mercoledì 13 maggio 2015

Renzi e Boschi come Gramsci e Togliatti: Massimo L. Salvadori e tanti Spinelli

Risultati immagini per spinelli tsiprasSinistre, reddito di cittadinanza, Europa e grillini
Il cosiddetto reddito di cittadinanza è per quello che ne capisco una proposta sbagliata, inefficace e persino controproducente perché favorisce il controllo capitalistico sul lavoro. Tuttavia ha un'indubbia efficacia propagandistica e un appeal di massa soprattutto tra le generazioni più giovani. Il fatto che la sinistra radicale - che nel bene e nel male ragiona su questo tema dalla metà degli anni Novanta - si sia fatta scippare un argomento così forte dai grillini (e forse persino da Renzi) conferma dunque l'insipienza di questa parte politica. Un'insipienza che si dispiega non solo sul terreno strategico ma anche su quel terreno tattico-opportunistico che da sempre ne ha caratterizzato i tre quarti della linea.
Lo stesso si può dire del tema centrale del rapporto con l'Europa: pur essendo stata l'unica forza politica verbalmente contraria a Maastricht, la sinistra radicale è stata ed è percepita come subalterna alla retorica dell'europeismo strumentale. Come è giusto che sia, avendo a suo tempo essa assecondato nella pratica il processo di convergenza dell'Unione, in spregio persino alle sue convizioni più profonde.
Anche in questi casi, l'inefficacia della sinistra è legata alla sua totale mancanza di credibilità. Non si tratta della sua frammentazione, che è solo una conseguenza: è l'aver partecipato ai governi di centrosinistra - e l'essere uscita da quella prospettiva non in maniera ragionata e autonoma ma solo perché è ormai inutile al PD - che le toglie quasi ogni chance di accumulare consenso.
Questo ci dà la misura del lavoro decennale che sarà necessario per ritrovare una ragion d'essere.
I conigli dal cilindro, i Landini, i Civati e i pasticci organizzativi delle Altre Europe o delle Costituenti sono solo marchingegni per accumulare delusioni e un prolungamento dell'agonia, in mancanza di un serio ripensamento strategico [SGA].

Barbara Spinelli: "La lista Tsipras è finita tutta colpa di Sel e Rc ma io non mi dimetterò"L'europarlamentare spiega il suo abbandono: i partiti predominavano non dovevamo lasciare la battaglia sul reddito di cittadinanza al M5Sdi SEBASTIANO MESSINA Repubblica


Il Partito della Nazione da Gramsci a Renzi
di Massimo L. Salvadori Repubblica 12.5.15
NON cessano le voci di coloro ai quali sorride l’idea che il Pd renziano diventi né più né meno che il “Partito della Nazione”. Naturalmente tanto per gli avversari esterni del Pd quanto per le correnti di minoranza al suo interno e per i vendoliani questa identificazione scatena una violenta allergia, poiché per gli uni esprime la brama di pigliare tutto, per gli altri il disegno del premier di snaturare il Pd spostandone decisamente il baricentro dalla sinistra al centro. Pochi giorni or sono la ministra Boschi, che è una donna capace, intelligente e tenace — come dimostrato dal modo in cui ha condotto in porto la barca dell’Italicum — ha controbattuto alle minoranze del suo partito che a lanciare sulla scena del dibattito politico la definizione di Partito della Nazione è stata «una delle menti più lucide della sinistra». Certo, a prima vista l’etichetta si presenta bella, quasi commovente: implica l’esortazione a porre in cima a tutto la ricerca del bene del paese, nessuno escluso, chiama ad assumersi la più alta delle responsabilità. Quale male dunque se uno specifico partito, il Pd, intende presentarsi nelle vesti di Partito della Nazione? Devo dire di considerare questo un indirizzo sbagliato, una sconcertante ingenuità ideologica, un errore da cui Renzi dovrebbe tenersi a distanza di sicurezza. Nel clima intorbidito della politica italiana — caratterizzata dalla presenza di una molteplicità di partiti che fanno mestiere di una conflittualità miseranda dentro e fuori di sé, sono preda di robusti tarli roditori, vedono i propri leader contestarsi reciprocamente e malamente; colpita ogni giorno dalle bombarde dei populismi; invelenita dai contrasti in tema di riforme istituzionali e costituzionali — l’invito al Pd a farsi esso coraggiosamente e orgogliosamente carico dei destini complessivi del Paese indossando i panni di Partito della Nazione può apparire una ventata di aria fresca. Sennonché occorre ragionare, avvalendosi di qualche riflessione sulla storia italiana, su ciò che in quell’invito non funziona. In tutti i momenti di più grave crisi dello Stato unitario, quando i contrasti tra i partiti politici superarono una certa soglia, si è fatta avanti l’idea che, contro la divisività negativa e inconcludente, spettasse ad un soggetto privilegiato assumere l’onere e l’onore di rigenerare il paese come, appunto, “Partito della Nazione”. Fu il caso sia del partito, stretto intorno alla monarchia, che nella crisi di fine Ottocento Sonnino invocò contro i rossi e i neri; sia del partito fascista che nel primo dopoguerra si propose di unire il popolo intorno a sé, potando i rami secchi. Vi era in questi nemici della sinistra la convinzione di poter essi soli rappresentare il bene dell’Italia.

Ma anche a sinistra si è nutrita una analoga ambizione. Si leggano le Tesi di Lione del 1926 stese da Gramsci e Togliatti, e si vedrà che lo scopo additato al Partito comunista era fondare lo Stato del futuro, anche in questo caso tagliando i rami secchi, avendo in mano le chiavi per unire intorno a sé tutte le forze sane del popolo. Dopo la caduta del fascismo, Togliatti teorizzò senza posa che la missione storica del Partito comunista era strappare dalle mani della borghesia la bandiera del vero progresso della nazione, di cui esso rivendicava di essere l’unico interprete, assumendo — affermò — «una funzione di guida in tutti i campi della vita politica e sociale».

Ecco comparire ancora una volta il soggetto preposto a compiere la rinascita nazionale. Con lo scorrere del tempo toccò a Veltroni esaltare in tale veste l’Ulivo italiano, addirittura concepito quale modello per l’universo mondo. Cara ministra Boschi, non scambi il vino vecchio per vino nuovo. L’uscita della lucida mente della sinistra che invoca “il Partito della Nazione” capace di assumere su di sé la croce dei mali del Paese e di farlo risorgere non è aria fresca ma l’ultimo eco di una consunta retorica. Chi scrive non pensa affatto che il Pd renziano sia affetto dalla sindrome dittatoriale che gli attribuiscono i suoi avversari. Ma sarebbe davvero bene che esso si tenesse alla larga dal cedere alla sirena di voler presentarsi come Partito della Nazione: anche tenendo nel debito conto che quel nome è stato una volta per tutte malamente confiscato dal Partito Nazionale Fascista. Nel concetto di Partito della Nazione è di fatto implicita una pretesa totalizzante, boriosa, inopportuna e dannosa. I precedenti non sono di buon auspicio. I sistemi liberaldemocratici riconoscono unicamente “partiti nella nazione”. Il Pd aspiri ad essere una attiva forza riformatrice all’altezza delle sfide che è chiamata ad affrontare. Non indossi i panni di chi guarda i suoi competitori dall’alto di un salvifico primato; e non ambisca a fare gli interessi di tutti, poiché le società moderne sono la scena dell’inevitabile scontro dei diversi interessi politici e sociali. Non inalberi una bandiera di parole e lasci perdere la vacua, altisonante etichetta di “Partito della Nazione”.


