Lo stesso si può dire del tema centrale del rapporto con l'Europa: pur essendo stata l'unica forza politica verbalmente contraria a Maastricht, la sinistra radicale è stata ed è percepita come subalterna alla retorica dell'europeismo strumentale. Come è giusto che sia, avendo a suo tempo essa assecondato nella pratica il processo di convergenza dell'Unione, in spregio persino alle sue convizioni più profonde.
Anche in questi casi, l'inefficacia della sinistra è legata alla sua totale mancanza di credibilità. Non si tratta della sua frammentazione, che è solo una conseguenza: è l'aver partecipato ai governi di centrosinistra - e l'essere uscita da quella prospettiva non in maniera ragionata e autonoma ma solo perché è ormai inutile al PD - che le toglie quasi ogni chance di accumulare consenso.
Questo ci dà la misura del lavoro decennale che sarà necessario per ritrovare una ragion d'essere.
I conigli dal cilindro, i Landini, i Civati e i pasticci organizzativi delle Altre Europe o delle Costituenti sono solo marchingegni per accumulare delusioni e un prolungamento dell'agonia, in mancanza di un serio ripensamento strategico [SGA].
Barbara Spinelli: "La lista Tsipras è finita tutta colpa di Sel e Rc ma io non mi dimetterò"L'europarlamentare spiega il suo abbandono: i partiti predominavano non dovevamo lasciare la battaglia sul reddito di cittadinanza al M5Sdi SEBASTIANO MESSINA Repubblica
Il Partito della Nazione da Gramsci a Renzi
“Siamo un partito dell’establishment, liberista sul piano economico plebiscitario su quello della democrazia” L’ex viceministro: “Invertire la rotta a partire dalla riforma della scuola Vincere sì, ma non ad ogni costo”intervista di Giovanna Casadio Repubblica 13.5.15
ROMA «Sono pronto a lasciare il Pd se non cambia radicalmente la riforma della scuola». Stefano Fassina è sul punto di uscire dal partito: «Dopo il Jobs Act e le questioni istituzionali - attacca - il Pd si è riposizionato, in modo da accreditarsi a destra». Con il premier non c’è mai stato feeling. Tanto che una delle prime battutacce di Renzi, diventato segretario, fu di minimizzare le critiche di Fassina con un “Fassina, chi?”.
Fassina, il Pd - dice Renzi - è e resta un partito di sinistra. Lei invece non è di questa opinione?
«Non è un’opinione, ci sono i fatti che parlano. Uno non se lo dice davanti allo specchio che è di sinistra. Neanche il ripescaggio della simbologia storica - mi riferisco al brand delle feste dell’Unità - copre lo spostamento, meglio il riposizionamento di cultura politica, di programma e di interessi rappresentati. E gli esempi sono tanti».
Facciamone qualcuno.
«Innanzitutto il lavoro. Quando Renzi è venuto a presentare la delega-lavoro in aula ha motivato l’intervento con il paradigma dell’apartheid, che scarica sui lavoratori con qualche residua tutela, il problema della disoccupazione e della mancata crescita. È il paradigma introdotto da Reagan. C’è poi il disegno plebiscitario, imposto con il voto di fiducia sull’Italicum: uno sfregio al Dna costituzionale del Pd. Con una mano inoltre si danno 80 euro a chi ha un lavoro, con l’altra si riprendono con tagli al welfare locale. L’atteggiamento di ottusa arroganza nei confronti dello sciopero di 618 mila lavoratori della scuola è l’ultimo esempio di un premier che colpisce sistematicamente gli interessi economici e sociali rappresentati dalla sinistra per accreditarsi a destra».
La “sua” sinistra è quella che il premier definisce “masochista”, che non vince e si accontenta di un 25%?
«Abbiamo per la verità vinto nel 1996 e nel 2006. Vincere è condizione necessaria per la politica, ma è un mezzo per cambiare la società. Mentre per Renzi è un fine da raggiungere con qualunque mezzo. Anche spostandosi sulla piattaforma della destra».
Seconde lei, il Pd è diventato un partito centrista?
«È diventato un partito dell’establishment, sostanzialmente in asse con l’agenda tedesca che domina in Europa, con un impianto liberista sul terreno economico e sociale e plebiscitario sul terreno della democrazia».
La conseguenza di questo suo giudizio è che uscirà dal Pd?
«Senza radicali modifiche al disegno di legge sulla scuola, senza cioè cancellare il potere dei presidi di chiamare i docenti, senza una soluzione dignitosa per gli insegnati precari e, ripeto, dopo la svolta liberista sul lavoro, dopo le revisioni regressive della Costituzione e sulla legge elettorale, il mio percorso parlamentare nel Pd diventa insostenibile».
