venerdì 22 maggio 2015
Vivere nella postmodernità, senza che nessuna alternativa sia minimamente pensabile
Se c’è oggi un’esperienza condivisa è un senso di impotenza, di
mancata presa sugli eventi, di inibizione alla prassi. Non si dubita
più se la realtà esista o se sia costruita. La dominante è pratica: la
realtà esiste e io ne avverto il peso, solo non riesco a farci nulla,
col dubbio se non sia io a non esistere davvero, a non esistere in modo
significativo. Che io ci sia o non ci sia è ininfluente. Altri
agiscono, altri decidono.
In un esperimento descritto da Henri Laborit ci sono tre gabbie e tre
topi. Alle povere bestie vengono somministrate scosse elettriche. Il
primo topo ha la possibilità di uscire dalla gabbia. Il secondo non può,
ma gli è stato affiancato un suo simile su cui sfogare rabbia e
frustrazione. Al terzo entrambe le alternative sono precluse. Sottoposti
a controlli, i primi due non accusano sintomi. Al terzo vengono invece
diagnosticate perdita di pelo, ipertensione arteriosa e ulcera
gastrica: l’impossibilità di agire fa ammalare. L’esperimento ci turba
perché ci rappresenta. Quali sintomi si manifestano in una società in
cui l’azione politica è sentita come impossibile non perché proibita ma
perché ineffettuale, senza esito, svuotata di ogni concretezza?Dicono i
filosofi che l’umano è davvero tale solo se ha la facoltà di agire
politicamente in mezzo agli altri, altrimenti è puro metabolismo,
biologia, animalità. Si può discutere se questo sia vero. Non si può
discutere su quanto sia diventato difficile verificarlo. Certo è che
l’impossibilità di agire ci rende meno umani.
Daniele Giglioli,
docente di Letterature comparate all’Università di Bergamo, collabora
con il “Corriere della Sera”. Ha pubblicato, tra l’altro: Tema (La Nuova Italia 2001); Il pedagogo e il libertino (Bergamo University Press 2002); All’ordine del giorno è il terrore (Bompiani 2007); Senza trauma (Quodlibet 2011); Critica della vittima (Nottetempo 2014).
L’uomo a zero dimensioni Senza politica resta la biologia
di Carlo Bordoni Corriere 22.5.15
Topi in gabbia. Cavie per testare la resistenza alla frustrazione,
provocata da una scossa elettrica che paralizza, blocca il movimento,
inaridisce il pensiero in un fermo immagine che sopisce la coscienza. È
il quadro deprimente di una società disagiata, più disposta a elaborare
il lutto che a cercare vie d’uscita. Da quando l’individuo ha perduto la
capacità dell’agire politico e si è ripiegato in una soggettività
autoreferenziale rivolta a far mostra di sé.
Un’inibizione ad agire su cui indaga Daniele Giglioli ( Stato di
minorità , Laterza), tornando alla politica come azione nella polis , il
cui protagonista è lo zoon politikon , l’animale politico che opera per
il benessere comune.
Giglioli parte da lontano, da Aristotele e Kant, da tre topi in gabbia,
ma anche dal Saggio sulla lucidità di José Saramago, vero leitmotiv del
suo discorso, assieme ad altri romanzi, in un continuo scambio tra
realtà e immaginario che richiama una metodologia sociologica della
letteratura.
Perché il saggio di Giglioli è intriso di spirito illuminista. A
cominciare dal titolo, quello Stato di minorità da cui Immanuel Kant, in
un breve testo del 1784, esorta a uscire per «valersi del proprio
intelletto». Sapere aude! Così che il tempo nuovo del secolo dei Lumi
rappresenti il passaggio all’età adulta dell’uomo. Eppure, solo due anni
dopo la Prussia di Federico Guglielmo aveva un rigurgito di fanatismo
religioso e di restrizione della libertà di pensiero, tanto da imporre a
Kant il silenzio.
La storia della modernità è segnata da continue fasi di emancipazione e
repressione, rivoluzione e controrivoluzione; l’eterna lotta, a detta di
Theodor Adorno, tra capitalismo e democrazia.
Ma la condizione attuale si differenzia dal passato per quella che
Giglioli definisce l’assenza di agency , d’iniziativa e possibilità di
scelta. Una visione pessimista, forse proprio perché generata
dall’Illuminismo: lo «stato di minorità» da cui la ragione sembrava
averci liberato, incombe nuovamente. Questa volta senza troppe speranze
di evolversi verso la maggiore età, per una serie di dispositivi esposti
con acutezza, che fanno di questo breve saggio una cassetta degli
attrezzi per comprendere il presente.
L’uomo d’oggi ha scarse opportunità di agire politicamente. E senza
agency — anche se volta allo sforzo di un esercizio senza potere, dato
che politica e potere hanno divorziato da tempo — non ha alcuna
possibilità di incidere sulla realtà, né di modificarla. Una condizione
paralizzante ben più grave della liquidità indicata da Zygmunt Bauman,
poiché non impedisce a chi ha il potere di usarlo contro gli altri.
All’assenza di valori e di punti di riferimento, Giglioli affianca il
concetto di «anomia», non tanto assenza del nomos , della legge, quanto
minaccioso avvento (attribuito a San Paolo) dell’Anticristo, « o
anthropos tès anomìa », l’uomo privo di misura e di senso, la cui
esistenza è vana per gli altri. Le conseguenze di questa impasse
politica, dove il ruolo dell’umano è ridotto alle pure funzioni
metaboliche (secondo una felice definizione di Hannah Arendt), dove è
indubbia la responsabilità della spinta al consumismo e alla continua
crescita, hanno il sapore di un ritorno all’ordine. Non è un fatto
casuale, come siamo portati a ritenere, affranti dalla crisi della
modernità e delle sue certezze, convinti di vivere in un «interregnum»
di durata temporanea.
Sopportiamo con condiscendenza la servitù volontaria del Tina ( There Is
No Alternative ), che nega ogni altra possibilità. Nelle cui finalità
si nasconde l’esigenza diffusa — avvertibile negli strati più alti
dell’atmosfera di questo pianeta, dove si muovono i flussi finanziari
liberati dalle catene della politica — di infliggere un giro di vite
alla democrazia. A quell’eccesso di democrazia che il Novecento ha
accumulato e che non è più sopportabile alla luce delle nuove esigenze
della globalizzazione, perché «troppa democrazia non è compatibile con
la governabilità».
All’individuo non è dato di agire, ma di adattarsi a un mondo avvertito
come distante, alieno, meno umano. Dove la sovranità, opportunamente
spersonalizzata, è stata assunta dai mercati. Da un’economia che si è
impadronita del potere, lasciando la politica al suo destino.
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