La scelta di Spinelli L’addio a Tsipras e la sinistra litigiosa
di Massimo Rebotti Corriere 12.5.15
La vicenda della lista Tsipras (e di Barbara Spinelli) conferma tutti i più consolidati luoghi comuni che circolano sulla sinistra: che è contorta per definizione, litigiosa e sempre divisa anche quando è piccola. Anzi, più è piccola e più è divisa. Gli eurodeputati della lista Tsipras da ieri sono due perché Barbara Spinelli ha lasciato il gruppo (ma mantenuto il seggio): «Il progetto — ha scritto nel commiato — era nato come superamento dei piccoli partiti di sinistra ma ora la lista non è più all’altezza del compito». E quindi, in un passaggio logico comprensibile solo a qualche sofisticatissimo addetto ai lavori, si sostiene che l’unica strada contro la frammentazione della sinistra è frammentarla ancora di più. La lista Tsipras fu lanciata nel gennaio 2013 da un gruppo di sei garanti della «società civile» (dal sociologo Marco Revelli allo scrittore Andrea Camilleri), che presto litigarono e si divisero. Tra i superstiti la giornalista e scrittrice Barbara Spinelli che mise subito in chiaro che, se eletta, non sarebbe andata a Bruxelles. Il suo nome, di riconosciuta autorevolezza, sarebbe servito a trainare nelle urne la lista della sinistra alternativa (che aveva scelto come modello il leader greco Alexis Tsipras) per poi lasciare il campo a candidati più giovani. Alle elezioni Spinelli ottenne oltre 36 mila preferenze nella circoscrizione Centro e quasi 28 mila al Sud. E cambiò idea. Dopo una lunga meditazione, mentre due candidati trentenni attendevano la sua decisione, scelse di tenersi il seggio: «La mia presenza a Bruxelles — spiegò tra le polemiche — è la migliore garanzia che il progetto non venga snaturato. Mi ha convinto a cambiare opinione anche una lettera di Tsipras». Un anno dopo «il progetto non è più all’altezza» e Spinelli ha comunicato ieri di rimanere al Parlamento europeo come indipendente nel raggruppamento della Sinistra europea. Ha anche precisato che in Italia non entrerà in nessun gruppo perché «non intendo contribuire in alcun modo a un’ennesima atomizzazione della sinistra». Nel frattempo Alexis Tsipras è diventato primo ministro in Grecia e proprio in queste settimane si gioca la partita politica più importante con l’Europa. Chissà cosa pensa ora di quella lista italiana che scelse il suo nome.


Alla notizia dell’uscita della Spinelli dalla lista di Tsipras arriva il commento di Nicola Fratoianni (Sel): «Barbara Spinelli ha annunciato che lascerà L’Altra Europa con Tsipras , ma si terrà il seggio come indipendente, perché, dice lei, il progetto è stato snaturato - scrive l’esponente di Sel su Facebook - Mi ricordo di quando poco più di un anno fa annunciò di voler tenere per sé (contrariamente a quanto aveva dichiarato per tutta la campagna elettorale) il seggio di Bruxelles perché, fra le altre cose, se al Parlamento Europeo fosse andato Marco Furfaro non ci sarebbe stata certezza di affidabilità per la tenuta del progetto. Così, tanto per la chiarezza. È la coerenza», conclude Fratoianni. Ma Spinelli ribadisce di voler proseguire «le battaglie fatte in questo primo anno di legislatura in difesa dei diritti fondamentali, a cominciare dalla questione migranti. In Italia, continuerò a combattere le grandi intese, l’idea di un «Partito della Nazione», l’ortodossia delle riforme strutturali, la decostituzionalizzazione della nostra democrazia - conclude Barbara Spinelli - Nelle prossime regionali appoggerò tutti coloro che sono davvero e sino in fondo impegnati in questa battaglia». 


Stefano Fassina “Ormai il premier guarda a destra bisogna cambiare o me ne vado”
“Siamo un partito dell’establishment, liberista sul piano economico plebiscitario su quello della democrazia” L’ex viceministro: “Invertire la rotta a partire dalla riforma della scuola Vincere sì, ma non ad ogni costo”intervista di Giovanna Casadio Repubblica 13.5.15
ROMA «Sono pronto a lasciare il Pd se non cambia radicalmente la riforma della scuola». Stefano Fassina è sul punto di uscire dal partito: «Dopo il Jobs Act e le questioni istituzionali - attacca - il Pd si è riposizionato, in modo da accreditarsi a destra». Con il premier non c’è mai stato feeling. Tanto che una delle prime battutacce di Renzi, diventato segretario, fu di minimizzare le critiche di Fassina con un “Fassina, chi?”.
Fassina, il Pd - dice Renzi - è e resta un partito di sinistra. Lei invece non è di questa opinione?
«Non è un’opinione, ci sono i fatti che parlano. Uno non se lo dice davanti allo specchio che è di sinistra. Neanche il ripescaggio della simbologia storica - mi riferisco al brand delle feste dell’Unità - copre lo spostamento, meglio il riposizionamento di cultura politica, di programma e di interessi rappresentati. E gli esempi sono tanti».
Facciamone qualcuno.
«Innanzitutto il lavoro. Quando Renzi è venuto a presentare la delega-lavoro in aula ha motivato l’intervento con il paradigma dell’apartheid, che scarica sui lavoratori con qualche residua tutela, il problema della disoccupazione e della mancata crescita. È il paradigma introdotto da Reagan. C’è poi il disegno plebiscitario, imposto con il voto di fiducia sull’Italicum: uno sfregio al Dna costituzionale del Pd. Con una mano inoltre si danno 80 euro a chi ha un lavoro, con l’altra si riprendono con tagli al welfare locale. L’atteggiamento di ottusa arroganza nei confronti dello sciopero di 618 mila lavoratori della scuola è l’ultimo esempio di un premier che colpisce sistematicamente gli interessi economici e sociali rappresentati dalla sinistra per accreditarsi a destra».
La “sua” sinistra è quella che il premier definisce “masochista”, che non vince e si accontenta di un 25%?
«Abbiamo per la verità vinto nel 1996 e nel 2006. Vincere è condizione necessaria per la politica, ma è un mezzo per cambiare la società. Mentre per Renzi è un fine da raggiungere con qualunque mezzo. Anche spostandosi sulla piattaforma della destra».
Seconde lei, il Pd è diventato un partito centrista?
«È diventato un partito dell’establishment, sostanzialmente in asse con l’agenda tedesca che domina in Europa, con un impianto liberista sul terreno economico e sociale e plebiscitario sul terreno della democrazia».
La conseguenza di questo suo giudizio è che uscirà dal Pd?
«Senza radicali modifiche al disegno di legge sulla scuola, senza cioè cancellare il potere dei presidi di chiamare i docenti, senza una soluzione dignitosa per gli insegnati precari e, ripeto, dopo la svolta liberista sul lavoro, dopo le revisioni regressive della Costituzione e sulla legge elettorale, il mio percorso parlamentare nel Pd diventa insostenibile».
Renzi tuttavia le chiede di restare?
«Mi sembra una richiesta rituale. Serve un’inversione di marcia».
Per il premier, se va via dal Pd tanto peggio per lei? È un suo problema?
«Renzi non riconosce il problema politico, che non è il sottoscritto, ma lo pone una parte significativa del popolo dem che ha già lasciato il Pd».
Pensa nascerà una forza politica alla sinistra del Pd?
«C’è evidentemente una domanda di rappresentanza, che viene dal lavoro, dalla scuola e da chi non ce la fa. Non trova risposte nel Pd di Renzi».
È pronto a un progetto con Pippo Civati, che ha appena lasciato il Pd, e con la “coalizione sociale” di Landini?
«Con Civati e con gli altri parlamentari dem che hanno tentato di correggere le cosiddette riforme ci sentiamo e continueremo a sentirci».

