martedì 9 giugno 2015

Dal moderno al postmoderno: la differenza tra Weltgeschichte e World History, tra droits de l’homme e human rights secondo Giuseppe Galasso



L’Europa delle mode intellettuali rinuncia al suo ruolo nella storia 

Una svolta epocale La globalizzazione prima del 1400-1500 riguardava solo alcune parti del Pianeta 

9 giu 2015  Corriere della Sera Di Giuseppe Galasso © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Un amico, conoscitore espertissimo del mondo illuministico, mi esprime la sua sorpresa per le tendenze, a cui gli sembra che ci si avvii negli Stati Uniti, a sostituire il tema storiografico dei «diritti dell’uomo», i famosissimi droits de l’homme, con la nuova fattispecie degli human rights. La differenza è notevole. I droits de l’homme rinviano alla grande Révolution, alla Rivoluzione francese, come matrice della storia di quei diritti. Gli human rights sono, invece, quell’insieme di diritti civili o di ogni altra denominazione che sono stati agitati e promossi nei movimenti fioriti in varie parti del mondo, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, negli ultimi cinquant’anni. «I vincitori della Bastiglia davanti all’Hotel de Ville» di Hyppolite Delaroche 
Il mio amico illustra dottamente l’inaccettabilità di questa sostituzione storiografica. Non che egli disconosca meriti e originalità degli human rights. Gli sembra, però, che anch’essi si muovano nel solco dei droits de l’homme, di cui ritiene sempre valida la visione storica che li pone, insieme con la rivoluzione che li proclamò, all’inizio della loro effettiva traduzione da elementi di dottrina e di principio in materia di attualità e di concreta attuazione politica. Certo, vi era stata un po’ prima la Rivoluzione americana. L’impatto mondiale di quella francese fu, però, tutt’altra cosa e, in buona sostanza, non è ancora venuto meno. Anzi. 
Io do ragione al mio amico sul piano storico e dal punto di vista storiografico. Gli esprimo, tuttavia, una impressione di altro genere. Mi pare, infatti, che nella vicenda da lui deplorata sia chiaramente visibile un’altra e più radicale tendenza. La tendenza, cioè, a recidere in tutto l’ambito possibile il nesso genetico tra Europa e Nuovo Mondo; ad accantonare ogni legame che possa prospettare il mondo e la civiltà degli States come una costola della civiltà europea; a vedere nel mondo americano la originale e radicale creazione degli americani, non più alunni, magari molto ben riusciti, di una Europa magistra, ma protagonisti autonomi e paralleli della storia del mondo dalla fine del Settecento in poi, senza debiti sostanziali di derivazione genetica e conformante. 
Il mio amico è molto perplesso, anche se un po’ è suggestionato da quanto gli dico, e ciò mi spinge a proseguire. Del resto, dico, questo disconoscimento dell’Europa è stato operato e continua a essere operato per molte altre vie storiografiche. Oggi la principale di tali vie è la World History, appassionatamente coltivata nelle università americane e ultimo grido della moda storiografica. Ben poco essa ha in comune con la vecchia «storia universale». Questa procedeva a collezionare la storia degli universi homines, di tutti gli uomini, in un ordine suggerito in parte dalla cronologia, in parte dalla idea preformata che tale storia fosse indirizzata dai suoi svolgimenti alla formazione e diffusione della civiltà umana, che trovava nell’antichità greco-romana e nella successiva storia europea i suoi vertici. La World History è, invece, fondata sull’esigenza di una generale contestualizzazione delle storie dei gruppi umani fioriti in qualsiasi parte del globo in ogni epoca. Perciò essa delinea un piano storico generale, sul quale difformità di genesi e di esiti e l’emergere di vertici o di successi storici vengono ad appiattirsi nel sostanziale parallelismo in cui sono disposte le vicende mondiali. La parte dell’Europa, specialmente nell’età moderna, ne risulta fatalmente e fortemente ridimensionata. 
Sempre più perplesso, il mio amico mi ricorda la globalizzazione che stiamo sperimentando nel nostro tempo come un valido motivo di ispirazione della World History. È vero, rispondo, ma questa globalizzazione è un dato della storia contemporanea, che ha il suo avvio nell’epoca delle grandi scoperte geografiche fra Quattrocento e Cinquecento, ed è un processo storico del quale è difficile negare la matrice europea. Prima di allora la globalizzazione, se così la si vuole definire, era parziale, riguardava solo alcune parti del globo e alcuni settori delle attività umane, e meno che mai determinava la compenetrazione e integrazione che sono proprie della globalizzazione che stiamo vivendo noi. 
Se fosse del tutto vero quel che dici, replica il mio amico, come mai la storiografia europea non lo percepisce? Forse mi aspettavo una tale questione, perché rispondo d’impulso che la storiografia europea è essa stessa corresponsabile di questo sminuimento della parte europea nella storia del mondo per la crisi in cui ha posto l’idea di storicità, per l’annegamento della storiografia nel vasto campo delle «scienze umane» e «scienze sociali», per l’inconsulto revisionismo che ha portato alla negazione o a una forte emarginazione di tutto il grande patrimonio di concetti e idee storiche costruito dalla cultura e, in particolare, dalla storiografia europea dal Rinascimento a oggi. Io, concludo, ne vedo il contrassegno anche nella più generale crisi europea, per cui nemmeno l’Unione Europea riesce ad assumere nel mondo contemporaneo il ruolo che ci si aspetterebbe. 
Questa volta il mio amico mi pare per un momento un pochino più persuaso, ma poi conclude a sua volta che io sono troppo drastico, troppo nazional-europeo, troppo generalizzante; e io, per amore di pace, gli dico che potrebbe anche avere ragione. Così, ci salutiamo e ci allontaniamo, all’apparenza anche divertiti da questo scambio di missili storiografici intercontinentali, ma in realtà piuttosto, se pure diversamente, immalinconiti. Europei, dopotutto, lo siamo entrambi.

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