece cupa. La sera del 17
Mary Welsh tornò tardi nella stanza dell’hotel Ritz in cui abitava con
il suo amante Ernest Hemingway. Gli riferì di essere stata a cena con il
comandante delle forze aeree alleate, il tenente generale «Tooey»
Spaatz, di aver assistito a un andirivieni di aiutanti che portavano
messaggi urgenti, di averlo visto impallidire e di aver avuto
l’impressione che le cose per gli angloamericani si mettessero male.
Molto male. Racconta Carlos Baker — in Hemingway. Storia di una vita
(Mondadori) — che il giorno successivo, di buon mattino, l’autore di Per
chi suona la campana telefonò al fratello Leicester e gli annunciò:
«C’è stato un completo sfondamento!». Per poi aggiungere: «Questa cosa
potrebbe costarci tutto. Le loro forze corazzate stanno dilagando. Non
fanno prigionieri … Riempi quei caricatori; pulisci bene ogni
cartuccia». Loro erano i tedeschi. Hemingway non fu il solo a pensare
che, proprio nel momento in cui appariva sul punto di crollare, Adolf
Hitler si fosse ripreso e addirittura fosse stato in grado di sferrare
contro inglesi e americani una controffensiva mortale. Ed è a questa
controffensiva che è dedicato Ardenne, un prezioso libro di Antony
Beevor edito da Rizzoli.
Alla fine dell’estate di quel 1944 sembrava che i giochi fossero ormai
fatti: ai primi di giugno gli Alleati erano sbarcati in Normandia, il 20
luglio era fallito per un pelo il complotto contro Hitler ordito da
Claus von Stauffenberg, il 25 agosto gli eserciti liberatori erano
entrati a Parigi. Tutti a quel punto ritenevano che entro poche
settimane, massimo la fine dell’anno, la guerra si sarebbe conclusa con
la definitiva sconfitta dei nazisti. Così Parigi divenne la meta per i
soldati americani (diecimila ai primi di settembre) in cerca di una
licenza ristoratrice. Pigalle, racconta Beevor, fu ribattezzata «Pig
Alley», il «vicolo del porco», dove le prostitute, in gran parte
occasionali, si offrivano per cinque dollari. Nel corso di quell’anno,
«il tasso di diffusione delle malattie veneree nel teatro di operazioni
europeo raddoppiò, e oltre i due terzi delle infezioni contratte in
Francia furono prese a Parigi». I soldati «pareggiavano le spese in
alcol e ragazze comprando stecche di Chesterfield, Lucky Strike e Camel a
50 centesimi per poi rivenderle a 20 dollari. Disertori americani si
unirono alle bande criminali locali; i profitti ricavati dalla benzina
rubata all’esercito erano talmente alti che perfino i trafficanti di
droga vollero entrare in questo nuovo mercato. Sparì la metà delle
taniche giunte nell’Europa continentale. L’inasprimento delle pene,
«l’aggiunta di sostanze coloranti per rendere la benzina più tracciabile
e numerosi altri tentativi messi in atto dalle autorità americane per
contrastare queste forme di malavita non riuscirono ad intaccare un
traffico che veniva ad aggravare ulteriormente il problema dei
rifornimenti al fronte». Anzi. Alcuni soldati aiutavano gruppi di
gangster che fermavano i treni su una curva, in modo che gli uomini
della polizia militare incaricati di vigilare contro i furti — che
stavano all’estremità del treno — non potessero vederli mentre
scaricavano carne, caffè, sigarette, coperte e cibi in scatola. 180
ufficiali e soldati furono arrestati e condannati per questo genere di
attività. Nel giro di un mese sparirono 66 milioni di pacchetti di
sigarette.
Marlene Dietrich, che si trovava in Francia per intrattenere le truppe
americane, divenne il simbolo di questa dolce vita parigina. Il generale
George Patton si invaghì di lei e le regalò un set delle sue celebri
pistole con l’impugnatura in madreperla. La Dietrich accettò
malvolentieri un invito del generale Omar Bradley e si innamorò, invece,
del maggior generale dei paracadutisti Jim Gavin. Gli inglesi
protestavano. Per i britannici la meta delle licenze era Bruxelles e
quelli (tutti) che, ovviamente, avrebbero preferito Parigi, sostenevano
che la loro soddisfazione nella capitale belga era pari a quella che si
può avere «prendendo un tè con la sorella della ragazza di cui si è
innamorati». Tutta questa rilassatezza era giustificata dalla sensazione
che i nazisti, assediati ad Est dai russi, fossero in procinto di
cedere.
