martedì 26 maggio 2015
L'utopia di internet finisce anche per la sinistra italiana, con qualche ritardo
Benedetto Vecchi: La rete dall’utopia al mercato, ecommons-manifestolibri, pp. 173, euro 16
Risvolto
Megafono dei movimenti o strumento del controllo statale sulla vita dei cittadini? Regno della partecipazione libera e della politica “dal basso”, o terra di conquista delle grandi corporazioni digitali? Luogo di una cooperazione sociale autonoma e della produzione collettiva di conoscenza o grande serbatoio di dati e informazioni al servizio di un mercato intento a monitorare e sfruttare ogni aspetto e ogni dettaglio delle nostre vite?
L’autore ripercorre attraverso l’esame di una vasta letteratura le diverse interpretazioni che della rete hanno dato nel corso degli anni filosofi, sociologi, specialisti del mondo digitale, mediattivisti, mettendo in luce le ambivalenze, i conflitti, le tensioni che hanno attraversato la storia di Internet.
Lo scopo di questa indagine è però soprattutto quello di illuminare la relazione tra il mondo virtuale e quello reale, per dimostrarci che non vi è più un dentro e un fuori, ma una cultura, un modo di vita e di produzione, nel quale i confini tra lo schermo e il mondo che lo circonda sono sempre più aleatori. Ed è proprio questo intreccio a costituire oggi il teatro obbligato del nostro agire.
Il regno perduto della libertà on line
Codici aperti. Un diario di viaggio nel cyberspazio e una lettura critica sul laboratorio dove hanno preso forma le trasformazioni che hanno investito il capitalismo contemporaneo. «La rete. Dall’utopia al mercato», un saggio di Benedetto Vecchi
Tiziana Terranova 26.5.2015
Gilles Deleuze, si sa, considerava i giornalisti che scrivono libri, come uno dei segni più nefasti della decadenza dei tempi. In un certo senso, la sua diagnosi è stata anche confermata e superata dalla tendenza contemporanea che vede libri scritti da giornalisti come Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo e Bruno Vespa raggiungere le cime delle classifiche dei best seller. Si tratta spesso di libri che raccontano delle storie che sebbene i dettagli cambino, restano sempre le stesse, che contribuiscono a consolidare un ordine del discorso già dato (la legalità, la casta, il potere). Deleuze, però, non sarebbe sicuramente indignato dal volume La rete dall’utopia al mercato (ecommons-manifestolibri, pp. 173, euro 16) di Benedetto Vecchi, giornalista di una testata libera come il manifesto, e in particolare giornalista culturale che negli anni ha seguito con costanza l’evoluzione delle tecnologie di rete, vedendo appunto la rete scivolare inesorabilmente «dall’utopia al mercato».
All’apparenza anche questa potrebbe sembrare una storia scontata. Nel titolo del volume, troveremmo condensata tutta la parabola discendente della breve storia della Rete a quella di un paradiso perduto, in cui l’utopia si fa brutalmente commercio, consumo, scambio, accumulazione, alienazione, controllo, e sfruttamento. E purtuttavia nello spazio che si dispiega tra il titolo e la serie di saggi che compongono il volume, questo slittamento dall’utopia al mercato lungi dal risolversi in una storia banale, si rivela essere pieno di pieghe e di sfumature inattese, che si aprono anche alla possibilità che la rete possa tornare ad essere non tanto utopia quanto un potente mezzo di rovesciamento dei rapporti di forza.
Le pieghe che compongono il volume sono letteralmente altri libri, o comunque saggi. C’è qualcosa di affascinante nel vedere come il pensiero del giornalista, e in particolare quello del giornalista-recensore di una testata militante come il manifesto, attraverso la pratica della recensione, si dispieghi correndo letteralmente tra i libri e nei libri, selezionando, forse anche attraverso la sua frequentazione di mailing list di nicchia, nella marea montante di volumi su Internet, i saggi più significativi, per raccontare la trasformazione di Internet «da utopia a mercato» al di là dei luoghi comuni, in maniera critica, ma allo stesso tempo rigorosa, curiosa e ambivalente. Un libro fatto, come tutti i libri in fondo, di altri libri, sostenuto e nutrito dalla pratica della recensione, che però non rinuncia alla propria prospettiva.
