William Dalrymple: Il ritorno di un re. La battaglia per l’Afghanistan, Adelphi
Risvolto
Nel 1839 un'armata britannica di quasi ventimila uomini invade
l’Afghanistan per insediare sul trono del paese un sovrano fantoccio,
Shah Shuja, e contrastare così la temuta espansione russa in Asia
Centrale: è l’inizio del Grande Gioco, la sanguinosa partita a scacchi
tra potenze coloniali europee per il controllo della regione,
immortalata da Kipling in Kim. Ma è anche il primo fallimentare
coinvolgimento militare dell'Occidente in Afghanistan. Meno di tre anni
dopo, il jihad delle tribù afghane guidate dal re spodestato, Dost
Mohammad, costringe gli inglesi a una caotica ritirata invernale
attraverso i gelidi passi dell'Hindu Kush. Soltanto una manciata di
uomini e donne sopravvivrà al freddo, alla fame, e ai micidiali jezail
afghani. L'impero più potente al mondo era stato umiliato. Attingendo a
fonti storiche in persiano, russo e urdu sino a oggi sconosciute –
compresa l’autobiografia di Shah Shuja, la cui tragica figura
rappresenta il vero fulcro del libro – nonché ai diari e alle lettere
dei protagonisti inglesi dell'invasione, Dalrymple racconta una vicenda
insieme drammatica e farsesca, popolata di personaggi affascinanti e
crudeli, incompetenti e geniali, eroici e boriosi. E la racconta in
maniera trascinante, senza tuttavia farci mai dimenticare quanto quegli
eventi – le antiche rivalità tribali sullo sfondo di territori
inaccessibili e inospitali, gli errori strategici che portarono al
massacro dell'armata britannica – risuonino, ancora oggi, come un
monito.
La (fallita) invasione inglese che ha creato l'AfghanistanWilliam
Dalrymple ricostruisce i motivi futili della guerra ottocentesca,
condotta con pressappochismo e persa dall'Impero. Con fonti locali e
parallelismi d'attualità
Stenio Solinas
- il Giornale Sab, 20/06/2015
Il Grande gioco che ci condanna alla sconfittaTra passato e presente, l’infinita partita a scacchi dell’Occidente in Afghanistan vista dallo storico William Dalrymple: “Oggi ripetiamo gli errori di oltre un secolo e mezzo fa”
di Enrico Franceschini Repubblica 17.6.15
LONDRA
La storia si ripete. Nel 1839 una grande armata della nazione più
potente della terra, l’Impero britannico, invade l’Afghanistan per
insediare a Kabul un sovrano fantoccio e contrastare l’espansione russa
in Asia Centrale: è l’inizio del “Grande gioco”, cinica e brutale
partita a scacchi fra le grandi potenze occidentali per il controllo
della regione, immortalata da Kipling in “Kim”. Ma è anche la prima di
una serie di disastrose spedizioni militari straniere fra le montagne di
quel meraviglioso e complicato paese, proseguite con quella sovietica
nel 1979 e quella americana nel 2001. William Dalrymple, storico e
scrittore scozzese, uno dei più sofisticati conoscitori dell’Oriente,
dove vive da decenni, racconta in “Il ritorno di un re” (Adelphi) una
fallimentare guerra di un secolo e mezzo fa che suona come una
lezione per i conflitti odierni. Il re fantoccio insediato dagli inglesi
fu deposto dai predecessori del re afgano che visse a lungo in esilio a
Roma e che gli Usa riportarono a Kabul dopo la loro invasione: come se
l’Occidente fosse eternamente prigioniero del proprio complesso di
superiorità.
Signor Dalrymple, la spedizione militare britannica che
invase l’Afghanistan era potente quanto quella americana e Nato del
2001?
«In proporzione era ancora più potente. L’Impero britannico
dell’epoca stava raggiungendo il suo apogeo. L’India era pressoché
conquistata. E gli afgani non avevano la reputazione di popolo fiero,
indomito e guerriero che hanno oggi».
Eppure gli inglesi persero. Come mai?