di Al. T. Corriere 13.5.15
ROMA «La situazione è insostenibile. Ormai credo che siamo arrivati a un punto di rottura sostanzialmente irreversibile. E la riforma della scuola è un elemento decisivo». Se non è un addio, quello di Stefano Fassina, tra gli esponenti più critici del Pd, gli somiglia molto. Dopo l’abbandono di Pippo Civati, il deputato spiega che «sta riflettendo seriamente» sulla sua situazione nel partito. Riflessione che «sto facendo insieme ad altri». Già, perché il suo obiettivo è — preso atto di una situazione di incompatibilità con la linea del partito — quello di riuscire a costruire un progetto alternativo al renzismo. Un piano che stenta a decollare ma che comunque non può declinarsi in un addio individuale. La decisione sembra insomma imminente: «Ma per ora sono concentrato nel tentativo di correggere l’intervento sulla scuola», spiega. Matteo Renzi non si straccia le vesti: «Se Fassina se ne va è un problema suo, non mio». Parole che vengono
commentate in modo duro da diversi esponenti. Anche da Roberto Speranza, che ha cercato di ricucire le posizioni prima di passare all’opposizione totale con il no alla fiducia: «Renzi sbaglia su Fassina. Non è un problema solo suo se uno come lui ha dubbi sul Pd. È un problema di tutto il partito». Gianni Cuperlo è ancora più diretto: «Se personalità come Cofferati e Civati se ne vanno e Fassina sta riflettendo, allora il problema è del leader del partito e nostro, non certo suo». Durissimo l’altro dissidente più critico nel partito, considerato tra i possibili a dare l’addio insieme a Fassina, Alfredo D’Attorre: «L’arroganza di Renzi è preoccupante e un po’ imbarazzante».
Una tensione che ha suggerito a Renzi di rinviare la nomina del nuovo capogruppo alla Camera, successore di Roberto Speranza. Troppo pericoloso andare al voto segreto (basta la richiesta di un deputato) su un nome come quello di Ettore Rosato, che fino a ieri sembrava il più probabile e che però rischiava di essere impallinato, a pochi giorni dalle Regionali. Tutto rinviato a dopo il voto, dunque, e lì si giocherà anche con altri nomi: tra quelli che circolano, ci sono Lorenzo Guerini, Enzo Amendola e Andrea Martella. Non è escluso che Renzi voglia mettere mano nello stesso tempo a più partite: non solo il nuovo capogruppo, ma anche il ministro per gli Affari regionali e il viceministro per le Attività produttive, che sono ancora vacanti.


L’incerto futuro di Civati nella sinistra in cerca di un leader
di Sergio Soave La Stampa 13.5.15
«Civati se ne gghiuto e soli ci ha lasciato». La celebre battuta di Togliatti su Vittorini, insieme cinica, sprezzante e realistica, gira oggi sui social a proposito di Civati e sembra interpretare alla perfezione il silenzio di Matteo Renzi.
Anche se i tempi sono cambiati.
Togliatti sapeva di avere in pugno totalmente il partito (e quel partito!) e sulla fuga degli intellettuali nutriva pochi timori. Li sapeva uniti dal fortissimo giogo dell’ideologia e anche dal fatto che, grazie alla sua calcolata maestria, aveva dato loro la possibilità di autoassolversi da un passato di preoccupante, generale adesione ai miti e ai temi del fascismo.
Poteva sì pensare che la storia, in un lontano domani, avrebbe potuto dare ragione all’inerme letterato siciliano, ma per un ragionevole lasso di tempo era sicuro che nessuno lo avrebbe seguito. Come, infatti, avvenne.
Oggi tutto è diverso, tutto cambia di giorno in giorno; l’ideologia è fragilissima, di intellettuali maestri ce ne sono pochi, anche se tanti aspirano al ruolo; fare disegni sul medio o lungo periodo è molto meno agevole di un tempo e quindi il rischio che, grazie al riflesso autodistruttivo sempre incombente a sinistra, la piccola palla di neve possa trasformarsi in una slavina ai danni di Renzi è da prendere in considerazione.
Già si studiano le mosse di Fassina, già la Camusso ha pronunciato parole di fuoco sul Pd, già Landini si è fatto ringhioso e Vendola ha prontamente iniziato a stendere soffici tappeti per un passaggio che veda finalmente la sinistra-sinistra occupare quel 10% che è suo, anche se oggi, bruciato da mille avventurosi tentativi, non scorge ancora il serio ancoraggio che la spinga a gonfiare le vele.
Ma Civati è l’uomo giusto?
Nella cinica battuta mutuata da Togliatti o nel silenzio di Renzi c’è tutta la risposta.
E vi si aggiunge un altro aneddoto, più vicino a noi, quello relativo a un giovane di belle speranze che dimostratosi riottoso alle trasformazioni (Pci-Pds-Ds) con ambizioni di leader nazionale, fu stroncato da una fulminante battuta di Cossiga che, riferendosi alla sua eleganza e bellezza e al garbo sofisticato dell’eloquio, disse di vederlo meglio come «indossatore», anziché come leader di una storica resurrezione. E ciò bastò a relegarlo come comprimario nella trafficata landa di disegni altrui.
Oggi quella battuta, riferita prontamente a Civati, può essere il segno di una qualche paura da eliminare con gli scongiuri di rito, ma può anche essere la perfetta sintesi della sua maledizione.
Che cosa rappresenti Civati è infatti incerto: un vago sinistrismo, una critica costante alle mosse, certo non tutte condivisibili di Renzi, un cavalcare i boatos di rischio per la democrazia, un ossessivo dipingere il capo del suo partito come uomo di destra (che è l’unica disperata giaculatoria della propaganda sinistrorsa).
In più c’è quell’incauto scorgere sterminati spazi fuori del Pd, unito alla propria ambizione di costruire su ciò un grande o almeno medio partito, perché di partitini non saprebbe che farsene. Ma allora gli spazi si riducono, sol che si pensi che i grillini, per ora, occupano quasi interamente la scena di ciò che vorrebbe rappresentare.
Né gli giova la leggenda che tutto questo suo muoversi derivi dal fatto di non essere stato lui il capo della grande trasformazione del Pd e di aver dovuto cedere a Renzi uno scettro che sperava suo.
Insomma, se vuole essere davvero leader di una cosa di sinistra che non sia legata alla pura sopravvivenza di qualche seggio parlamentare, Civati dovrà fare molta strada.
Dicono che sia uno che calcola attentamente le mosse. Ma, oggi come oggi, non sembra ancora capace di dominare le variabili di un gioco che lo spinge, per ora, sulle prime pagine dei giornali, ma che domani potrebbe relegarlo a un ruolo molto lontano dalle sue ambizioni.
Perché il suo sogno di incrinare o di abbattere il consenso di Renzi potrebbe anche realizzarsi (non per meriti suoi), ma il rischio di finire nel capitolo poco edificante delle divisioni della sinistra sembra il più realistico degli esiti.


