mercoledì 17 giugno 2015

Dal feudalesimo lamaista alla modernità: le memorie del fratello di Tenzin Gyatso


Gyalo Thon­dup: The noodle maker of Kalimpong, the untold story of my struggle for Tibet, a cura di Anne F. Thurston, Pubblic Affair

Risvolto
Shortly before midnight on March 17, 1959, the Dalai Lama, without his glasses and dressed as an ordinary Tibetan solider, slipped out of his summer residence with only four aides at his side. At that moment, he became the symbolic head of the Tibetan government in exile, and Gyalo Thondup, the only one of the Dalai Lama’s brothers not to don the robes of a Buddhist monk, became the fulcrum for the independence movement.
The Noodle Maker of Kalimpong tells the extraordinary story of the Dalai Lama’s family, the exile of the spiritual leader of Tibetan Buddhism from Tibet, and the enduring political crisis that has seen remote and bleakly beautiful Tibet all but disappear as an independent nation-state.
For the last sixty years, Gyalo Thondup has been at the at the heart of the epic struggle to protect and advance Tibet in the face of unreliable allies, overwhelming odds, and devious rivals, playing an utterly determined and unique role in a Cold War high-altitude superpower rivalry. Here, for the first time, he reveals how he found himself whisked between Chiang Kai-shek, Zhou Enlai, Jawaharlal Nehru, and the CIA, as he tried to secure, on behalf of his brother, the future of Tibet.


Relazioni pericolose a Oriente 
Scaffale. Le memorie e i racconti orali del fratello del Dalai Lama Thondup nel libro uscito per Pubblic Affair, «The noodle maker of Kalimpong, the untold story of my struggle for Tibet», a cura di Anne F. Thurston, già autrice di un volume su Mao 

