Wendy Doniger: Gli indù. Una storia alternativa, Adelphi
Risvolto
Attingendo alle opere somme della letteratura sanscrita – i Veda, i grandi poemi epici, i testi tantrici e Purāṇici
– ma anche alla fonte inesauribile delle tradizioni locali e orali,
Wendy Doniger, indologa di fama mondiale, studiosa originale e audace,
ci offre della civiltà indù una storia eterodossa, capace di dare voce
ai personaggi relegati ai margini dalla storiografia ufficiale. L’esito è
una trama abbagliante di racconti, la celebrazione di una tradizione
plurale, inclusiva e infinitamente diversificata: anche le classi più
basse ed emarginate, osserva la Doniger, ci parlano: «non sempre
attraverso voci registrate sulla pagina scritta, ma con segni che
possiamo comunque leggere, se lo vogliamo».
In India , terra del tempo che torna
Una catena di opposti: religione e potere, dèi e mortali, uomo e donna, corpo e anima
di Giorgio Montefoschi Corriere 29.5.15
Nel suo sterminato libro sull’induismo intitolato Gli indù , Wendy
Doniger racconta una storia, che ancora ci sconvolge e per fortuna, a
dispetto di ogni mutamento, possiamo vedere in quel luogo meraviglioso
che è l’India con i nostri occhi, fondata su delle opposizioni che si
compenetrano e vivono esclusivamente in virtù di codesta compenetrazione
(che talvolta è selvaggia). Nella solitudine, infatti, i due termini
della opposizione — la religione e il potere secolare, Dio e la
creazione, il bene e il male, gli dèi e gli uomini, l’uomo e la donna,
il corpo e l’anima, la nascita e la morte, la violenza e la non
violenza, il sesso e l’ascesi — sarebbero nulla: non esisterebbero.
È una storia, quella raccontata dalla Doniger, oscura e luminosa — in
realtà, la storia eterna, e alla fine inaccessibile, della luce che
scende nel buio e del buio che la imprigiona o non la comprende — che
viene da molto lontano. Cinquantamila anni fa, i venti che ogni anno
portano in India le piogge monsoniche (e per secoli hanno disseccato le
pergamene, facendo evaporare i racconti che la tradizione orale aveva
trasferito nella parola scritta), condussero, molto probabilmente,
dall’Africa orientale all’India peninsulare i suoi primi abitanti.
Venivano, dunque, dal «cuore della tenebra» gli antichi ariani ai quali,
nel corso del tempo, si mescolarono altri popoli che poi scomparirono, e
poi altri popoli ancora fino a formare la complessa mescolanza di razze
e lingue vissuta nella terra chiusa a oriente e a occidente dagli
oceani, a nord dalla catena himalayana? Quando e da chi furono
inghiottiti?
Il mito — uno degli innumerevoli miti, ripetuti in innumerevoli
varianti, dai quali sono costellati i testi letterari e religiosi
dell’induismo — parla di un grande diluvio che a un tratto sommerse
quella terra. L’Adamo indiano si chiamava Manu. Un giorno incontrò un
pesciolino che gli chiese di salvarlo da un pesce grande che voleva
mangiarlo. In quell’essere infimo Manu riconobbe Visnu e lo salvò.
Allora il pesciolino gli disse: gli dèi hanno costruito una grande barca
per salvare dal diluvio gli esseri viventi; trascinala sulla montagna
fino a che le acque non torneranno nel loro alveo e sarai re. Il diluvio
— spiega l’incarnazione di Visnu — sarà provocato da una mostruosa
giumenta che vaga in fondo all’oceano. Quando aprirà la bocca, un fuoco
velenoso brucerà l’intero universo, gli dèi, ogni cosa e le acque, non
più imbrigliate sommergeranno il mondo. «La giumenta dell’oceano che
perlustra le acque oscure e profonde dell’inconscio» — osserva Wendy
Doniger — è un essere femminile.