Da Ovadia a Camilleri Quella nuova sinistra tra gaffes e ripicche
di Pierluigi Battista 
Corriere 13.5.15Un consiglio a chi volesse temerariamente accingersi alla formazione di nuove aggregazioni elettorali alla sinistra della sinistra del Pd: evitare gli inciampi, gli errori, le gaffes, gli incidenti, le piccinerie che hanno contrassegnato le avventure della sfortunata Lista Tsipras. L’ultima scena è il seggio di Barbara Spinelli al Parlamento europeo che resta alla Spinelli anche se ha deciso di lasciare il gruppo Tsipras e anche se aveva promesso che, una volta eletta, avrebbe lasciato a qualcun altro il seggio. Promessa non mantenuta. Ma cosa è stato mantenuto del progetto iniziale che prendeva il nome dal messia greco di una sinistra vincente e combattiva, capace di scalfire la sinistra accomodante e troppo moderata e troppo vincolata alle politiche della finanza europea? Era all’inizio un nutrito e prestigioso gruppo di intellettuali che si mettevano insieme per un listone di sicuro successo assieme al più tradizionale e vendoliano Sel: Moni Ovadia, Barbara Spinelli, Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri. Poi, improvvisamente, Camilleri e Flores d’Arcais hanno dato forfait, lasciando intuire fratture insanabili, anche se non si è mai chiarito in che consistessero esattamente. Poi defezioni, arretramenti, contrasti. A un certo punto, a corto di ossigeno e constatando che i media non erano più disposti a trattare la Lista Tsipras come una clamorosa e vincente novità, venne un’idea alla portavoce Paola Bacchiddu: farsi riprendere in bikini per conquistare qualche pagina dei giornali, per infrangere il muro del silenzio. Ma l’ala accigliata della lista, severa, custode dell’integrità etica della nazione, considerò quel gesto come un sacrilegio. Si scontrarono due modi di vedere le cose e il mondo. La lista perse la sua compattezza. Le appartenenze tradizionali riprendevano il sopravvento. Le elezioni furono un mezzo disastro, ma il risultato fu un disastro totale quando la neoeletta Spinelli decise di tenersi il seggio al Parlamento europeo sottraendolo a Sel, che si inalberò assai. Ora si parla di nuove aggregazioni, di «coalizioni sociali». Sarebbe il caso di prendere lezioni dalla vicenda Tsipras per capire quello che «non» si deve assolutamente fare per trasformare un’avventura avvincente in un epilogo grottesco, con gli intellettuali che scappano e le forze politiche che si pentono. Per non finire in un pianto. Greco.

«Troppi litigi tra noi. Potrei rappresentare Landini a Strasburgo»
Spinelli: lista Tsipras frammentata, perciò me ne vadodi Massimo Rebotti Corriere 1.5.15
Milano La permanenza di Barbara Spinelli nel gruppo della lista Tsipras all’Europarlamento è durata un anno. Giornalista, scrittrice, figlia di Altiero, considerato uno dei padri fondatori della costruzione europea, nel 2014 lancia (con altri) una lista che ha come modello la sinistra greca di Alexis Tsipras. Durante la campagna elettorale mise in chiaro che, se eletta, non sarebbe andata a Bruxelles. Una volta eletta, cambiò idea: «Così garantisco — disse — che il progetto non venga snaturato». Due giorni fa ha annunciato l’abbandono del gruppo (non del seggio) perché «il progetto non è più all’altezza».
Sembra una delle ricorrenti contorsioni della sinistra, difficile da spiegare: «Ma io ci provo — risponde— la lista era nata con l’obiettivo di creare un’aggregazione che andasse oltre i vecchi partitini della sinistra radicale e non ripetesse le esperienze fatte in passato di frammenti che si uniscono, diventando mosaici sconnessi». Eppure pare essere andata proprio così. Spinelli non lo nasconde: «Ma non sono io che mi sono allontanata dalla lista, è la lista che si è allontanata dal progetto originario».
La fondatrice ora ha scelto di essere una parlamentare indipendente della Sinistra europea, un’ulteriore frammentazione: «Ma una persona che fa una scelta da sola — obietta — non produce frammentazione. La frammentazione è responsabilità degli apparati dei partiti. I deputati indipendenti, poi, hanno un ruolo importante». Barbara Spinelli nega la contraddizione di oggi rispetto a quando scelse di andare a Bruxelles: «Speravo che il progetto si salvasse e invece si è frantumato». Lo sguardo ora è a ciò che si muove in Italia: «Quando vedo che ci sono tentativi di andare oltre, come la “coalizione sociale” di Maurizio Landini, ne deduco che la nostra proposta è superata». Il piano del leader della Fiom piace: «Se diventerà strutturato e significativo allora mi sentirei di rappresentarlo all’Europarlamento».
Il punto resta sempre lo spazio a disposizione per una sinistra fuori dal Pd. La lista Tsipras arrivò al 4%, numeri inadeguati per qualsiasi ambizione. «Ma l’alternativa a Renzi non è un’illusione — risponde — ci sono tanti gruppi, a cominciare da Libertà e giustizia di cui sono membro, che si impegnano per salvare una democrazia costituzionale che in Italia ora è a rischio per il fortissimo accentramento dei poteri nell’esecutivo impresso dal leader pd. Sono d’accordo con chi dice: c’è una parte della società che, in quest’era renziana, non ha rappresentanza». Che gliela possa fornire la sinistra (e non Salvini), è però tutto da vedere. La lista Tsipras, per esempio, si è distinta per le divisioni: «Siamo stati troppo litigiosi, è vero, e sotto questo aspetto l’esperienza mi ha deluso. Ho preso poi alla lettera, sbagliando, la promessa di Sel e del Prc di sciogliersi in qualcosa di nuovo. Non è successo. Ci sono stati errori, anche da parte mia. Mi ricordo, per esempio, quando rinunciammo alla candidatura di un’ambientalista di valore, Antonia Battaglia, per compiacere nella terra dell’Ilva alcuni esponenti di Sel».
Dell’esperienza a Bruxelles, invece, non è delusa — «è avvincente» dice — mentre definisce «cruciale» il negoziato che il leader greco Tsipras sta conducendo con le istituzioni europee: «La crisi è talmente profonda che diventa sempre più forte il bisogno di strade alternative».
Per Barbara Spinelli quest’anno e mezzo in politica è stato, come minimo, travagliato: «Nessuno vive senza dubbi, a meno di non essere fatto di plastica. Quando ho scelto di andare a Bruxelles penso di aver risposto a una domanda forte degli elettori. Non tolleravano l’idea che uno facesse il portabandiera senza poi assumere il peso della carica». Ora c’è il prossimo tentativo: «La bandiera l’hanno presa Landini e Rodotà. Quel discorso iniziato da noi adesso può proseguire in altri modi».