Il nodo dello sfruttamento
È chiaro infatti come l’autore attraversi questo fiume di parole che si sono riversate sulla rete mantenendo ferma la propria bussola e il proprio orientamento intellettuale e politico. Centrale è l’importanza di continuare ad insistere sulla critica dell’economia politica della rete, di sottolineare la propria differenza da prospettive liberali e libertarie, anarco-capitaliste o neo-keynesiane, continuando ad aderire ad una prospettiva marxista, plurale e aperta, liberata da qualsiasi dogmatismo, ritradotta in una revisione degli strumenti dell’analisi marxiani che tenga conto delle trasformazioni del modo di produzione e di una sempre necessaria reinvenzione delle categorie usate per cogliere la relazione tra sfruttamento ed emancipazione. Nel volume questa analisi si materializza nell’intuizione, sviluppata in una ibridazione feconda tra critica della rete e dell’economia politica, da un lato sulla coesistenza di controllo sociale e sfruttamento economico, e dall’altro sulle dinamiche di creazione di valore e ricchezza nella cooperazione sociale.
Allora nello slittamento dalla rete in quanto utopia di un nuovo spazio che introduce una differenza radicale rispetto alla realtà (esemplificato dalla «Dichiarazione di independenza del ciberspazio» di John Perry Barlow) alla connessione costante delle «realtà miste» della comunicazione ubiqua e mobile, è il termine «mercato» a pesare di più. Internet è ormai mercato e fabbrica, un mondo soggetto alle leggi dello scambio, dello sfruttamento e della valorizzazione economica. E purtuttavia questo rovesciamento non produce solo una nuova schiavitù, ma una situazione nuova che corrisponde allo slittamento del centro della produzione economica verso l’innovazione, dove l’innovazione stessa non è il monopolio dell’imprenditore alla Steve Jobs, ma un prodotto della socializzazione, e quindi della traduzione continua di conoscenze tacite in conoscenze formali (algoritmi, protocolli, interfacce, applicazioni), della scomposizione e ricomposizione innovativa dei flussi di conoscenza e informazione. La trasformazione della rete in mercato è il segno di una trasformazione sociale ed economica in cui è la cooperazione sociale e il suo prodotto, l’innovazione, a rappresentare la fonte del valore economico, la forma del lavoro vivo postindustriale.
Interlocutore fondamentale in questa rilettura è il peso e la mole degli scritti di matrice liberale, libertaria e anarcocapitalista, prevalentemente statunitensi, che costituiscono un discorso egemone sulla rete in quanto nuova tecnologia di produzione. La tensione che questo saggio stabilisce è dunque con un discorso teorico (quello liberale) che pur teso a comprendere le novità introdotte dalla rete in quanto mezzo di produzione e comunicazione inesorabilmente tende anche a presentare Internet alla luce delle categorie e concetti dell’economia neo-classica. Allora anche i saggi di un autore come Yochai Benkler, teorico della produzione sociale e p2p, possono essere letti come traduzione di una novità eccedente (la cooperazione sociale che produce il software open source, Wikipedia, i contenuti delle piattaforme di social networks), nel linguaggio rassicurante delle scelte razionali e motivazioni individuali coordinate da una «mano invisibile» del sociale. È questa una interpretazione influente dell’economia peer-to-peer per cui quest’ultima, pur fondando un nuovo modo di produrre, non sfida le leggi fondamentali dell’economia (la legge del costo marginale per esempio).
Oltre la distopia
Il volume attraversa dunque una molteplicità di saggi ed analisi sulla rete, considerando di ogni analisi gli elementi preziosi, ritornando costantemente alla necessità di pensare alla relazione tra controllo e sfruttamento da una parte e innovazione e emancipazione dall’altra. L’unico genere di letteratura critica su Internet con cui Vecchi comprensibilmente mostra impazienza è forse il genere che possiamo definire «distopico», il rovesciamento dell’utopia, i detrattori di Internet che vedono la rete come luogo di sorveglianza totale, massificazione della produzione culturale, perdita degli standard qualitativi della cultura e simili. Non c’è ritorno possibile neanche ad una soggettività operaia incentrata sul lavoro di fabbrica che per alcuni sarebbe il luogo in cui ritrovare il centro di gravità permanente ma perduto della politica comunista. Il lavoro vivo ai tempi della rete è multiforme e proteico; non è la divisione del lavoro nella fabbrica che ci dà la classe in grado di rifondare il comunismo, ma l’evento della cooperazione sociale che produce invenzione e la valorizza.
