venerdì 29 maggio 2015

Morte dell'arte e produzione di valore nell'estetica postmoderna


Maurizio Cecchetti Avvenire 29 maggio 2015



Se l’arte è ostaggio della migliore offerta
Anche le opere di Fidia e Prassitele non avevano origine dalla pura “creazione”
L’attuale frenesia degli acquisti trascura i lavori dei grandi maestri del passato
Un’ondata di denaro ha investito il mercato. Si inseguono gli stessi brand culturali ma “il numero di Picasso in circolazione è limitato”. Così si forma la nuova “bolla”
di Adam Gopnik Repubblica 1.6.15
LA notizia dell’ennesimo record di soldi sborsati per una singola opera (centosettantanove milioni di dollari per un Picasso così così del periodo “appena passabile” dell’artista spagnolo, negli ultimi anni della sua vita) ha inevitabilmente riportato alla mente di alcuni osservatori, con quella che tecnicamente viene chiamata risata vuota, il 1980 e le conclusioni della grande storia sinottica dell’arte moderna scritta da Robert Hughes ( Lo shock dell’arte moderna: cento anni di storia dell’avanguardia ). Il celebre saggista australiano si domandava se “la vertiginosa ascesa del mercato” non avesse creato le condizioni per «una cultura brutalizzata del desiderio inappagabile», producendo quotazioni tali alle aste che «un mediocre Picasso del 1923»era stato venduto per tre milioni di dollari.
Lo sdegno di allora oggi possiamo giudicarlo un affarone, di fronte a una spirale dei prezzi che non fa che allargarsi, verticalmente e orizzontalmente, senza che si riesca a intravederne la fine.
Questi eventi inducono a due ragionamenti: il primo è più che altro di ordine morale, l’altro per lo più legale. L’argomento morale concerne l’effetto potenziale dell’aumento dei prezzi sulla nostra percezione delle immagini. Nel bene o nel male, la nostra idea dell’arte ha sempre avuto a che fare con l’idea dei soldi. Qualunque fosse la motivazione che spingeva Fidia o Prassitele a fare quello che facevano, non era certo il puro piacere della creazione. L’intreccio fra arte e denaro è sempre stato uno dei tratti positivi dell’era moderna, dove gli artisti sono riusciti a liberarsi dalla schiavitù della committenza aristocratica ed ecclesiastica e hanno cominciato a dipingere quadri destinati alla vendita in un libero mercato di collezionisti. Che caratteristiche dovrebbe avere un mercato dell’arte sano e ordinato? Qual è l’effettivo valore di un Picasso? Chi può saperlo? I mercati si costruiscono da soli la loro razionalità. Le cose per cui la gente è disposta a spendere rispecchiano ciò che la gente pensa e desidera: è per questo che abbiamo inventato le aste.
All’inizio del XX secolo, come documentato da Samuel Nathaniel Behrman nel suo famoso profilo del mercante d’arte Joseph Duveen ( Duveen: il re degli antiquari ), lo stesso genere di bolla speculativa interessò le opere dei grandi maestri del passato. La cosa più incredibile della frenesia attuale è proprio che i grandi maestri sono fra i più trascurati. L’ondata di denaro che sta inondando il mercato dell’arte in certi casi ha innalzato il valore di rivendita dell’arte contemporanea e delle opere di artisti viventi quasi al livello di quello dei trapassati più illustri: anche se, al pari dei trapassati, su queste rivendite gli artisti non guadagnano nulla. Ecco perché si è messo in moto un movimento, capeggiato dal deputato democratico Jerrold Nadler (che rappresenta al Congresso degli Stati Uniti un pezzo di New York), che punta a garantire agli artisti e ai loro eredi una royalty – con tetto fissato a trentacinquemila dollari – ogni volta che una loro opera viene rivenduta da una grossa casa d’aste. È una questione complessa. Il copyright si chiama così perché dovrebbe riguardare, in teoria, il problema delle copie. Visto che libri e dischi possono essere registrati liberamente (come di fatto succede online), noi imponiamo a chi effettua la copia di pagare una royalty, per garantire che il creatore originale non si veda sottrarre il frutto della propria fatica. L’accordo che gli artisti visivi normalmente stipulano con i loro acquirenti è diverso: l’artista vende l’opera originale e ne incassa il guadagno. In questo caso la