E invece gli Alleati dovettero prima affrontare grandi difficoltà nella
foresta di Huertgen, a sud-est di Aquisgrana. Per poi rischiare di
perdere tutto, ma proprio tutto, su quello stesso massiccio delle
Ardenne che aveva visto i tedeschi sfondare sia nel 1914, sia nel 1940.
La controffensiva tedesca delle Ardenne iniziò a dicembre. La speranza
di Hitler, scrive S.P. MacKenzie in La Seconda guerra mondiale in Europa
(Mulino), era quella di raggiungere Anversa, tagliando i rifornimenti
alle armate alleate. E all’inizio gli americani furono travolti. Così
quelle settimane furono per gli Alleati un autentico inferno. Le
difficoltà erano terribili e la pioggia incessante. L’8 dicembre Patton
telefonò al cappellano della Terza armata, James O’Neill, chiedendogli
una preghiera speciale per far tornare il bel tempo. O’Neill non ne
trovò e decise di scriverne una che il generale fece stampare in 250
mila esemplari pretendendone la recita da parte di tutti i soldati. La
pioggia cessò, ma le cose per gli Alleati non si misero meglio e in
prossimità di Natale si intravide la catastrofe. I tedeschi sembravano
nuovamente invincibili.
Si diffuse la psicosi delle infiltrazioni di nazisti travestiti da
americani che si sarebbero aggirati tra i soldati per confonderli.
Furono istituiti posti di blocco in cui i sospettati venivano
interrogati sul baseball, sul nome del cane di Roosevelt, su quello del
nuovo marito di Betty Grable. In molti furono presi in contropiede. Il
brigadiere generale Bruce Clarke fu tratto agli arresti per mezz’ora. E
così anche il generale Bradley, che diede un risposta imprecisa sulla
capitale dell’Illinois. L’attore David Niven rischiò di essere passato
per le armi perché non sapeva chi aveva vinto le World Series, le finali
del campionato di baseball, nel 1940 (se la cavò in extremis tirando
fuori una foto del 1938 che lo ritraeva accanto a Ginger Rogers).
Hitler in quei giorni di metà dicembre manifestò una contenuta euforia.
Quella dei suoi connazionali fu, invece, un’esplosione di gioia senza
alcun trattenimento. «L’offensiva d’inverno sulle Ardenne, del tutto
inaspettata, è il più bel regalo di Natale per il nostro popolo; allora
possiamo ancora farcela!», scrisse un ufficiale di stato maggiore del
gruppo d’armate dell’Alto Reno.
L’aspetto interessante del saggio di Beevor è di non essere un libro
d’esposizione di vicende militari, ma di essere dedicato in gran parte a
cosa è che può compromettere una vittoria nel momento stesso in cui la
si sta per cogliere. Nel caso in questione, dal momento della
liberazione di Parigi erano venute a galla tutta una serie di gelosie e
ripicche tra alti ufficiali che avevano compromesso il clima tra di loro
e rischiavano di mettere in forse la stessa vittoria.
Passi per Charles de Gaulle, il generale che si era messo alla guida
della Resistenza già nel giugno del 1940 e adesso reclamava subito i
titoli di condottiero della Francia liberata. Solo la saggezza e la
pazienza del comandante in capo di tutte le truppe alleate, Dwight D.
Eisenhower (che, per queste doti, sarà compensato negli anni Cinquanta
con la presidenza degli Stati Uniti) riuscirono a evitare che queste
ripicche degenerassero in una rottura. Ad esempio quando Eisenhower
definì — per evidenti motivi diplomatici — l’inglese Bernard Montgomery
«il più grande soldato vivente», il generale americano Patton si disse
«schifato» e cercò di coinvolgere nelle rimostranze il collega Bradley. E
non ebbe pace finché Eisenhower, il 21 settembre, definì Montgomery,
sia pure in privato, «un astuto figlio di puttana». Montgomery, a sua
volta, protestò quando Eisenhower non ordinò a Patton di fermarsi, sia
pure in un’offensiva che sarebbe stata coronata da successo. Si disse
anche scandalizzato dell’usanza dello stesso Patton di regalare
champagne ai piloti che portavano carburante alla sua armata (bottiglie
che facevano parte di uno stock di cinquantamila casse del pregiato vino
da lui «liberate» in quell’estate del 1944). E quando Eisenhower —
sempre per garantire gli equilibri ai vertici delle forze armate
liberatrici — decise di trasferire a Montgomery il comando di due
armate, Bradley (in quello che Beevor definisce uno «stato d’animo
sempre più paranoico») reagì con stizza: «Dio santo, Ike, non posso più
essere responsabile davanti al popolo americano se fai questa cosa …
Rassegno le mie dimissioni», disse in un moto di stizza. Dimissioni che
furono respinte da Eisenhower e per giunta con toni molto irritati.
