Chi va a caccia di funghi trova la Grazia del creato
venerdì 22 maggio 2015
Peter Handke va a funghi
Peter Handke: Saggio sul cercatore di funghi, traduzione di Alessandra Iadicicco, Guanda,
pagg. 174, euro 15
Risvolto
Un eroe tragicomico è il protagonista di questa originalissima storia.
Avvocato di grido impegnato nei tribunali internazionali a difendere i
criminali di guerra, è felicemente sposato con l’amore della sua vita e
in attesa di un figlio. Proprio poco dopo il matrimonio, l’uomo trova,
per caso, nel bosco fuori dalla città in cui abita, un fungo porcino.
Questo tesoro riaccende la sua antica passione, che l’aveva spinto da
ragazzo a battere sentieri e radure alla ricerca di funghi per
guadagnare qualche soldo. La passione però diventa totalizzante, pian
piano si trasforma in vera mania, spingendolo a trascurare la
professione, la famiglia, la moglie adorata, il figlio in arrivo, per
dedicarsi a una ricerca che, analoga a quella dello scrittore, non si
appaga mai della scoperta ed è sempre fine a se stessa …
Il passatempo diventa passione e degenera in ossessione. Per il protagonista trovare significa creare, ma anche smarrire le coordinate della propria esistenza
Daniele Abbiati - il Giornale Ven, 22/05/2015
Chi va a caccia di funghi trova la Grazia del creato
Chi va a caccia di funghi trova la Grazia del creato
Nei boschi il protagonista si allontana dall’umanità dimentica moglie, figlio, lavoro e scopre “l’autentico” tesoro
Ferdinando Camon tuttolibri 20 6 2015
Amo Peter Handke. Molte cose ci uniscono, anche se un trauma ci divide. Il suo capolavoro è un libro sulla vita della madre, Infelicità senza desideri, e nel titolo ha un concetto che è diventato una formula della psicologia: significa non avere niente e non desiderare niente, cioè aspettare di morire. La madre infatti si suicida. Nel libro, il viaggio della madre verso il suicidio è seguito passo per passo dal figlio, con un’attenzione meticolosa in cui consiste l’amore. Alla fine il figlio pronuncia un giudizio affettivo e morale che suona così: «Sono orgoglioso che mia madre si sia suicidata». È un giudizio che mi ha distrutto. Io mi sarei suicidato a mia volta. Avrei patito la mancanza di senso della vita di mia madre (o di mio padre, o di un mio figlio) come una perdita di senso della mia vita. Penso sempre a quel libro quando vedo un nuovo libro di Handke, perché quel libro uscì dagli stessi editori europei di un mio libro sullo stesso tema, la morte della madre, nel quale però la madre muore ma tutta la famiglia lavora a richiamarla in vita per sempre: un libro sul rifiuto della morte e sulla necessità dell’immortalità. Sul manoscritto il libro s’intitolava proprio Immortalità, fu Livio Garzanti a intitolarlo
Un altare per la madre. Sentire l’uomo come mortale o come immortale è la grande biforcazione del pensiero umano. Peter Handke va per la prima strada. Non è la mia. Ma lo seguo ad ogni nuovo libro, per vedere cosa cerca, cosa guarda, cosa trova.Sta tutto di qua ma non gli basta, cerca l’altrove. Anzi il suo non è un cercare, ma uno stanare, come dice qui. Cioè cercare qualcosa che si nasconde. Nella Natura. Peter Handke è il più grande descrittore della Natura che esista oggi al mondo. La natura gli cambia la lingua, gli dà una lingua estatica, in estasi, o se preferite in ec-stasi. Ciò che è naturale, incoltivato, nascosto nel profondo del bosco, è un «tesoro», e se ti càpita in faccia un tesoro ti càpita qualcosa che non meriti, esclami qualcosa che nei credenti equivale al «non sum dignus», e che Handke descrive così: «Con il ritrovamento di quel piccolo tesoro era sorto in lui un “Sono qui! Ci sono anch’io!”, o semplicemente un “Qui!”, come mai prima di allora». Il segreto della Natura è una Grazia. Se ti tocca la Grazia, non sei più quello di prima. La trama di questo saggio-romanzo è brevissima: il protagonista va per funghi, cioè cammina nella Natura, cioè fuori-mondo e fuori tempo, perché noi siamo in un mondo e in un tempo in cui il naturale va riducendosi, e andando per la Natura l’uomo si allontana sempre più dall’umanità. Ha moglie e figlio, ma li dimentica. Ha un lavoro prestigioso, fa il difensore in una Corte Internazionale, ma lo smette. Anche se la grazia del contatto con la Natura migliora le sue arringhe, e «ragionare, trarre le conclusioni, essere persuasivo, tutto questo gli riusciva più facile del solito, e a tratti le soluzioni gli venivano letteralmente incontro». C’è qualcosa di mistico nella narrazione di Handke, per cui ti aspetti che d’improvviso salti fuori, di fronte a te, sulla pagina, la parola Dio, con la D maiuscola. Qui infatti la parola salta fuori due volte, a pagina 86 e 115. La prima per indicare «l’atto di divenire parte, un gesto che avrebbe avuto lo stesso significato dell’abbraccio di un Dio infinitamente misericordioso». La seconda quando sente «pulsare una quiete che si accompagna, come solo nei sacri momenti dell’estasi, a un sorgere, in te e in me, mio caro lettore, di quanto vi è di più prossimo a Dio: il cielo stellato della fantasia!». L’andar per la Natura a cercare il tesoro parte da una serie di imperativi rivolti a se stesso: «Chìnati! Fruga! Rivolta! Scava!». Lui si sente «più ricco per il fatto di saper distinguere, durante l’estate, lo stormire delle querce, a tratti quasi un rombo, da quello dei faggi, più simile a un muggito, e delle betulle, le quali, perfino sotto un forte vento, frusciavano più che mormorare» (eccellente la traduzione). È il premio. Il contatto col Tutto. Il titolo del libro è altamente inadeguato, quest’uomo non è un cercatore di funghi, ma un cercatore di Dio. Trovare alla fine non conta nulla. Il tesoro è questo camminare nella Natura come in una verità perduta, da ritrovare.