Renzi tuttavia le chiede di restare?
«Mi sembra una richiesta rituale. Serve un’inversione di marcia».
Per il premier, se va via dal Pd tanto peggio per lei? È un suo problema?
«Renzi non riconosce il problema politico, che non è il sottoscritto, ma lo pone una parte significativa del popolo dem che ha già lasciato il Pd».
Pensa nascerà una forza politica alla sinistra del Pd?
«C’è evidentemente una domanda di rappresentanza, che viene dal lavoro, dalla scuola e da chi non ce la fa. Non trova risposte nel Pd di Renzi».
È pronto a un progetto con Pippo Civati, che ha appena lasciato il Pd, e con la “coalizione sociale” di Landini?
«Con Civati e con gli altri parlamentari dem che hanno tentato di correggere le cosiddette riforme ci sentiamo e continueremo a sentirci».
commentate in modo duro da diversi esponenti. Anche da Roberto Speranza, che ha cercato di ricucire le posizioni prima di passare all’opposizione totale con il no alla fiducia: «Renzi sbaglia su Fassina. Non è un problema solo suo se uno come lui ha dubbi sul Pd. È un problema di tutto il partito». Gianni Cuperlo è ancora più diretto: «Se personalità come Cofferati e Civati se ne vanno e Fassina sta riflettendo, allora il problema è del leader del partito e nostro, non certo suo». Durissimo l’altro dissidente più critico nel partito, considerato tra i possibili a dare l’addio insieme a Fassina, Alfredo D’Attorre: «L’arroganza di Renzi è preoccupante e un po’ imbarazzante».
Una tensione che ha suggerito a Renzi di rinviare la nomina del nuovo capogruppo alla Camera, successore di Roberto Speranza. Troppo pericoloso andare al voto segreto (basta la richiesta di un deputato) su un nome come quello di Ettore Rosato, che fino a ieri sembrava il più probabile e che però rischiava di essere impallinato, a pochi giorni dalle Regionali. Tutto rinviato a dopo il voto, dunque, e lì si giocherà anche con altri nomi: tra quelli che circolano, ci sono Lorenzo Guerini, Enzo Amendola e Andrea Martella. Non è escluso che Renzi voglia mettere mano nello stesso tempo a più partite: non solo il nuovo capogruppo, ma anche il ministro per gli Affari regionali e il viceministro per le Attività produttive, che sono ancora vacanti.
di Sergio Soave La Stampa 13.5.15
«Civati se ne gghiuto e soli ci ha lasciato». La celebre battuta di Togliatti su Vittorini, insieme cinica, sprezzante e realistica, gira oggi sui social a proposito di Civati e sembra interpretare alla perfezione il silenzio di Matteo Renzi.
Anche se i tempi sono cambiati.
Togliatti sapeva di avere in pugno totalmente il partito (e quel partito!) e sulla fuga degli intellettuali nutriva pochi timori. Li sapeva uniti dal fortissimo giogo dell’ideologia e anche dal fatto che, grazie alla sua calcolata maestria, aveva dato loro la possibilità di autoassolversi da un passato di preoccupante, generale adesione ai miti e ai temi del fascismo.
Poteva sì pensare che la storia, in un lontano domani, avrebbe potuto dare ragione all’inerme letterato siciliano, ma per un ragionevole lasso di tempo era sicuro che nessuno lo avrebbe seguito. Come, infatti, avvenne.
Oggi tutto è diverso, tutto cambia di giorno in giorno; l’ideologia è fragilissima, di intellettuali maestri ce ne sono pochi, anche se tanti aspirano al ruolo; fare disegni sul medio o lungo periodo è molto meno agevole di un tempo e quindi il rischio che, grazie al riflesso autodistruttivo sempre incombente a sinistra, la piccola palla di neve possa trasformarsi in una slavina ai danni di Renzi è da prendere in considerazione.
Già si studiano le mosse di Fassina, già la Camusso ha pronunciato parole di fuoco sul Pd, già Landini si è fatto ringhioso e Vendola ha prontamente iniziato a stendere soffici tappeti per un passaggio che veda finalmente la sinistra-sinistra occupare quel 10% che è suo, anche se oggi, bruciato da mille avventurosi tentativi, non scorge ancora il serio ancoraggio che la spinga a gonfiare le vele.
Ma Civati è l’uomo giusto?
Nella cinica battuta mutuata da Togliatti o nel silenzio di Renzi c’è tutta la risposta.