logica è che se il proprietario di un Jeff Koons lo vende all’asta per ricavarci un profitto, tale profitto si rifletterà sul prossimo Jeff Koons creato da Jeff Koons: la «royalty» che l’artista incassa, in altre parole, è l’incremento di valore dell’opera successiva venduta al compratore successivo . Ma molto probabilmente alla maggior parte di noi l’idea di pagare una royalty agli artisti appare naturale, perché l’elemento distintivo di un’opera d’arte visiva non è semplicemente il fatto che passa attraverso molte mani aumentando o diminuendo di valore, bensì il fatto che è stata creata da un’unica mano (o comunque a partire dalla visione di un singolo), e i diritti di questa mano sull’opera permangono anche se cambia il proprietario. Un’opera di Chuck Close può essere una decorazione per una parete, un investimento, un’eredità e una deduzione dalle tasse, ma prima di essere ognuna di queste cose è, e rimane, un Chuck Close. Per questo la dottrina francese dei «diritti morali», che stabilisce che un artista ha il diritto di vedere garantita l’integrità della propria opera anche se non è più in suo possesso, ci appare giusta e morale: se hai comprato il quadro di un artista, non puoi deturparlo, mutilarlo o modificarlo senza il suo consenso. Sostanzialmente, quello che chiedono gli artisti, con la legge di Nadler, è poco più di una gentile mancia. La contro argomentazione è che un bravo chef non si ricompensa con le mance, bensì con un lavoro migliore in una cucina più attrezzata: ma la nostra intuizione morale ci dice che una mancia se la merita, specialmente se il suo piatto rimane misteriosamente squisito anche dopo anni che è stato servito.
Per certi versi, un mediocre Picasso venduto per tre milioni di dollari non è più sconvolgente o meno sconvolgente di un altro Picasso venduto per quasi duecento milioni di dollari, ma l’incremento avvenuto suggerisce che c’è di mezzo qualcosa di più dell’inflazione: è l’intrusione dell’oligarchia, il divario sempre più ampio, difficile da immaginare anche solo trent’anni fa, tra le persone che hanno i soldi per comprare l’arte (e i valori umani che l’arte esprime) e il resto di noi. Neil Irwin, sulle pagine del New York Times, tenendo conto dell’inflazione e di una misura che stima quanta parte del proprio patrimonio le persone siano disposte a spendere, ha calcolato che il numero di coloro che «potrebbero facilmente permettersi di pagare 179 milioni di dollari per un Picasso è più che quadruplicato dall’ultima volta che il dipinto era stato messo all’asta » (nel 1997). A quanto sembra non è solo la disuguaglianza a trainare il mercato dell’arte in questo momento, ma anche quell’altra forza economica a quattro stelle che va sotto il nome di globalizzazione. C’è più ricchezza in un maggior numero di Paesi, ma rimane concentrata in poche mani, e all’estero ci sono tanti compratori quanti ce ne sono a Park Avenue o a Beverly Hills: i loro soldi vanno dietro agli stessi brand artistici, e il numero di Picasso in circolazione è limitato.
Spinte all’estremo, le iniquità, sia visibili che simboliche, suscitano sdegno, anche se non sono peggiori di iniquità più antiche. L’importanza dei dipinti ai nostri occhi sta nel fatto che sono simboli visivi di ordine ed equilibrio, energia creativa e innovazione: e allora come stupirsi che vedere opere d’arte risucchiate ai vertici della piramide oligarchica offenda il nostro senso morale? Perfino un Picasso mediocre nasce dalla convinzione moderna che una civiltà liberale può produrre uno spazio sociale per l’originalità, l’autoespressione. L’invenzione senza freni. C’è qualcosa di ammirevole in una società che include fra i suoi valori più elevati un’audacia e un’immaginazione di questa portata. E c’è qualcosa di inquietante in una società che di immaginazione per trovare modi che consentano di condividere ancora gli orizzonti democratici delle possibilità umane che l’arte un tempo simboleggiava, sembra ormai quasi a corto. Nel frattempo, almeno diamo una mancia allo chef.
@Adam Gopnik ( i suoi libri sono pubblicati da Guanda) The New Yorker ( Traduzione di Fabio Galimberti) 

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