domenica 21 giugno 2015
A Bologna l’edizione integrale di "German Concentration Camps Factual Survey"
Alla
Cineteca di Bologna il lungometraggio sui campi con la consulenza di
Hitchcock che notò lo scorrere sereno della vita che si svolgeva intorno
ai luoghi dei massacri
di Angelo Varni Il Sole Domenica 21.6.15
Bergen-Belsen, Auschwitz, Dachau, Buchenwald, Mauthausen: i nomi
terribili dell’orrore nazista; di una crudeltà neppur più misurabile in
termini di dolore e di sopraffazione fisica e morale dell’uomo
sull’uomo, bensì destinato a portare all’annientamento delle coscienze,
all’indifferenza dei carnefici e delle stesse vittime, ridotti a
strumenti disumanizzati di un progetto razziale perseguito con meccanica
apatia e cieca obbedienza.
Nomi simbolo di una rete vastissima di campi di concentramento e di
sterminio, che la Germania di Hitler disseminò nel proprio territorio ed
in quelli dei paesi conquistati durante la seconda guerra mondiale,
dove milioni di donne, di uomini, di bambini, ebrei per lo più, ma anche
renitenti alla leva,zingari, omosessuali, dissidenti politici e
prigionieri delle diverse nazionalità trovarono la morte secondo una
tragica pianificazione di massa.
A settant’anni da quei terrificanti eventi la Cineteca di Bologna,
nell’ambito della XXIX edizione del festival «Il cinema ritrovato» (27
giugno-4 luglio), presenta in prima nazionale l’edizione integrale di
German Concentration Camps Factual Survey (La vera indagine sui campi di
concentramento tedeschi), un film-documentario costruito attraverso le
immagini girate dagli operatori, che accompagnarono le truppe inglesi
nell’aprile del 1945 al momento del loro ingresso nei campi (in
particolare in quello di Bergen-Belsen). Qui la pellicola fissò - con la
crudezza derivante dall’incredulità stessa di quanti si trovarono
d’improvviso di fronte all’imprevedibile manifestarsi dello spegnersi di
ogni scintilla di umanità - i segni incancellabili delle torture e dei
massacri collettivi compiuti, di cui erano prova cataste di poveri corpi
ridotti a manichini inscheletriti, insieme al vagare in un vuoto senza
sentimenti degli occhi inespressivi dei pochi sopravvissuti.
Subito il ministero dell’Informazione britannico pensò a un immediato
utilizzo di tali filmati (completati da quelli paralleli girati dalle
truppe sovietiche ed americane) per testimoniare al popolo tedesco, e al
mondo intero, le ragioni di un conflitto reso indispensabile dalla
necessità di por termine a simili barbarie, che giustificavano la
durezza delle condizioni di pace imposte alla Germania. Fu incaricato
del progetto il noto produttore Sidney Berstein, che mise al lavoro una
squadra di montatori e sceneggiatori di prim’ordine, chiamando a farne
parte come consulente l’amico Alfred Hitchcock. Nonostante questo, la
lavorazione del film, andò per le lunghe, al punto che gli Stati Uniti,
desiderosi di una più immediata divulgazione delle atrocità del delirio
hitleriano, affidarono a Billy Wilder la realizzazione di un
cortometraggio di una ventina di minuti (uscì nello stesso 1945 con il
titolo Death Mills), che presentasse una sintesi di quanto documentato
dai filmati realizzati in presa diretta dai militari.
La svolta che rapidamente prese la politica internazionale, avviata
verso le tensioni della “guerra fredda”, consigliò di attenuare
l’impatto che simili fotogrammi potevano avere sull’opinione pubblica
germanica, che veniva posta sotto accusa e che era invece necessario
coinvolgere nella ricostruzione del paese, mentre gli inglesi, nel
contempo, intendevano ostacolare la volontà degli ebrei - certo
enfatizzata dal senso di pietà suscitato dal filmato - di ritrovare il
proprio “focolare” palestinese, per evitare le negative reazioni del
mondo arabo.