Dioniso si nasconde sotto i funghi
Peter Handke va oltre l’ozio e sposa l’ebbrezza nel folto dei boschi. Una lezione di vita(lità)
25 set 2015 Corriere della Sera Di Pietro Citati © RIPRODUZIONE RISERVATA
La casa editrice Guanda ha pubblicato recentemente due bellissimi libri di Peter Handke: Pomeriggio di uno scrittore (traduzione di Giovanna Agabio, pagine 88, 6,50) e Saggio sul cercatore di funghi (traduzione di Alessandra Iadicicco, pagine 172, 15). In entrambi i libri è essenziale la crisi della parola. Una volta, quasi per un anno, Handke aveva immaginato di aver perso completamente il linguaggio: così, da allora, ogni frase che scriveva diventava, per lui, un avvenimento. Soffriva d’angoscia: fra tutti coloro che esercitavano la sua professione, era l’unico ad aver paura di scrivere. «Non oltrepassare la soglia!», diceva. Era come colpito dal divieto di scrivere. L’autore Peter Handke (1942), è scrittore, drammaturgo, saggista, poeta, reporter di viaggio e sceneggiatore
Pensava che, nel suo intimo, fosse esistito qualcosa di simile a un testo primigenio, e che questo testo continuasse ad esistere e a svilupparsi molto lentamente. Egli allargava i suoi sensi: restava seduto al buio, senza lambiccarsi il cervello o pensare al dopo: soltanto riposare, chiudere gli occhi, non ascoltare; nient’altro che inspirare ed espirare. Si limitava a rimanere tranquillo nel silenzio, ricordando, finché impercettibilmente il ricordo precipitava in un sogno egualmente tranquillo. Nel sogno il mondo non esisteva più, e gli pareva che lui, nella sua stanza, fosse l’ultimo dei sopravvissuti.
Nei periodi d’ozio, Peter Handke andava a passeggiare nel centro della città. Quando invece era assorbito dal lavoro letterario, si avviava ai margini della città, nei boschi. Non ai margini: restava là, dando le spalle agli alberi; davanti a lui nient’altro che la campagna vuota. Erano boschi di abeti rossi, con un mantello di aghi fittissimo: questi alberi crescevano gli uni vicino agli altri, con i loro rami e rametti intrecciati e ingarbugliati; man mano che si penetrava in quell’intrico, diventava sempre più buio, e non si riusciva né a vedere il singolo albero né l’intero bosco. Le betulle frullavano, i faggi stormivano, i frassini sussurravano, le querce frusciavano. A volte, Handke si sentiva un eletto: a volte gli sembrava che lo stormire e il frusciare degli alberi fosse un bisbiglio rivolto contro di lui, un chiacchiericcio ostile, foriero di sventure.
Camminava come un cacciamo tore di tesori, cercando funghi, e credendo di avvertire in se stesso il potere magico di scoprirli. Vedeva un bagliore. Sotto l’intrico grigio opaco del legno decomposto, risplendeva una luce da stanza del tesoro. Erano mucchi di gallinacci, che balenavano e aggredivano gli occhi, accecavano letteralmente il prisguardo proteso nell’oscurità. Scoprì un intero paese di funghi gialli, che si estendeva per ore e ore, inesauribile come un continente. Giallo, giallo e altro giallo ancora, che continuava a perdita di sguardi davanti al sognatore. Quel giallo incessante non si estendeva «davanti» ai suoi occhi — saltava dentro di essi, vi si tuffava, vagava come un fuoco fatuo, sia sotto le mani costrette a raccogliere senza sosta sia dentro di lui, finché in quel guizzo balenava un fiammeggiare di puro giallo.
Il culmine del paese dei funghi era il fungo porcino: aveva sempre un bell’aspetto; il cappello luccicava ancora per l’umidità; mentre la carne del gambo era bianca, come se fosse appena spuntata dalle profondità della terra. La maggior parte, anzi quasi tutti i suoi tesori, li aveva trovati di volta in volta vicino al ciglio del sentiero: mai lontano da esso. Parevano famiglie che da un anno all’altro, o dall’inverno alla primavera, spuntassero in modo sotterraneo: seguivano il corso dell’acqua, rifuggivano dai venti, affioravano a grande distanza, moltiplicandosi nell’aria e nella luce.
Erano gli ultimi esemplari di flora rimasti sulla terra che non ammettessero di essere coltivati, o civilizzati o addomesticati: gli unici che crescessero selvaggi, impassibili di fronte a qualsiasi intromissione umana. La caccia dei funghi risvegliava, nei cercatori, una specie di ebbrezza dionisiaca. Bisognava cercarli da soli: al massimo, si poteva portare con sé dei bambini. Senza accorgersene, il cacciatore di funghi cominciava a dimenticarsi della moglie e della famiglia. Tutto l’universo si riduceva, a poco a poco, all’attenzione per i funghi. Il cercatore conosceva in sé una condizione d’estasi. Si sentiva l’unico, legittimo cacciatore di tesori: l’unico sovrano.
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