Senato e lotte sociali la minoranza pd prepara la sfida dopo le elezioni
Bersani: Renzi mistifica L’ex segretario: il centrosinistra ha vinto altre volte Referendum di Civati contro i nominati dell’Italicumdi Goffredo De Marchis Repubblica 13.5.15
ROMA .Dopo le regionali «costruiremo un punto di vista alternativo a Renzi». Roberto Speranza dice che lo strappo sulla fiducia all’Italicum è stato già molto forte, che non è questo il momento per dividersi e poi la vecchia scuola della sinistra impedisce colpi di testa alla vigilia delle elezioni. «Io faccio campagna elettorale a tappeto. Vado dappertutto per far vincere il Pd e i suoi candidati», racconta l’ex capogruppo. Ma «un attimo dopo» gli oppositori di Renzi cercheranno una linea comune contro la narrazione renziana. E sembrano pronti a farlo attraverso la «mobilitazione » che significa piazze, appoggio a piattaforme sindacali e di categoria — dalla scuola al lavoro — opposizione dura alla legge costituzionale con i numeri del Senato sempre in bilico e attraverso le feste dell’Unità che scattano all’inizio dell’estate. Un banco di prova fondamentale per misurare la forza di un progetto di sinistra. Dentro il Pd, per ora.
L’ex Pippo Civati parte subito oggi presentando un quesito pilota per affossare la nuova legge elettorale con un referendum. «È un contributo aperto a tutti, anche alla minoranza del Pd. Punta a cancellare i capolista bloccati, chi ha fatto quella battaglia spero sia dei nostri», dice il fuoriuscito. Il messaggio è rivolto a Bersani e ai suoi fedelissimi, che sulle preferenze avevano preparato le barricate. Alfredo D’Attorre non esclude un sostegno: «Vediamo i quesiti anche se i temi sociali ed economici mi sembrano più urgenti e mobilitanti». Lo stesso ex segretario, al Tg1, indica un altro bersaglio del futuro immediato: la riforma costituzionale. «La norma non va bene. Crea un Senato dei consiglieri regionali e già li immagino seduti a un tavolino che si spartiscono i posti di assessore o di senatore. Bisogna cambiare». In più, dice Bersani, l’Italicum resta una cattiva legge che «aiuterà la demagogia e il trasformismo». Andrà capito allora come farà a non appoggiare o ad accarezzare i quesiti referendari di Civati, tanto più quando la campagna di raccolta firme sarà scattata. Adesso Bersani vuole soprattutto smontare la «mistificazione» del premier sulla sinistra masochista che sa solo perdere: «Il centrosinistra ha vinto molte volte. Con i suoi ideali e con le sue idee. Non con quelle degli altri ».
Comunque la strada principale della minoranza appare quella di cavalcare la mobilitazione dei sindacati e delle categorie partendo dalla scuola. Un modo per connettersi al proprio mondo di riferimento. «Quello è sempre stato un nostro bacino elettorale, non va trattato così », dice Nico Stumpo. Che è anche preoccupato per le uscite dal Pd già avvenute e per quelle possibili. «Il segretario di un partito si occupa di tutto il partito. A volte si ha il dubbio che Renzi continui a comportarsi come il leader di una parte, i renziani». L’addio probabile di Stefano Fassina viene vissuto con maggiore partecipazione da quella che un tempo si chiamava la Ditta. Al di là della differenza di toni e di scelte, Fassina rimane vicinissimo a Bersani. «È una persona con l’anima », dice di lui l’ex segretario. «Rappresenta sensibilità che non possono mancare nel Pd. Così come Civati incarna ben 400 mila voti delle primarie. Se escono non è un problema loro, ma di tutto il Pd», aggiunge Speranza. «Quando Civati, Cofferati e forse Fassina, persone valide, lasciano un progetto — dice Gianni Cuperlo — il problema è del segretario, è nostro ». Fassina non nasconde il suo malessere e prepara l’uscita dal Pd proprio sul ddl “la buona scuola” quando verrà votato da Montecitorio.
Ma le regionali segneranno davvero i possibili rapporti di forza a sinistra nel Pd e fuori da esso. Bersani per primo, i dissidenti sono impegnati nella campagna elettorale lì dove sono chiamati a dare una mano. Eppure la minoranza monitora alcune situazioni particolari. La tenuta delle regioni rosse Umbria, Toscana e Marche. Il dato della Puglia governata da 10 anni dal centrosinistra. E non sarà solo la percentuale del Pd a fare da spartiacque per preparare una lotta per la segreteria o per un’eventuale scissione. Conterà molto anche l’astensionismo, campanello d’allarme già suonato in Emilia Romagna. Si capirà qual è lo spazio per un’alternativa di sinistra nell’era del renzismo. Anche Renzi misurerà quanto può tirare la corda. 