Dopodiché il comandante in capo dovette affrontare Montgomery, il quale
gli disse che Bradley non aveva fatto altro che «combinare pasticci» e
che «l’avanzata verso il Reno sarebbe fallita» se lui, Monty, non avesse
avuto «il pieno comando operativo di tutte le armate a nord della
Mosella». Poi, nei giorni in cui il generale Courtney Hodges ebbe un
crollo nervoso, Bradley tornò alla carica, asserendo che Montgomery
ingigantiva i pericoli dell’ultima offensiva nazista per trarne
vantaggi. Infine Eisenhower si trovò a dover difendere Bradley
dall’accusa di essersi fatto cogliere di sorpresa sulle Ardenne.
Completamente diverso, ma non meno grave, il caso di Patton, che si
scontrò più volte con il comandante in capo che gli rimproverava la sua
«ansia di attaccare frontalmente». Sempre e comunque. Finché, il 24
dicembre, Patton si vide costretto ad ammettere nel suo diario: «È stata
una bruttissima vigilia di Natale, lungo tutta la nostra linea abbiamo
subito violenti contrattacchi, uno dei quali ha costretto la Quarta
corazzata ad arretrare di qualche chilometro con la perdita di dieci
carri… Probabilmente è stata colpa mia perché ho insistito su attacchi
diurni e notturni».
Quando poi le cose per gli Alleati si misero meglio, sulla stampa
britannica iniziarono a comparire articoli secondo i quali Montgomery
aveva salvato gli americani e doveva essere nominato comandante in capo
delle forze di terra. Bradley perse nuovamente le staffe, anche perché
nel tradizionale sondaggio di «Time» sull’uomo dell’anno, Patton si era
classificato al secondo posto dietro Eisenhower, mentre lui non era
stato nemmeno preso in considerazione. Il controspionaggio tedesco capì
che si trattava di un’occasione d’oro per mettere zizzania tra i nemici e
diffuse su una lunghezza d’onda della Bbc un servizio in cui si diceva
che, se la battaglia delle Ardenne volgeva al meglio per gli Alleati, il
merito era tutto di Montgomery. I soldati statunitensi, che erano
impegnati nell’operazione in proporzioni incommensurabilmente maggiori
di quelle degli inglesi, abboccarono e reagirono con risentimento.
Eisenhower confidò in seguito a Cornelius Ryan di considerare Montgomery
«uno psicopatico».
Dovette intervenire il primo ministro inglese Winston Churchill, il 10
gennaio del 1945, per stigmatizzare il fatto che si stesse recando «una
grave offesa ai generali americani» e per precisare che gli Stati Uniti
avevano «perso forse sessantamila uomini e noi due o tremila» (le
perdite effettive furono 75.482 per gli Usa con 8.407 morti e 1.408 per
la Gran Bretagna di cui 200 uccisi). Successivamente in un discorso alla
Camera dei Comuni, il 18 gennaio, Churchill ritenne di aggiungere che
«le truppe degli Stati Uniti si sono sobbarcate quasi tutto lo scontro e
hanno subito quasi tutte le perdite». Per poi dire nella maniera più
chiara: «Bisogna stare attenti, nel narrare con orgoglio la nostra
storia, a non rivendicare per l’esercito britannico un contributo
eccessivo in quella che è indubbiamente la più grande battaglia
americana della guerra, e che sarà, credo, per sempre considerata una
celebre vittoria degli Stati Uniti».
In effetti, ha scritto Rick Atkinson nel minuziosissimo libro Una guerra
al tramonto (Mondadori), «la battaglia delle Ardenne, per la vastità e
la violenza allo stato puro, fu diversa da qualsiasi altra mai
combattuta nella storia americana, e ineguagliata anche negli anni
successivi». Il tutto si risolse però, secondo Beevor, in una «sconfitta
politica per i britannici», dal momento che alimentò una «diffusa
anglofobia negli Stati Uniti, e in particolare tra gli alti ufficiali
americani in Europa». Hitler fu il primo ad accorgersi che la sua
offensiva era fallita. Già il 26 dicembre, a tarda sera, confidò al suo
aiutante della Luftwaffe, il colonnello Nicolaus von Below, l’intenzione
di togliersi la vita. Poi però cambiò idea. «So che la guerra è persa»,
disse, «sono stato tradito… ma non capitoleremo mai; possiamo anche
affondare, ma trascineremo il mondo con noi». E la guerra,
effettivamente, durò altri quattro mesi.
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