Simone Pieranni il Manifesto 17.6.2015, 0:10 
Gyalo Thon­dup è il fra­tello dell’attuale, il quat­tor­di­ce­simo, Dalai Lama. Anne F. Thur­ston è una sino­loga piut­to­sto quo­tata, già autrice di un libro su Mao Zedong, nel quale aveva rac­colto le memo­rie del medico per­so­nale del Timo­niere. Pro­prio per que­sta sua pas­sata espe­rienza edi­to­riale, come spiega nella pre­fa­zione, è toc­cato a lei siste­ma­tiz­zare anche le memo­rie e i rac­conti orali di Thon­dup; ne è uscito un libro, The noodle maker of Kalim­pong, the untold story of my strug­gle for Tibet (Pub­blic Affair, 18 dol­lari) che rac­conta la sto­ria di una dif­fi­cile rela­zione poli­tica, quella tra Cina e Tibet e la vita quo­ti­diana nella regione cinese, prima, durante e dopo l’arrivo dell’Esercito popo­lare di Liberazione. 
Thur­ston inter­viene nel libro anche in post­fa­zione, pre­ziosa guida per chi dubita di alcune delle «visioni della sto­ria» enun­ciate dal pro­ta­go­ni­sta del volume. Secondo il Wall Street Jour­nal si tratta di «un titolo avvi­lente, per un libro affa­sci­nante». Le vicende di Thon­dup si mischiano, anzi diven­tano, quelle del Tibet del Nove­cento, i suoi rap­porti con la Cina, l’India, la Cia, gli Usa e la comu­nità inter­na­zio­nale, durante quel per­corso che ha visto iden­ti­fi­care il fra­tello come il quat­tor­di­ce­simo Dalai Lama (bel­lis­sima la parte del volume dedi­cata ai «metodi» di sele­zione del Dalai Lama e alle guerre interne ai lama che si sca­te­nano durante la «reg­genza») fino alla sua fuga, al rico­no­sci­mento inter­na­zio­nale della causa tibe­tana, al Nobel in un anno par­ti­co­lare, il 1989 e ai ten­ta­tivi di un suo ritorno a Lhasa. 
Il volume si rivela uno straor­di­na­rio docu­mento sto­rico, di parte natu­ral­mente, ma scritto con gra­zie e fascino, pro­prio come sug­ge­ri­sce il Wsj e una bril­lante capa­cità di asse­con­dare curio­sità e visioni della sto­ria, con uno stile asciutto ma straor­di­na­rio nel suo pro­ce­dere. Il volume offre diverse chiavi di let­tura, tanto al let­tore casuale e poco esperto di sto­ria tibe­tana e cinese, quanto a quello più inse­rito in un discorso fatto di visioni sto­ri­che dif­fe­renti, di omis­sioni o pre­sun­zioni. Il rac­conto del fra­tello del Dalai Lama, infatti, non è par­ziale per niente. 
In primo luogo per­ché descrive uno scon­tro sto­rico tra Cina e Tibet par­teg­giando aper­ta­mente (e ovvia­mente) per Lhasa, in secondo luogo per­ché Thon­dup è stato uno dei pro­ta­go­ni­sti della recente sto­ria tibe­tana e nel libro fini­sce per dare «la sua ver­sione». Tal­volta le sue opi­nioni si scon­trano con quelle dell’intellighenzia tibe­tana, con­tro la quale Thon­dup si riserva alcune «ven­dette» non da poco. La cri­tica della diri­genza tibe­tana, che di fatto ha gestito cinquant’anni di sto­ria della regione, è l’elemento più cla­mo­roso di tutto il libro e con­ferma, per certi versi, le let­ture cinese di alcuni eventi. Il Tibet viene descritto come un luogo sof­fo­cato dal potere dei lama, dove solo i monaci stu­diano e dove il resto della popo­la­zione vive nella fatica, nell’ignoranza e nella totale subal­ter­nità psi­co­lo­gica ed eco­no­mica ai monaci e al Dalai Lama. 
Un paese arre­trato eco­no­mi­ca­mente e tec­no­lo­gi­ca­mente, com­ple­ta­mente chiuso in se stesso, igno­rante di tutto quanto accade fuori, per­fino nei paesi più vicini e potenti, India e Cina. E pro­prio que­sta inca­pa­cità – spesso l’autore defi­ni­sce naïf l’approccio tibe­tano alla poli­tica e alla geo­po­li­tica – ren­derà com­pli­cata la vita di una regione stretta tra inte­ressi ben più grandi. 
C’è anche Tai­wan del Gene­ra­lis­simo Chaing Kai-Shek, che prova a fare della bat­ta­glia tibe­tana una sorta di piede di porco per ria­prire la Cina ai nazio­na­li­sti. C’è l’India che uti­lizza il Tibet per redi­mere i pro­pri conti in sospeso con la Cina, finendo per ingi­gan­tire alcuni pro­blemi, por­tando ad un con­flitto ter­ri­to­riale Delhi e Pechino. E c’è natu­ral­mente la Cina, la cui pro­gres­sione e pas­sag­gio dal maoi­smo all’economia di mer­cato, por­terà la pro­pria pre­senza in Tibet a mutare, diven­tando infine vin­cente spe­cie a livello inter­na­zio­nale, nono­stante la fama che, per un certo periodo, ha potuto godere il Dalai Lama. 
Detto che la sino­loga che ha con­tri­buito alla ste­sura della sto­ria si è vista negare il visto da Pechino, secondo l’andazzo che chiun­que sia sospet­tato di vici­nanza o ami­ci­zia con il Dalai Lama diventa nemico del popolo cinese, il libro in realtà, si pone come una cri­tica sia della Cina sia del Tibet. 
Non sem­bra esente dai tanti torti sto­rici enun­ciati nel sag­gio nean­che la figura del Dalai Lama la cui distanza dagli affari tem­po­rali, in alcuni casi, sem­bra una scusa scol­pita ad arte dal fra­tello per sca­ri­carlo da respon­sa­bi­lità sto­ri­che. Thun­dop descrive minu­zio­sa­mente alcuni momenti di frat­tura tra Cina e Tibet, pro­prio quando pote­vano essere messi insieme i cocci di un rap­porto ormai deteriorato. 
In quei casi, Thun­dop ondeg­gia sulle respon­sa­bi­lità del Dalai Lama, così come appare poco cre­di­bile la distanza di «Sua San­tità» dalle ope­ra­zioni coperte sta­bi­lite dalla Cia. Ed eccoli, gli Stati uniti, altra pre­senza for­mi­da­bile e fon­da­men­tale nel libro. La Cia adde­stra la resi­stenza tibe­tana, in quel periodo che va dal dete­rio­rarsi dei rap­porti tra Cina e Tibet, fino alla fuga in India del Dalai Lama (fuga che per altro è per­vasa da incom­pren­sioni anche con l’allora pre­mier indiano Nehru).
La Cia sba­glia tutto, dice Thun­dop. Adde­stra ma poi non manda armi, manda armi ma sono vec­chie, quando sono nuove, non sono ame­ri­cane, pro­prio per non dare l’idea di invi­schiarsi con i tibe­tani, ovvero con la Cina. E, infine, c’è la let­tura degli scon­tri del 1987 e di quelli a Pechino del 1989, che cor­ri­sponde in pieno alle para­noie di Pechino. In que­sto fran­gente c’è forse la parte più ori­gi­nale di tutto il libro. 
Secondo il fra­tello del Dalai Lama, tanto i riots in Tibet, quanto quelli cinesi, furono orche­strati da non si sa bene quali potenze stra­niere. Un pen­siero che trova la sua esem­pli­fi­ca­zione in un dia­logo ripor­tato da Thun­dop. Si tratta di uno scam­bio di bat­tute con Deng Xiao­ping, che stando alle parole di Thun­dop sem­brava dav­vero desi­de­roso di un ritorno del Dalai Lama in Cina. «Noi siamo tibe­tani — spiega Thun­dop a Deng — non odiamo i cinesi. Noi odiamo gli stra­nieri», chiosa.