I timori del leader sul bacino pd: Camusso dirà sempre no
Professori, pensionati e statali - la base sociale del Pd - sono in allarme. Il premier e i timori alla vigilia del voto a meno di 20 giorni dalle Regionali
Corriere 13.5.15
ROMA È un combinato disposto a dir poco preoccupante: a meno di venti giorni dalle elezioni regionali, professori, dipendenti del pubblico impiego e pensionati — in poche parole, le categorie che costituiscono la base sociale del Pd — sono in allarme. E questo è un problema, anche se Matteo Renzi ostenta la sicurezza di sempre, forte di alcuni sondaggi che rivelano, per esempio, come le famiglie degli studenti siano in maggioranza a favore del governo e contro i sindacati.
Del resto, la scuola, per il premier, è fondamentale. Ieri l’incontro con i sindacati è andato male, ma Renzi ha dato mandato ai suoi di non interrompere i rapporti, soprattutto quelli con la Cisl e di sondare, pure oggi, sia Annamaria Furlan che Susanna Camusso.«Continuare a trattare», è stata la sua parola d’ordine. «Probabilmente — ha spiegato ai collaboratori — la Camusso ci dirà sempre di no, ma la Cisl mi sembra abbia un atteggiamento diverso».
Però il premier, almeno in questo momento, non vuole aprire il fuoco nemmeno contro la Cgil, sebbene la dia già per persa, convinto com’è che Camusso abbia una «posizione pregiudiziale nei miei confronti». «Io — ha spiegato Renzi ai fedelissimi — non voglio fare polemiche con lei, ma non sopporto chi strumentalizza gli studenti e i docenti, chi pensa di alimentare divisioni sulla pelle della scuola».
Ma il premier sa che questa partita con la leader della Cgil non sarà facile. Ha visto che in Veneto quel sindacato lavora contro Alessandra Moretti e che si sta adoperando in tutta Italia per mobilitare contro il governo quella che è da sempre la base sociale del Pd.
Nella Cgil l’atteggiamento di Camusso non è condiviso da tutti. Non è piaciuta la rivolta anti Renzi e anti Moretti orchestrata sui social network. Pezzi importanti di quel sindacato non nascondono le loro perplessità, basti pensare a Carla Cantone, numero uno della Spi Cgil.
Ma ormai la Camusso è partita alla guerra e con lei sono partiti alcuni ex ds. Un nome per tutti? Lo fa lo stesso Renzi: Massimo D’Alema. Il premier è convinto che c’è chi, nel Pd, stia provando a indebolirlo nelle urne: «C’è gente che non accetta ancora il risultato delle primarie che mi hanno eletto segretario e cerca una rivincita nelle urne di maggio». I renziani spiegano così l’attivismo di una parte del Pd, a cominciare da D’Alema che l’altro ieri, in Calabria, ha spiegato che «deve vincere la sinistra, non uno solo». Quasi a dire, sostengono i supporter del premier, «che è meglio non votare il Partito democratico di Matteo». Il premier ritiene che questo sia un tentativo disperato, ma comunque portato avanti con grande forza: «Sanno che vinciamo anche le Regionali e vogliono fare del male al Pd» .
Renzi è sicuro che ci sia un solo modo per chiudere questo confronto con un pezzo del partito e della sinistra, e non riparlarne più: «Conquistare sei Regioni su sette».
Con un risultato del genere, attaccarsi alle percentuali ottenute dal Pd, sfruttando il fatto che vi sono molte liste civiche che toglieranno voti al partito, sarà un esercizio inutile. E Renzi potrà andare «avanti» con «le riforme», perché «ne abbiamo da fare ancora altre». A quel punto, anche il Senato — è opinione del premier — diventerà meno insidioso, «perché Forza Italia, dopo il risultato delle Regionali, scoppierà e ci sarà la fila di quelli che vorranno sostenere il governo».


La scommessa azzardata del segretario Pd
di Marcello Sorgi La Stampa 13,5.15
Anche se ha interrotto un lungo periodo di incomunicabilità, l’incontro, a dir poco interlocutorio, tra governo e sindacati per cercare un’intesa sulla riforma scolastica, non vuol dire che Renzi abbia deciso di frenare. E i leader di Cgil, Cisl e Uil, che hanno lasciato Palazzo Chigi senza nascondere le loro perplessità, hanno capito che la scuola rischia di trasformarsi - dopo la riforma del Senato, il Jobs Act e l’Italicum - nel nuovo terreno di scontro su cui il premier proverà ad affermare la volontà riformatrice del governo. Contro quella che ieri, in un forum con «Repubblica Tv», ha definito la «sinistra masochista», che, a giudizio di Renzi, ama perdere, ed anzi proprio in Liguria, mettendo in pista un candidato contro quella ufficiale del Pd, prova a far vincere Forza Italia.
A questo scopo l’offerta fatta ai sindacati riguarda solo alcuni meccanismi della riforma, ma in nessun caso Renzi è disposto ad accettare di stralciare le centomila assunzioni di precari dal resto della legge, come appunto avevano chiesto i sindacati. Inoltre i deputati Democrat sono stati precettati per il fine settimana, per arrivare entro lunedì ad approvare in prima lettura la riforma alla Camera. Va da sé che chi sceglierà di opporsi dirà no, non solo alla «buona scuola», com’è intitolato il disegno di legge del governo, ma anche alle assunzioni dei precari e all’investimento di 3 miliardi in tutto il settore.
Una scommessa azzardata. Ma perfettamente in linea con la partita che Renzi sta giocando dentro e fuori la sinistra. In altre parole il premier è convinto che accanto a quelli che resistono al cambiamento c’è un pezzo di società - in questo caso i giovani laureati non rappresentati dal sindacato - che spinge per eliminare i rigidi meccanismi di protezione che finora hanno governato il sistema scolastico, creando anche molte delle incongruenze che la riforma vorrebbe superare.


Renzi sfida la minoranza sul voto utile
Pd. Premier a tutto campo: «Sinistra masochista perde in Liguria e a Londra - In Campania candidati imbarazzanti ma Pd pulito» Fassina verso l’addio ma il leader minimizza: «Problema suo» - Bersani e Prodi all’attacco sull’Italicumdi Emilia Patta Il Sole 13.5.15
ROMA «Masochisti». «Mistificatore». Il clima che si respira nel Pd a quasi due settimane dalle elezioni in sette regioni è più quello di uno scontro congressuale che quello di un partito impegnato nel successo della campagna elettorale. Tanto che Matteo Renzi fa slittare l’assemblea del gruppo alla Camera, convocata per oggi per eleggere il successore di Roberto Speranza a presidente dei deputati dem, a dopo le elezioni: meglio evitare ulteriori motivi di frizione.
C’è ancora la polemica sull’Italicum appena approvato in via definitiva, che proprio ieri Romano Prodi e Pier Luigi Bersani sono tornati ad attaccare («turbano i 100 capilista decisi dall’alto così come la pluralità delle candidature» ha detto l’ex premier, mentre Bersani torna a chiedere rilevanti modifiche al Ddl Boschi sul Senato per evitare che ci sia un Parlamento fatto tutto di nominati con il conseguente pericolo di «trasformismo»).
C’è - rilevantissima - l’idea di partito, con Matteo Renzi che difende la vocazione maggioritaria del Pd proprio mentre la minoranza parla di pericolosa “mutazione genetica”: «Il Partito della nazione non è una melassa indistinta, un minestrone in cui entra di tutto, ma la prosecuzione del partito a vocazione maggioritaria di Walter Veltroni. È un partito di sinistra con una visione riformista del Paese - dice il premier e segretario democratico durante un forum su Repubblica.it -. Se vedo poi i numeri di quelli che se ne sono andati e di chi è arrivato, soprattutto da Sel, il numero è positivo. Siamo aumentati anche nell’ala sinistra. Non è vero che c’è il rischio di smottamento al centro».
E c’è naturalmente la vicina prova elettorale delle regionali, una sorta di mid term per il premier, con il caso Liguria in primissimo piano. I sondaggi di casa Pd registrano infatti non più di 3-4 punti di scarto tra la renziana Raffaella Paita e il berlusconiano Giovanni Toti. Il timore di perdere la Liguria il 31 maggio è dunque più che reale per Matteo Renzi. L’allarme è scattato. Per questo Renzi, dopo averlo fatto già venerdì sera proprio da Genova, torna ad attaccare quella che definisce «sinistra masochista», ossia la sinistra di Pippo Civati - appena uscito dal gruppo parlamentare e dal partito - che con il suo candidato in Liguria Luca Pastorino sta mettendo a rischio la vittoria della Paita contro Toti (i sondaggi danno Pastorino tra il 12 e il 14%, mentre la Paita non supererebbe il 30%). «C’è una sinistra masochista e una riformista, che è quella che abolisce l’articolo 18 perché quello che facciamo noi con il Jobs act l’hanno fatto anni fa Schroeder e Clinton - è l’accusa lanciata a tutta la sinistra interna -. In Liguria, per esempio, c’è la sinistra masochista che ha perso le primarie e anziché accettare la sconfitta di Sergio Cofferati ha messo in discussione quel risultato e ha presentato un suo candidato, che è Pastorino, non per vincere le elezioni ma per far vincere il candidato di Berlusconi, per rianimare con un massaggio cardiaco Berlusconi». Sullo sfondo, naturalmente, anche il caso sollevato da Roberto Saviano delle liste “sospette” a sostegno di Vincenzo De Luca in Campania. «Alcuni candidati mi imbarazzano eccome, ci sono candidati che non voterei neanche se costretto. Però dico che le liste Pd sono pulite», prova a circoscrivere Renzi non nascondendo appunto l’”imbarazzo”.
Parole, quelle del premier sulla sinistra masochista, che naturalmente non piacciono alla minoranza.?A cominciare proprio da Bersani: «Dire che la sinistra è masochista è una mistificazione: abbiamo visto che si può vincere essendo fedeli agli ideali di un centrosinistra alternativo alla destra: poco o tanto, dall’Ulivo in poi abbiamo sempre vinto così». Né piace alla minoranza, da Gianni Cuperlo a Speranza, il modo in cui Renzi sembra voler liquidare la possibile uscita dal partito di Stefano Fassina: «Spero che Fassina rimanga, ma se non rimane è un problema suo, non nostro». Per Cuperlo e Speranza se Fassina esce «è un problema per tutto il Pd». E in effetti Fassina, responsabile economica del Pd durante la segreteria Bersani e viceministro dell’Economia nel governo Letta, non è Civati: la sua uscita sarebbe più drammatica per quel pezzo di partito. Lui non fa mistero che l’addio è vicino. Anche se lo lega al Ddl scuola in arrivo in Aula alla Camera già domani: «Dal Jobs act alla scuola, è il tracciato di un percorso per me insostenibile».