Passa il tempo immemorabile — che in India non è soltanto lineare, è
anche ciclico: motivo per il quale le ere si concludono e rinascono, le
anime tornano a reincarnarsi — e duemila anni all’incirca prima di
Cristo, nella valle del fiume Indo, appare un altro popolo misterioso,
risultato di mescolanze eterogenee, di provenienze indecifrabili. È la
cosiddetta Civiltà della Valle dell’Indo. Conosciamo, attraverso le
pietre, le iscrizioni in una lingua ancora non decrittata che forse non
era neppure una lingua, e i sigilli, quali erano gli animali che insieme
agli uomini vivevano lungo il fiume, i semi che venivano piantati, gli
alberi. Sappiamo che commerci si svolgevano con la Mesopotamia, Creta,
forse l’Egitto. Ma nessuno sa come e perché la Civiltà dell’Indo sparì.
Al loro posto — conservando con ogni probabilità le intuizioni umbratili
o inespresse dei predecessori — sorge, attorno al 1500 a.C., il Veda .
Il termine Veda significa Conoscenza. Il Rg Veda è un complesso di 1.028
inni, o mantra, tramandati in un primo tempo oralmente di padre in
figlio, quindi scritti in una antica forma di sanscrito. Non dovevano
finire in mani sbagliate, né essere pronunciati commettendo anche un
minimo errore. «Il Rg Veda — scrive Wendy Doniger che col Veda entra nel
cuore del suo libro bellissimo — era considerato un testo rivelato, e
con la rivelazione non si scherza».
Un episodio mitico, conservato nella tradizione indologica europea,
riguardante la memorizzazione e insieme la perfezione richiesta alla
memorizzazione è il seguente. Alla fine del XIX secolo, appena conclusa
la revisione e la pubblicazione del Rg Veda , Friederich Max Muller
chiese a tre brahmani di tre diverse città: Calcutta, Madras e Bombay —
tutti e tre parlanti lingue vernacolari diverse — di recitargli l’intero
testo. Pare che ognuno di loro abbia pronunciato ogni singola sillaba
dei 1.028 inni esattamente come gli altri due. I mantra venivano
recitati durante i sacrifici. I sacrifici (non solo di animali) che
originariamente erano offerti su miseri altari di fango, più tardi,
accompagnando lo sviluppo sociale, divennero ricchi, regolati da rituali
complessi. E raffigurarono (per esempio nelle forme degli altari) sia
l’uomo che il cosmo. Il sacrificio legava indissolubilmente il mondo
visibile degli uomini e il mondo invisibile degli dèi. L’energia
generata dal sacrificio — vale a dire il calore, che è vita, ed è in
contrasto col freddo della morte, ed è lo stesso calore, o ardore che
nutre l’erotismo e la castità — manteneva in vita l’universo. Senza quel
calore prodotto dal sacrificio, il sole non poteva sorgere. Così come
senza bere il soma, il succo spremuto da una pianta chiamata Soma che
alcuni dicevano crescesse nelle stesse montagne da cui provenivano i
Veda , altri dal Paradiso, il sacrificante che contemplava se stesso
nell’uccisione della vittima, non avrebbe potuto liberare la sua
coscienza e proiettarla negli spazi infiniti.
Il Rg Veda si interroga sulla identità di chi ha creato questi spazi
sconfinati e l’universo, la natura, gli animali e l’uomo destinato a
morire e a rinascere, e risponde che è Ka, cioè colui che è. Ma il
popolo dei Veda nella preghiera e nel sacrificio chiede soprattutto
benefici: salute, prosperità, vittorie in battaglia. La Rinuncia
spalancherà il suo abisso all’interno dell’induismo secoli più tardi.
Con le Upanishad . Le Upanishad sono testi meditativi sui Veda che
affiancano, non sostituiscono i Veda . Adesso, nel sacrificio non si
implorano più beni materiali. I Rinuncianti abbandonano i villaggi e le
città (secondo il loro pensiero luoghi di corruzione e permanenza), si
rifugiano in luoghi disabitati e impervi, sono nudi, coperti di cenere,
hanno un teschio nel quale raccolgono le elemosine, quando appaiono
sulle rive del Gange, a Varanasi, sembrano dei malfattori. E nel
sacrificio chiedono di essere liberati da tutto — dall’ardore, da se
stessi, e principalmente dalla prigionia delle rinascite nella carne —
perché la loro anima, l’Atman, possa riunirsi al Brahman: la sostanza
divina di cui è composto l’universo, e confondersi in quel Tutto per
sempre.
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