E vi si aggiunge un altro aneddoto, più vicino a noi, quello relativo a un giovane di belle speranze che dimostratosi riottoso alle trasformazioni (Pci-Pds-Ds) con ambizioni di leader nazionale, fu stroncato da una fulminante battuta di Cossiga che, riferendosi alla sua eleganza e bellezza e al garbo sofisticato dell’eloquio, disse di vederlo meglio come «indossatore», anziché come leader di una storica resurrezione. E ciò bastò a relegarlo come comprimario nella trafficata landa di disegni altrui.
Oggi quella battuta, riferita prontamente a Civati, può essere il segno di una qualche paura da eliminare con gli scongiuri di rito, ma può anche essere la perfetta sintesi della sua maledizione.
Che cosa rappresenti Civati è infatti incerto: un vago sinistrismo, una critica costante alle mosse, certo non tutte condivisibili di Renzi, un cavalcare i boatos di rischio per la democrazia, un ossessivo dipingere il capo del suo partito come uomo di destra (che è l’unica disperata giaculatoria della propaganda sinistrorsa).
In più c’è quell’incauto scorgere sterminati spazi fuori del Pd, unito alla propria ambizione di costruire su ciò un grande o almeno medio partito, perché di partitini non saprebbe che farsene. Ma allora gli spazi si riducono, sol che si pensi che i grillini, per ora, occupano quasi interamente la scena di ciò che vorrebbe rappresentare.
Né gli giova la leggenda che tutto questo suo muoversi derivi dal fatto di non essere stato lui il capo della grande trasformazione del Pd e di aver dovuto cedere a Renzi uno scettro che sperava suo.
Insomma, se vuole essere davvero leader di una cosa di sinistra che non sia legata alla pura sopravvivenza di qualche seggio parlamentare, Civati dovrà fare molta strada.
Dicono che sia uno che calcola attentamente le mosse. Ma, oggi come oggi, non sembra ancora capace di dominare le variabili di un gioco che lo spinge, per ora, sulle prime pagine dei giornali, ma che domani potrebbe relegarlo a un ruolo molto lontano dalle sue ambizioni.
Perché il suo sogno di incrinare o di abbattere il consenso di Renzi potrebbe anche realizzarsi (non per meriti suoi), ma il rischio di finire nel capitolo poco edificante delle divisioni della sinistra sembra il più realistico degli esiti.
di Pierluigi Battista Corriere 13.5.15Un consiglio a chi volesse temerariamente accingersi alla formazione di nuove aggregazioni elettorali alla sinistra della sinistra del Pd: evitare gli inciampi, gli errori, le gaffes, gli incidenti, le piccinerie che hanno contrassegnato le avventure della sfortunata Lista Tsipras. L’ultima scena è il seggio di Barbara Spinelli al Parlamento europeo che resta alla Spinelli anche se ha deciso di lasciare il gruppo Tsipras e anche se aveva promesso che, una volta eletta, avrebbe lasciato a qualcun altro il seggio. Promessa non mantenuta. Ma cosa è stato mantenuto del progetto iniziale che prendeva il nome dal messia greco di una sinistra vincente e combattiva, capace di scalfire la sinistra accomodante e troppo moderata e troppo vincolata alle politiche della finanza europea? Era all’inizio un nutrito e prestigioso gruppo di intellettuali che si mettevano insieme per un listone di sicuro successo assieme al più tradizionale e vendoliano Sel: Moni Ovadia, Barbara Spinelli, Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri. Poi, improvvisamente, Camilleri e Flores d’Arcais hanno dato forfait, lasciando intuire fratture insanabili, anche se non si è mai chiarito in che consistessero esattamente. Poi defezioni, arretramenti, contrasti. A un certo punto, a corto di ossigeno e constatando che i media non erano più disposti a trattare la Lista Tsipras come una clamorosa e vincente novità, venne un’idea alla portavoce Paola Bacchiddu: farsi riprendere in bikini per conquistare qualche pagina dei giornali, per infrangere il muro del silenzio. Ma l’ala accigliata della lista, severa, custode dell’integrità etica della nazione, considerò quel gesto come un sacrilegio. Si scontrarono due modi di vedere le cose e il mondo. La lista perse la sua compattezza. Le appartenenze tradizionali riprendevano il sopravvento. Le elezioni furono un mezzo disastro, ma il risultato fu un disastro totale quando la neoeletta Spinelli decise di tenersi il seggio al Parlamento europeo sottraendolo a Sel, che si inalberò assai. Ora si parla di nuove aggregazioni, di «coalizioni sociali». Sarebbe il caso di prendere lezioni dalla vicenda Tsipras per capire quello che «non» si deve assolutamente fare per trasformare un’avventura avvincente in un epilogo grottesco, con gli intellettuali che scappano e le forze politiche che si pentono. Per non finire in un pianto. Greco.