Il presidente del Consiglio al videoforum di Repubblica Tv
“L’Italia sta ripartendo adesso serve un partito che sappia affrontare le sfide del paese” “Il mio Pd non cederà al centro è sinistra anche senza D’Alema. Stop ai masochisti che perdono”intervista di Claudio Tito Repubblica 13.5.15
ROMA Basta con la sinistra masochista, serve una sinistra riformista per affrontare le sfide del Paese. Matteo Renzi nel videoforum a Repubblica tv va dritto contro chi come Civati ha deciso di lasciare il Pd e contro la vecchia guardia degli ex ds. «Non è che se non ci stanno loro non c’è la sinistra. Il Partito della Nazione non è un minestrone indistinto ma un partito di sinistra».
INTANTO Civati se n’è andato via. Vi accusa di aver cambiato il partito proprio in senso centrista.
«Questo partito sta facendo i conti con una “crisi di crescita”: da sinistra sono arrivati di più di quanti se ne siano andati. Penso a Gennaro Migliore, Di Salvo e tanti con loro. Quindi non è vero che c’è un rischio di smottamento al centro, un rischio di perdita di identità. Ma quello che serve probabilmente oggi è una riflessione culturale un pochino più grande. Con la nuova legge elettorale, abbiamo oggi uno spazio politico straordinariamente affascinante per discutere di cosa dev’essere un partito, avrebbe detto Veltroni, a vocazione maggioritaria. Chi se ne va merita tutto il nostro rispetto ma andarsene per far che cosa? Per fare un movimento personale? Io voglio molto bene, anche personalmente, a Pippo Civati, sono andato a vedere sul suo sito per vedere che cosa ha in testa di fare. C’è scritto: “aderisci a Civati. it” cioè aderisci a un cognome».
Anche Fassina ha minacciato di uscire. In molti temono che questo Pd non sia più di sinistra o di centrosinistra ma un partito di centro. Sul nostro giornale Salvadori pone il problema del partito della Nazione proprio in questi termini.
«Leggo sempre Salvadori e credo che l’espressione “partito della nazione” vada chiarita. Reichlin ne parlò sull’Unità dopo il 41% alle europee come di una opportunità. Il che vuol dire un minestrone indistinto dove c’entrano tutti? No, è un partito di sinistra che è in grado di esprimere un’idea riformista del paese e della politica, che si apre, che si allarga agli elettori che possono essere elettori di sinistra radicale o moderati. Non ci vedo niente di male. Il partito della nazione è la continuazione del Pd».
Quindi i democratici non moriranno democristiani?
«Questo mi sembra del tutto evidente anche se il mio obiettivo è farli vivere, non farli morire. Se vuole però potremmo allargare la riflessione a quello che sta accadendo a livello europeo. Alla Liguria e al Regno Unito».
Cosa c’entrano la Liguria e la Gran Bretagna?
«Sono due simboli fantastici di una discussione che noi dovremmo fare. In tutta Europa c’è una sinistra riformista e una sinistra masochista. La sinistra riformista è quella che prova a vincere. È di si- nistra fare leggi come il divorzio breve, come l’autoriciclaggio, come la reintroduzione del falso in bilancio, come la legge sulla cooperazione internazionale, gli ecoreati, gli 80 euro alle fasce più deboli? Per me si».
Anche abolire l’articolo 18 è di sinistra?
«Assolutamente sì perché quello che stiamo facendo sul mercato del lavoro oggi in Italia lo ha fatto Schroeder in Germania 10 anni fa, lo ha fatto Clinton in America 20 anni fa. Certo è della sinistra riformista dare nuove tutele».
Va bene, ma cosa c’entra l’Inghilterra con la Liguria?
«In Inghilterra è accaduto che la scelta di Ed Miliband come candidato della sinistra, ha spostato il partito su una posizione più di sinistra e ha consentito a Cameron di avere la strada per rielezione più agevolata. Se ci fosse stato David sarebbe stato un altro film».
Cioè si vince al centro?
«Si vince su un profilo riformista che non vuol dire al centro. Da Manchester allora passo a Rapallo, perché in Liguria che è oggettivamente l’ultima spiaggia per Berlusconi, è accaduta una cosa molto semplice: la sinistra masochista ha chiesto le primarie, le ha perse, anziché accettare il risultato cosa che hanno fatto quasi tutti i dirigenti del Pd, ha rimesso in discussione quel risultato e ha candidato Pastorino contro il candidato ufficiale del Pd Lella Paida. Lo fa non per vincere ma per far vincere il candidato di Berlusconi, Giovanni Toti. Per rianimare con il massaggio cardiaco Forza Italia. Forza Italia ha una sola possibilità di essere rianimata e gliela dà la sinistra masochista».
Lei vede il rischio di una scissione? Chi minaccia di uscire evoca il dubbio che chi proviene dai Ds, dal Pci possa avere cittadinanza in questo partito.
«Io non so qual è la sinistra che proviene dai Ds e che non ha cittadinanza in questo partito. Penso al ministro della Giustizia Orlando, a quello dell’Agricoltura Martina, a quello dell’Economia Pier Carlo Padoan, al sottosegretario De Vincenti, al ministro del Lavoro Poletti. Nel Pd ci sono espressioni varie».
E quell’altra parte che fa riferimento a D’Alema o a Bersani?
«Con grande rispetto per D’Alema e per Bersani, non è che se non ci sono loro non c’è la sinistra che proviene dai Ds. Non è che siccome non c’è D’Alema allora non c’è la sinistra. Non è che sinistra è dove ci sono “io”. Il fatto che non ci sia D’Alema a me dispiace per D’Alema ma non è che mi dispiaccia per il paese. Spero che Fassina rimanga, se non rimane però è un problema suo, non nostro».
A proposito di voto locale, in Campania resta il caso De Luca. Non la imbarazza l’imbarcata di improponibili?
«Alcun candidati mi imbarazzano eccome. Però le liste del Pd sono liste pulite».
Forse le liste del Pd ma non tutte quelle che sostengono De Luca.