In questo senso, La rete dall’utopia al mercato forza continuamente i limiti dell’economia politica, anche marxiana. La domanda fondamentale che ritorna nel volume è dunque questa: qual è la logica immanente della produzione di valore nella cooperazione sociale così come svelata dal mercato/fabbrica Internet e come è possibile pensare ad una sua emancipazione considerando l’intensità di questo sfruttamento economico che prende le forme di un controllo sociale opaco e automatizzato? Quali sono i limiti che l’organizzazione di questo lavoro proteico e multiforme (militarizzato, precario, servile, schiavista, «libero», volontario o cooptato) una volta che esso cerca effettivamente di spingersi oltre la produzione verso l’organizzazione politica?
La trappola del dono
Il primo limite, che è analitico, si concentra attorno all’opposizione tra la «monade» postulata dall’analisi neoclassica della produzione sociale, cioè l’individuo proprietario come soggetto razionale della scelta, e l’«individuo sociale» di matrice marxiana. Che significa porre non l’individuo proprietario, ma l’individuo sociale come soggetto della cooperazione sociale? Vecchi incontra qui i limiti della saggistica sulla cooperazione sociale in Internet, che si è avvitata rispetto alla categoria antropologica di dono. La logica della cooperazione sociale sarebbe dunque quella del dono, ma è possibile ridurre la cooperazione sociale allo scambio di doni? È la teoria del dono uno strumento sufficiente a rendere conto della relazione tra costruzione di «società» (collettivi, gruppi, reti), invenzione di valori etici, culturali, estetici, politici e produzione di valore economico? In secondo luogo, il limite empirico delle forme di resistenza e organizzazione politica dati nella rete. Gli anonymous, le cosiddette «primavere» arabe, wikileaks e altri fenomeni di organizzazione politica in rete sembrano essere condannate a differenza degli esperimenti di produzione economica a essere eventi effimeri, senza durata in grado di incidere a lungo termine sui processi politici. Tra l’espropriazione del comune della cooperazione sociale e la sua riappropriazione, la rete emerge come tecnologia sociale attraversata da una tensione ambivalente e costituente: «misura della miseria del presente e spazio per quella ricchezza del possibile senza la quale è inimmaginabile una politica radicale della trasformazione».
Glauco Benigni: Tutto è nella Rete. La Rete è nel tutto, GoWare
Codici aperti
I tre volumi della serie «Web Nostrum» di Glauco Benigni per la casa editrice on line GoWare
Vincenzo Vita il Manifesto 26.5.2015
Da qualche tempo sono disponibili tre dei quattro volumi di Glauco Benigni (giornalista, mediologo, «veggente») della serie Web nostrum, pubblicati dalla Casa editrice fiorentina «GoWare», sia in versione ebook, sia print on demand. Si inseriscono, con notevole originalità, in una ormai vasta pubblicistica sui temi e sulle suggestioni offerti dalla Rete, troppe volte divisa — al solito — tra apocalittici e integrati. I materiali suggeriti alla riflessione da Benigni evocano, al contrario, una «terza via» fertile e interessante: la critica dell’economia politica del capitalismo digitale. Per entrare nelle logiche che presiedono ad un mondo reale da interpretare con canoni scientifici.
Non siamo di fronte ad estasianti fuochi di artificio o all’esibizione del circo tecnologico, con cui talvolta sembra travestirsi la retorica gattopardescamente nuovista. E neppure, guai, a chissà quali rischi per i fruitori (soprattutto giovani) assai più smaliziati del pubblico passivo della vecchia televisione. Anzi «prosumer» (produttori e consumatori nello stesso tempo). È in corso un «addomesticamento sociale» (Pasquali, Scifo, Vittadini) dell’ambiente crossmediale. Unificato, quest’ultimo dai codici numerici, l’essenza del digitale: il linguaggio, il vissuto dell’era comunicativa contemporanea. Ecco, allora, una prima doccia fredda per il dibattito italiano, in cui digitale sembrò essere a lungo un «aggettivo» di televisione, buono per moltiplicare i canali diffusivi e aggirare così ogni limite antitrust. Anni passati inutilmente con l’allora ministro Gasparri a discutere di numero di reti e di «Sistema integrato delle comunicazioni» (Sic), riducendo una rivoluzione straordinaria ad affare minore e strumentale. Una delle svariate occasioni perdute.