Spinelli: lista Tsipras frammentata, perciò me ne vadodi Massimo Rebotti Corriere 1.5.15
Milano La permanenza di Barbara Spinelli nel gruppo della lista Tsipras all’Europarlamento è durata un anno. Giornalista, scrittrice, figlia di Altiero, considerato uno dei padri fondatori della costruzione europea, nel 2014 lancia (con altri) una lista che ha come modello la sinistra greca di Alexis Tsipras. Durante la campagna elettorale mise in chiaro che, se eletta, non sarebbe andata a Bruxelles. Una volta eletta, cambiò idea: «Così garantisco — disse — che il progetto non venga snaturato». Due giorni fa ha annunciato l’abbandono del gruppo (non del seggio) perché «il progetto non è più all’altezza».
Sembra una delle ricorrenti contorsioni della sinistra, difficile da spiegare: «Ma io ci provo — risponde— la lista era nata con l’obiettivo di creare un’aggregazione che andasse oltre i vecchi partitini della sinistra radicale e non ripetesse le esperienze fatte in passato di frammenti che si uniscono, diventando mosaici sconnessi». Eppure pare essere andata proprio così. Spinelli non lo nasconde: «Ma non sono io che mi sono allontanata dalla lista, è la lista che si è allontanata dal progetto originario».
La fondatrice ora ha scelto di essere una parlamentare indipendente della Sinistra europea, un’ulteriore frammentazione: «Ma una persona che fa una scelta da sola — obietta — non produce frammentazione. La frammentazione è responsabilità degli apparati dei partiti. I deputati indipendenti, poi, hanno un ruolo importante». Barbara Spinelli nega la contraddizione di oggi rispetto a quando scelse di andare a Bruxelles: «Speravo che il progetto si salvasse e invece si è frantumato». Lo sguardo ora è a ciò che si muove in Italia: «Quando vedo che ci sono tentativi di andare oltre, come la “coalizione sociale” di Maurizio Landini, ne deduco che la nostra proposta è superata». Il piano del leader della Fiom piace: «Se diventerà strutturato e significativo allora mi sentirei di rappresentarlo all’Europarlamento».
Il punto resta sempre lo spazio a disposizione per una sinistra fuori dal Pd. La lista Tsipras arrivò al 4%, numeri inadeguati per qualsiasi ambizione. «Ma l’alternativa a Renzi non è un’illusione — risponde — ci sono tanti gruppi, a cominciare da Libertà e giustizia di cui sono membro, che si impegnano per salvare una democrazia costituzionale che in Italia ora è a rischio per il fortissimo accentramento dei poteri nell’esecutivo impresso dal leader pd. Sono d’accordo con chi dice: c’è una parte della società che, in quest’era renziana, non ha rappresentanza». Che gliela possa fornire la sinistra (e non Salvini), è però tutto da vedere. La lista Tsipras, per esempio, si è distinta per le divisioni: «Siamo stati troppo litigiosi, è vero, e sotto questo aspetto l’esperienza mi ha deluso. Ho preso poi alla lettera, sbagliando, la promessa di Sel e del Prc di sciogliersi in qualcosa di nuovo. Non è successo. Ci sono stati errori, anche da parte mia. Mi ricordo, per esempio, quando rinunciammo alla candidatura di un’ambientalista di valore, Antonia Battaglia, per compiacere nella terra dell’Ilva alcuni esponenti di Sel».
Dell’esperienza a Bruxelles, invece, non è delusa — «è avvincente» dice — mentre definisce «cruciale» il negoziato che il leader greco Tsipras sta conducendo con le istituzioni europee: «La crisi è talmente profonda che diventa sempre più forte il bisogno di strade alternative».
Per Barbara Spinelli quest’anno e mezzo in politica è stato, come minimo, travagliato: «Nessuno vive senza dubbi, a meno di non essere fatto di plastica. Quando ho scelto di andare a Bruxelles penso di aver risposto a una domanda forte degli elettori. Non tolleravano l’idea che uno facesse il portabandiera senza poi assumere il peso della carica». Ora c’è il prossimo tentativo: «La bandiera l’hanno presa Landini e Rodotà. Quel discorso iniziato da noi adesso può proseguire in altri modi».