La Spoon River dei martiri del Tibet “La vita per la libertà”
Dal 2008 145 persone si sono auto-immolate per denunciare la politica di Pechino
Il Dalai Lama li definisce eroi coraggiosi: giovani o anziani, hanno lasciato lettere piene di dolore
In un cortometraggio le loro ultime parole  “Senza la nostra cultura diventiamo la fiamma di una candela”
di Giampaolo Visetti Repubblica 23.6.15
PECHINO «La libertà è la via che conduce alla felicità tutti gli esseri viventi. Senza libertà diventiamo la fiamma di una candela al vento. Questo non deve essere il destino di sei milioni di tibetani». Tenzin Kedhup aveva 24 anni. Ex monaco buddhista, era un nomade pastore. Cosparsosi di cherosene, si è dato fuoco assieme ad un amico il 20 giugno di tre anni fa nella regione cinese del Qinghai, parte del Tibet storico. «Lasciati soli non possiamo – ha lasciato scritto – proteggere la religione e la cultura tibetane».
Dal 2008 i tibetani che si sono auto- immolati per denunciare l’occupazione cinese del 1950 e il «genocidio culturale» da parte di Pechino sono stati 145. Sono gli eroi del Paese delle Nevi, considerati «terroristi» dal partito comunista. La poetessa Tsering Woeser, simbolo della lotta non violenta per l’autonomia della regione himalayana, più volte arrestata assieme al marito scrittore Wang Lixiong, è riuscita a raccogliere i testamenti spirituali segreti dei martiri contemporanei di un popolo che il mondo, nel nome degli interessi economici, finge di non vedere. Sono gli ultimi messaggi che decine di giovani, di monache e di monaci, hanno affidato alle famiglie prima di darsi alle fiamme per la libertà e per invocare il ritorno del Dalai Lama a Lhasa. Sono documenti commoventi, eccezionalmente filtrati dalla Cina, costati a Tsering Woeser gli arresti domiciliari a Pechino e raccolti in un libro uscito in Francia e poi rimbalzato nel mondo anche grazie al blog Global Voices. Ora una parte di essi è stata inclusa nel documentario «Sons of Tibet» di Pietro Melegori, realizzato con il sostegno dell’Associazione Italia-Tibet e appena presentato a Roma.
Il film racconta la storia di Lhamo Kyab, pastore di 20 anni, padre di due figlie. Il 12 ottobre del 2012, giorno in cui a Pechino si apriva il congresso del Partito comunista che avrebbe portato al potere il presidente Xi Jinping, si è suicidato con il fuoco davanti al monastero di Bora, nel Gansu. E’ anche grazie a lui che è venuta alla luce la ”Spoon River” del Tibet. «Il mio cuore non riesce più a sopportare il dolore – scrive il monaco Phuntsog di 19 anni – così presto mi lascerò alle spalle questo mondo».
Domenica il Dalai Lama, in esilio a Dharamsala in India dal 1959, ha compiuto 80 anni ricordando di essere «solo un semplice monaco buddista che cerca di fare il proprio meglio dedicando la vita alla ricerca della conoscenza». Proprio il Nobel per la pace che Pechino considera «un nemico» ha definito «eroi coraggiosi» i tibetani che si auto-immolano contro violenze e persecuzioni, pur senza nascondere i suoi dubbi sull’efficacia della protesta estrema. «Come il Buddha ha offerto il suo corpo alla tigre affamata – ha lasciato scritto Sopha Rinpoche – così noi sacrifichiamo la nostra vita per la giustizia, la verità e la libertà». Tra le decine di testamenti politici non mancano i messaggi personali, parole di ragazzi che hanno scelto la morte nella speranza di scuotere la comunità internazionale. «Ai miei genitori a cui devo l’amore più profondo – scrive pochi istanti prima di bruciarsi Nya Drul di 18 anni – al mio caro fratello e a tutta la mia famiglia dico che devo lasciare questo mondo. Il mio augurio che i figli e le figlie del Tibet siano uniti». La leadership di Pechino è oggi in uno stato di massimo allarme per la successione a Tenzin Gyatso, che ha dichiarato che il prossimo Dalai Lama potrebbe reincarnarsi fuori dal Tibet e dalla Cina. La transizione della guida spirituale buddista minaccia di far riesplodere la rivolta a Lhasa, come nel 2008, riaccendendo le spinte secessioniste anche nello Xinjiang, o a Hong Kong, dove la minoranza democratica è riuscita a bocciare la riforma elettorale-truffa imposta dai vertici comunisti. «Il Tibet – hanno scritto su You-Tube Sonam e Choephak, fidanzati ventenni suicidi nel Sichuan – è stato invaso, represso e ingannato dalla Cina. Ci immoliamo per la miseria in cui siamo costretti a vivere a causa della negazione dei diritti umani ». Songye Tsering, una pastora di 24 anni con tre bambini, ha lasciato un biglietto. «Non voglio più vivere così – si legge – noi siamo i figli del Leone delle nevi, la prole dal viso rosso. Per favore, ricordatevi della purezza della neve in montagna». Un commiato, il congedo dalla speranza, ma pure un terribile atto di denuncia: il mondo può oggi ignorarlo, ma per la Cina che s’appresta a dominare il secolo resta una vergogna capace di svuotare ogni potere. 

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