«Per
le stesse ragioni che hanno portato alla odierna sconfitta in
Afghanistan. Eccesso di fiducia. Difetto di attenzione. E una nuova
guerra come fonte di distrazione».
Cosa accadde in sostanza?
«I
paralleli con il presente sono impressionanti. La spedizione britannica
ottenne una rapida vittoria sul campo, lo stesso risultato del 2001. A
quel punto i britannici, come poi gli americani, hanno pensato che la
partita fosse finita. Non hanno pensato alle complessità del paese
diviso da rivalità tribali. E hanno subito intrapreso una nuova impresa
militare: la guerra dell’oppio in Cina, allora, o l’invasione dell’Iraq
nel 2003, lasciando poche guarnigioni a Kabul mentre sulle montagne i
ribelli si riorganizzavano».
Né Bush, né Blair studiarono la disastrosa esperienza britannica del 1842?
«Almeno
Blair, da britannico, avrebbe dovuto conoscerla. E c’era una lezione
più recente: la sconfitta dell’Unione Sovietica, che aveva invaso
l’Afghanistan, conquistato il paese, per poi perderne gradualmente il
controllo. So che un ambasciatore britannico a Kabul tornò apposta a
Londra per avvertire: nessun impero o esercito straniero ha mai vinto in
Afghanistan. Ma non gli diedero retta».
Se Londra o Washington la
chiamassero a dare consigli, cosa direbbe?
«Mi
hanno chiamato. Ho fatto rapporto allo staff di Obama alla Casa Bianca.
Ho dato consigli elementari: studiate la storia del paese, non spostate
le risorse militari ed economiche verso altri conflitti, usate la
diplomazia più delle bombe».
In Occidente c’è chi pensa all’Afghanistan come un luogo barbaro e incivile.
«Niente
di più falso. È un paese che ha avuto un Rinascimento simile a quello
dei Medici in Italia e che era tra i più avanzati dell’Asia. Guerre
intestine, invasioni straniere, estremismo religioso, ne hanno limitato
lo sviluppo, ma ha ancora oggi un’identità di cui andare orgoglioso. E
in cui la resistenza contro l’Impero britannico nel 1842 viene ricordata
come gli italiani celebrano Garibaldi e gli scozzesi Braveheart».
Il
9 settembre 2001, due giorni prima dell’attacco all’America dell’11
settembre, a Kabul fu assassinato Ahmed Massud, il leggendario “leone
del Pashmir”, forse il maggior responsabile della sconfitta sovietica:
la storia sarebbe stata diversa, con Massud vivo?
«Il suo assassinio e
l’attacco all’America erano certamente collegati. Però Massud, era un
tagiko, non apparteneva ai Pashtun, che in Afghanistan sono la
maggioranza. Non poteva diventare un leader politico».
Era giusto invadere l’Afghanistan nel 2001?
«Era
inevitabile, dopo l’attacco all’America ordito da al Qaeda che stava a
Kabul protetta dal governo locale. Ma una volta cacciata al Qaeda non
aveva senso rimanere in Afghanistan così a lungo, per di più senza fare
le cose necessarie».
Se nel suo libro c’è una morale, è che i
movimenti in lotta per liberare il proprio paese da un invasore
straniero prevalgono sempre .
«Una volta un combattente afgano mi
disse: gli stranieri vengono, stuprano le donne, uccidono i bambini,
bruciano i villaggi, ma noi non abbiamo bisogno di sconfiggerli, basta
che gli rompiamo i denti e gli rendiamo la vita impossibile».
Prevede che i Taliban, rotti i denti agli americani, torneranno al potere a Kabul?
«A
Kabul forse no, perché sono una forza con base rurale, nelle città non
riescono a imporsi, ma a un certo punto sarà necessario un accordo di
compromesso con loro».
Nel lungo termine, insomma, il vecchio “Grande gioco” potrebbe trovare una soluzione anche in Afghanistan?
«Potrebbe. Ma il Grande gioco lo conducono i diplomatici, non i soldati: sarà una partita da giocare politicamente».
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