Bersani: Renzi mistifica L’ex segretario: il centrosinistra ha vinto altre volte Referendum di Civati contro i nominati dell’Italicumdi Goffredo De Marchis Repubblica 13.5.15
ROMA .Dopo le regionali «costruiremo un punto di vista alternativo a Renzi». Roberto Speranza dice che lo strappo sulla fiducia all’Italicum è stato già molto forte, che non è questo il momento per dividersi e poi la vecchia scuola della sinistra impedisce colpi di testa alla vigilia delle elezioni. «Io faccio campagna elettorale a tappeto. Vado dappertutto per far vincere il Pd e i suoi candidati», racconta l’ex capogruppo. Ma «un attimo dopo» gli oppositori di Renzi cercheranno una linea comune contro la narrazione renziana. E sembrano pronti a farlo attraverso la «mobilitazione » che significa piazze, appoggio a piattaforme sindacali e di categoria — dalla scuola al lavoro — opposizione dura alla legge costituzionale con i numeri del Senato sempre in bilico e attraverso le feste dell’Unità che scattano all’inizio dell’estate. Un banco di prova fondamentale per misurare la forza di un progetto di sinistra. Dentro il Pd, per ora.
L’ex Pippo Civati parte subito oggi presentando un quesito pilota per affossare la nuova legge elettorale con un referendum. «È un contributo aperto a tutti, anche alla minoranza del Pd. Punta a cancellare i capolista bloccati, chi ha fatto quella battaglia spero sia dei nostri», dice il fuoriuscito. Il messaggio è rivolto a Bersani e ai suoi fedelissimi, che sulle preferenze avevano preparato le barricate. Alfredo D’Attorre non esclude un sostegno: «Vediamo i quesiti anche se i temi sociali ed economici mi sembrano più urgenti e mobilitanti». Lo stesso ex segretario, al Tg1, indica un altro bersaglio del futuro immediato: la riforma costituzionale. «La norma non va bene. Crea un Senato dei consiglieri regionali e già li immagino seduti a un tavolino che si spartiscono i posti di assessore o di senatore. Bisogna cambiare». In più, dice Bersani, l’Italicum resta una cattiva legge che «aiuterà la demagogia e il trasformismo». Andrà capito allora come farà a non appoggiare o ad accarezzare i quesiti referendari di Civati, tanto più quando la campagna di raccolta firme sarà scattata. Adesso Bersani vuole soprattutto smontare la «mistificazione» del premier sulla sinistra masochista che sa solo perdere: «Il centrosinistra ha vinto molte volte. Con i suoi ideali e con le sue idee. Non con quelle degli altri ».
Comunque la strada principale della minoranza appare quella di cavalcare la mobilitazione dei sindacati e delle categorie partendo dalla scuola. Un modo per connettersi al proprio mondo di riferimento. «Quello è sempre stato un nostro bacino elettorale, non va trattato così », dice Nico Stumpo. Che è anche preoccupato per le uscite dal Pd già avvenute e per quelle possibili. «Il segretario di un partito si occupa di tutto il partito. A volte si ha il dubbio che Renzi continui a comportarsi come il leader di una parte, i renziani». L’addio probabile di Stefano Fassina viene vissuto con maggiore partecipazione da quella che un tempo si chiamava la Ditta. Al di là della differenza di toni e di scelte, Fassina rimane vicinissimo a Bersani. «È una persona con l’anima », dice di lui l’ex segretario. «Rappresenta sensibilità che non possono mancare nel Pd. Così come Civati incarna ben 400 mila voti delle primarie. Se escono non è un problema loro, ma di tutto il Pd», aggiunge Speranza. «Quando Civati, Cofferati e forse Fassina, persone valide, lasciano un progetto — dice Gianni Cuperlo — il problema è del segretario, è nostro ». Fassina non nasconde il suo malessere e prepara l’uscita dal Pd proprio sul ddl “la buona scuola” quando verrà votato da Montecitorio.
Ma le regionali segneranno davvero i possibili rapporti di forza a sinistra nel Pd e fuori da esso. Bersani per primo, i dissidenti sono impegnati nella campagna elettorale lì dove sono chiamati a dare una mano. Eppure la minoranza monitora alcune situazioni particolari. La tenuta delle regioni rosse Umbria, Toscana e Marche. Il dato della Puglia governata da 10 anni dal centrosinistra. E non sarà solo la percentuale del Pd a fare da spartiacque per preparare una lotta per la segreteria o per un’eventuale scissione. Conterà molto anche l’astensionismo, campanello d’allarme già suonato in Emilia Romagna. Si capirà qual è lo spazio per un’alternativa di sinistra nell’era del renzismo. Anche Renzi misurerà quanto può tirare la corda.
Nessun commento:
Posta un commento