Un problema quantistico
«Le grandi mutazioni digitali» toccano l’insieme della vita organizzata e costituiscono un punto di non ritorno, nei modelli della produzione e degli stili sociali. Il Web non è solo una tecnica, bensì pure e soprattutto un paradigma di riferimento, cui ogni discorso si deve riferire. Tant’è che il secondo volume si apre ambiziosamente con l’evocazione di Giordano Bruno e di Leibniz, premonitori «degli infiniti mondi possibili» sottesi al flusso «zero-uno»: il ritmo duale del suono informatico, che già da sé ci induce a comprendere la celebre affermazione di un altro «visionario» — Shakespeare– «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». Ma non basta, giustamente ci tira per la giacca il colto e agguerrito autore. Newton viene superato da Heisenberg e dal suo principio di indeterminazione. Ed eccoci alla teoria quantistica, che supera la stessa rivoluzione numerica, con una rivoluzione nella rivoluzione. Qui ci si addentra in quel paradiso affascinante dove si mischiano filosofia e scienza, vale a dire la parte sublime dei saperi. E tutto ciò avviene davvero.
Derrick de Kerckhove, allievo e successore dell’altro «visionario» – McLuhan, letterato in origine — spiegò già diversi anni fa che ci stiamo avviando ai computer quantistici. Insomma, persino il digitale è una tecnica di transizione. Von Baeyer (animatore del principale acceleratore di elettroni del mondo, il «Jefferson Lab») ci descrive il passaggio dai bit si passa ai «qubit»: dalla logica polarizzata e codificata a quella densa di soluzioni aperte e di visioni associate. Il discorso si fa complesso e difficile. Rientriamo nei ranghi dei nostri limiti. Per dire, però, che stiamo nel bel mezzo di sconvolgimenti, tali da interpellare i decisori politici e i gruppi dirigenti – in senso gramsciano– a mettere gli occhiali dell’innovazione vera. Che riguarda la curva stretta imboccata dal capitalismo informazionale, in cui molti potrebbero finire fuori strada. Il potere dei media è soppiantato dal regno degli algoritmi. Per esempio, alla Stanford University fu rielaborato l’algoritmo PageRank, la base del motore di ricerca che ha consentito la nascita di «Google». E già. Chi domina nella potenza di calcolo conquista l’egemonia. Aggiungiamo. Senza contenuti, ovviamente, anche le macchine intelligentissime rimangono stupide. Insomma, produrre, produrre, produrre con la creatività digitale.
Oltre ai nuovi padroni del villaggio globale, ci sono i «venture capitalist», i rappresentanti del ceppo finanziario dal quale origina gran parte del salotto buono. Chi conosce «Sequoia Capital», che possiede quote azionarie e orienta le scelte di 358 compagnie «big digital», il 10% dell’intera capitalizzazione del Nasdaq? Eppure, vi rientrano numerosi dei pezzi forti del Web: Apple, Aruba, Atari, Avid, Cisco, la citata Google, Joost, LinkedIn, Oracle, PayPal, Symantec, Yahoo!, il clamoroso caso di You Tube.
La governance che verrà
Intendiamoci. Negli Stati Uniti anche la sfera pubblica – lo Stato– ha fatto la sua parte. In Italia? Mah. Per ora stiamo assistendo ai «turbamenti del giovane Torless» – ci perdoni Musil– del governo sulla banda larga, un Risiko in cui è entrato in scena un altro soggetto: l’Enel. Che lo Spirito santo laico illumini il Governo.
Torniamo ad un capitolo essenziale dei volumi di Glauco Benigni. Si parla con parole condivisibili del problema enorme della governance mondiale della Rete. Esiste un’entità –l’International governance forum, IGF– che appartiene alla famiglia delle Nazioni Unite. Fu lanciato a Tunisi nel 2005. Ovvero, diverse ere geologiche fa, data la velocità mostruosa del Big Bang digitale. Ci si rifletta, anche e soprattutto nei luoghi coinvolti della società civile. E sì, perché Internet e Governi sono una contraddizione. E non ci sono i «quanti» a salvarci dai rischi di eterodirezione e di censure. Chi controlla i controllori delle nostre vite? E’ in esaurimento la logica privatistica, che immaginò che i «domini» fossero curati da una società californiana, Icann. Ecco, come si dice, una vera sfida per la democrazia.
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