«Abbiamo cambiato candidato a Ercolano e a Giugliano. Su alcune liste collegate al presidente si può discutere, hanno dei candidati che personalmente non voterei neanche se costretto, ma il Pd ha candidati seri».
Il punto è che in quella regione si è data l’idea di imbarcare un po’ tutti per vincere.
«Non voglio giustificare perché credo che da questo punto di vista ci siano alcuni candidati che siano non soltanto impresentabili ma ingiustificabili. Detto questo la partita è tra Stefano Caldoro e Vincenzo De Luca».
Su De Luca c’è un altro problema: se vince le elezioni sarà subito sospeso per la legge Severino.
«E’ sicuramente una contraddizione e nessuno può negarlo. Il punto vero è che nel momento in cui si è consentito a Vincenzo De Luca di fare le primarie si è preso atto di una situazione e cioè che quella norma è stata immediatamente disapplicata a Salerno, ma soprattutto a Napoli perché come è noto il sindaco di Napoli ha la stessa condizione in cui si trova l’ex sindaco di Salerno futuro presidente se vincerà le elezioni. Per cui è un problema sostanzialmente superabile».
Non sarà il caso di rivedere il sistema delle primarie?
«Le primarie sono un valore insostituibile. Preferisco le primarie ai caminetti. Però voglio discutere in modo serio per inventare nei prossimi due anni un modello di partito nuovo. Andiamo alle primarie all’americana? Andiamo a un modello con il voto degli iscritti? Dobbiamo trovare un modo di fare le primarie magari non per tutte le cariche: Discutiamone. Anche sull’articolo 49 della Costituzione».
Nel frattempo dovrà discutere di scuola. Cambia il testo? Ad esempio sui poteri ai presidi?
«Già stiamo correggendo. Però sulla riforma della buona scuola sicuramente c’è un errore mio, lo dico con molta franchezza, di mancata comunicazione. L’autonomia richiede che ci sia una responsabilità più forte in capo a qualcuno. Noi nel disegno di legge, dopo una lunga consultazione, abbiamo individuato tre poteri ai presidi. Sul piano formativo abbiamo già detto che il preside propone ma il consiglio d’istituto che sentito il collegio dei docenti approva il progetto. La valutazione dei docenti può essere affidata a un nucleo di valutazione. L’importante è che non si elimini la qualità e il merito. Terzo punto la scelta delle singole classi, io credo che sia normale, che il preside possa decidere se in A ci va quello o ci va un altro mi sembra del tutto evidente ».
C’è chi paragona il ruolo dei sindacati dentro la scuola a quello del caporalato.
«Non parlerei di caporali ma la scuola non funziona se è in mano soltanto ai sindacati. La scuola non funziona se è in mano al governo. La scuola funziona se è in mano agli studenti, ai docenti, ai dirigenti, alle famiglie, al personale tecnico, se è di tutti. Però noi sulla scuola mettiamo i soldi, i governi precedenti li toglievano».
Farà un decreto per assumere i precari?
«Tutti i precari della scuola non possono essere assunti. Perché nella scuola si entra per concorso. Non puoi pensare che improvvisamente prendi 400mila precari e li metti dentro. Non ci sarà un decreto possiamo assumere solo se cambia il modello organizzativo».
A proposito di regolarizzazione, dopo la sentenza della Corte costituzionale, il governo interverrà per restituire i soldi ai pensionati cui era stati congelati gli scatti?
«Verificheremo cosa dice la sentenza e poi vedremo. La sentenza non dice che bisogna restituire tutto. Lo affronteremo il prima possibile. È evidente che si pone un problema nei conti pubblici ma è del tutto alla nostra portata: rispetteremo i parametri Ue, i saldi non cambieranno. Mi ero tenuto un tesoretto, avevamo studiato alcune misure, me le sono dovute rimangiare. Abbiamo un po’ masticato amaro... Ma siamo vincolati».
Anche nella lotta all’immigrazione non è che l’Ue ci stia aiutando. Insistete ancora sulla distribuzione degli immigrati in tutti i paesi partner?
«Questa è una proposta che arriva dalla Commissione, è chiaro che non può essere soltanto l’Italia a farsi carico di accogliere questi nostri fratelli e sorelle che vengono dall’Africa».
L’ipotesi di bombardare i barconi è ancora praticabile?
«Lo studio è pronto, noi siamo pronti a intervenire. Mi aspetto non un mandato ma una risoluzione Onu complessiva e alla luce di questo valuteremo.
Ci sono i soldi per il reddito di cittadinanza? E i rapporti con il Movimento 5Stelle su questo sono concreti?
«Mi pare che di concreto con 5Stelle ci sia poco. Il reddito di cittadinanza nel senso che tutti i cittadini da Agnelli in giù hanno un reddito è una follia. L’idea di una misura contro la povertà è una cosa su cui stiamo lavorando e siamo disponibili a parlare con il 5Stelle e con gli altri, ovviamente compatibilmente con i vincoli di bilancio».
Dopo l’Italicum pensa che sia possibile modificare alcuni punti della riforma costituzionale. Soprattutto per quanto riguarda il ruolo del Senato?
«Sì noi siamo disponibili a discuterne nel merito».
Quando spera si possa celebrare il referendum confermativo?
«Nel 2016».
E poi si torna a votare?
«Si va a votare nel febbraio del 2018».
Si torna a parlare di conflitto di interesse. È un modo per vendicarsi della fine del patto del Nazareno?
«Ma per quale motivo? E’ un modo per essere seri e civili, ed essere all’altezza di questo paese. Siamo l’unico paese che non ha una legislazione sul conflitto di interessi.
Forza Italia secondo lei è in difficoltà perché il leader è ancora Berlusconi?
«Occhio a dare Berlusconi per finit o, nel senso che Berlusconi davvero ha più vite di un gatto, politicamente parlando naturalmente. Io auspico che ci sia un bel partito repubblicano di destra così possiamo sconfiggerlo, spero. Ma un partito repubblicano come c’è il Partito democratico ». 

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