Di conseguenza, a fine settembre 1945, fu deciso di abbandonare il
progetto, lasciando il film incompiuto, mentre l’intero girato e tutti i
materiali connessi (compresi la sceneggiatura e l’elenco delle riprese)
qualche anno dopo vennero depositati all’Imperial War Museum di Londra,
dopo essere stati comunque usati quali capi di accusa al processo di
Norimberga.
Nel 1984 questa versione incompiuta (cinque rulli dei sei previsti) fu
presentata al Festival cinematografico di Berlino con il titolo Memory
of the Camp, suscitando comunque reazioni sconvolgenti nel pubblico.
Vent’anni dopo, nell’edizione del 2005 del Cinema ritrovato, fu proposto
questo documento, creando l’aspettativa di un completamento e di un
restauro complessivo dell’opera. Con alcuni anni di lavoro il Museo
londinese è riuscito a identificare tutte le sequenze sulla base dei
documenti originali, rimontando l’intero film in digitale e
accompagnandolo con il commento tratto dalla prima sceneggiatura.
Le scene che in tal modo si succedono davanti agli occhi dello
spettatore, oltre a provocare un senso di inorridita repulsione verso
una simile evidente testimonianza di disprezzo per gli stessi
primordiali valori di umanità, propongono difficilmente sondabili
interrogativi sulle responsabilità individuali e collettive di fronte
all’esercizio del male; sul rapporto tra autorità statale e cittadini;
sulla capacità di un’ideologia e di una fede cieche di lacerare le
coscienze trascinandole in uno smarrimento di sé, che sa di abdicazione
totale all’uso critico della ragione, cioè all’abdicazione stessa dall’
essere uomini.
Ecco allora le scene terribili dei soldati tedeschi obbligati a gettare
nelle fosse comuni i miseri resti dei prigionieri lasciati morire di
fame, che paiono svolgere tale compito con meccanica impassibilità. Ecco
il confronto (sul quale Hitchcock pare insistesse molto) tra quanto
accadeva nei campi e lo scorrere sereno della vita degli abitanti dei
luoghi circostanti. Ecco, ancora, il bruciare dei forni, i cumuli di
ossa, i folli esperimenti genetici posti in atto, fino al puntiglioso
recupero dei vestiti dei prigionieri, predisposti per un ordinato
burocratico riutilizzo per i successivi ingressi, in immagini non meno
deprimenti, sotto il profilo morale, di quelle riguardanti i primi piani
dei cadaveri.
Ecco, soprattutto, gli sguardi dei vivi fra tante morti: impossibilitati
ormai a esprimere alcunché, neppure la riconoscenza per i “salvatori”,
negata dalla forzata perdita di ogni sensibilità verso quanto
appartenesse alla sfera delle umane relazioni. Ma poi ritornano antiche
emozioni perdute - ed è momento particolarmente coinvolgente del film -
quando vengono dati ai sopravvissuti i vestiti per ricoprire le loro
abbruttite nudità: pare che un simile gesto, un tempo naturale,
riportasse alla vita; a una normalità capace di scacciare, ancor meglio
del fragore delle armi, anche di quelle soccorritrici, i neri fantasmi
della malvagità, del dolore, della consunzioni dei corpi e delle anime.
Certo con questi fotogrammi il cinema mostrava per la prima volta al
mondo incredulo la prova inconfutabile di un oscuro potere del male, cui
popoli interi finivano per soggiacere. E c’era la speranza chiaramente
espressa che questa visione esorcizzasse altre consimili tragiche
esperienze. La storia dell’intero secolo scorso e di questo inizio di
millennio ci dimostra che così non è stato e non è e che si finisce
magari per assuefarci a queste rappresentazioni raccapriccianti. Eppure
non si deve perdere la speranza che il riscoprire la concreta visione di
tali realtà ci porti tutti a risvegliare coscienze capaci di trovare il
necessario equilibrio tra ragione e sentimento, unica strada per una
civile convivenza dell’umana collettività.
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