martedì 9 giugno 2015

Contraddizioni tra negrieri e francesi in seno al popolo benecomunista. Ancora il "comune" di Dardot e Laval

Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo


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Il principio etico della buona vita 

Tempi presenti. «Comune», il nuovo volume di Pierre Dardot e Christian Laval per la casa editrice DeriveApprodi. Una straordinaria ricostruzione filosofica di un concetto declinato però come un potere istituente da veicolare attraverso il diritto. E non come obiettivo e pratica all’interno di una trasformazione del rapporto sociale capitalista 

Marco Bascetta il Manifesto 9.6.2015
Il «Comune» gioca a rim­piat­tino. Si parte da una cer­tezza. Non è pro­prietà pub­blica né pri­vata. Né Stato né mer­cato, dun­que. Ma appena si pren­dono le mosse da que­sta chiara pre­messa, subito le bifor­ca­zioni si mol­ti­pli­cano: ritorni all’indietro, svolte improv­vise, vicoli cechi, pro­spet­tive ingannevoli. 

Nel corso del tempo il «Comune» si ina­bissa e poi rie­merge. Com­pare dove meno lo atten­de­vamo, sva­ni­sce dove ci sem­brava di averlo affer­rato. Tal­volta agget­tivo che si com­bina con dif­fe­renti oggetti, talal­tra sostan­tivo che tutto abbrac­cia. Plu­rale e sin­go­lare. Ora pre­ro­ga­tiva di un cata­logo di «beni» con­creti e defi­niti, ora qua­lità di un agire senza oggetti deter­mi­nati. Talora si mostra nell’esperienza par­ti­co­lare della comu­nità per poi sci­vo­lare verso la dimen­sione uni­ver­sale dell’umanità. Lo ritro­viamo nel mondo cor­po­ra­tivo delle gilde, come in quello tra­sver­sale delle «Unions». Quando si affac­cia nella lunga scia del diritto con­sue­tu­di­na­rio, eccolo subito sdop­piarsi tra il pri­vi­le­gio indi­fen­di­bile dell’oligarchia e le legit­time con­sue­tu­dini della povertà, tra pre­tesa dell’avere e pos­si­bi­lità del fare, tra accu­mu­la­zione e sod­di­sfa­zione dei biso­gni. Fa capo­lino nel diritto romano, sto­rico guar­diano del pub­blico e del pri­vato, per subito distin­guersi tra la sfera inap­pro­pria­bile del sacro e la «terra di nes­suno» (res nul­lius) espo­sta all’appropriazione e al desi­de­rio di conquista. 

Un campo di tensioni 
C’è chi lo intende come una terza forma di pro­prietà, chi come la nega­zione stessa di ogni logica pro­prie­ta­ria. Qual­cuno lo vor­rebbe «potere costi­tuente», motore di una bru­sca rot­tura e di un nuovo ini­zio, chi, invece, capa­cità «isti­tuente» di sot­trarre ter­reno all’appropriazione pri­vata e alla tiran­nia buro­cra­tica dello Stato sulla base di nuove regole con­di­vise. Insomma, il «Comune» è uno campo di ten­sioni in cui diritto, socio­lo­gia, filo­so­fia, inter­pre­ta­zione sto­rica, azione poli­tica sono chia­mate a con­fron­tarsi e cimentarsi. 
Per seguirlo nella tor­tuo­sità dei suoi per­corsi e nella mol­te­pli­cità delle sue appa­renze Pierre Dar­dot e Chri­stian Laval hanno costruito un pon­de­roso volume (Del Comune, o della Rivo­lu­zione nel XXI secolo, Deri­veap­prodi, tra­du­zione e post­fa­zione di Anto­nello Ciervo, Lorenzo Coc­coli, Fede­rico Zap­pino, pre­fa­zione di Ste­fano Rodotà, pp.535, euro 30) nella forma di un labi­rinto in cui seguire le tracce anti­che di Pierre Joseph Prou­d­hon, di Karl Marx o di Mar­cel Mauss e quelle più recenti di Ostrom, Casto­ria­dis, Har­vey o Negri e Hardt. 

Nes­suna delle quali con­dur­rebbe, secondo gli autori, fuori dal dedalo di ipo­tesi e con­cetti che dovreb­bero gui­darci alla sco­perta del «Comune». Ma, come spesso accade nei labi­rinti, si apprende assai di più nel per­cor­rerli (e qui ci tro­viamo di fronte a uno straor­di­na­rio per­corso, quasi enci­clo­pe­dico, di stu­dio) che non una volta giunti tra le spo­glie pareti della cella cen­trale. Una stanza vuota, un cen­tro sim­bo­lico che dovremo riem­pire con la forza della sog­get­ti­vità e dell’ingegno.
Nella cella cen­trale, al fondo del nostro pere­gri­nare, dopo esserci arre­stati al ter­mine di innu­me­re­voli vicoli cie­chi e cir­coli viziosi, dopo essere tor­nati più volte sui nostri passi, tro­viamo infatti un «prin­ci­pio», che così, e non come sostanza o qua­lità, deve essere inteso il «Comune». «Un prin­ci­pio – spie­gano i due stu­diosi fran­cesi – è ciò che viene per primo e che fonda tutto il resto», un «comin­cia­mento sem­pre comin­ciante», arché che costan­te­mente si rinnova.

Divieti di appropriazione 
È dall’«agire comune» che pro­viene l’obbligazione poli­tica, e i «beni comuni» non sono che il pro­dotto di que­sto agire «isti­tuente», non il suo pre­sup­po­sto, non un pas­sato da risco­prire e rioc­cu­pare. È insomma prassi poli­tica che «apre un deter­mi­nato spa­zio e che defi­ni­sce le regole del suo fun­zio­na­mento», il che può dirsi, benin­teso, di innu­me­re­voli espe­rienze. Che cosa poi possa acca­dere all’interno di que­sto agire, di que­sto spa­zio, quali forme, forse gerar­chi­che o insi­dio­sa­mente fasci­na­to­rie, vi si pos­sano svi­lup­pare, quali regole e quali inter­di­zioni, nulla potendo pre­ve­dere dovremo affi­darci alla clas­sica con­so­la­zione dell’ottimismo antro­po­lo­gico. Per non ricor­rere a que­sta tra­bal­lante solu­zione Dar­dot e Laval inse­ri­scono una «norma di inap­pro­pria­bi­lità» a fon­da­mento delle rela­zioni sociali: «l’inappropriabile non è ciò di cui non ci si può appro­priare, ossia ciò di cui è di fatto impos­si­bile appro­priarsi, bensì ciò di cui non ci si deve appro­priare, ossia di cui non è con­sen­tito appro­priarsi per­ché deve essere riser­vato all’uso comune». 
Sarà pure la prassi isti­tuente di tutti i sog­getti coin­volti a defi­nire que­sto spa­zio, ma è dif­fi­cile non per­ce­pire in que­sta norma un’ombra di tra­scen­den­ta­li­smo e di impe­ra­tivo cate­go­rico. È il prezzo ine­vi­ta­bile da pagare per sgom­brare il campo da ogni teleo­lo­gia o deter­mi­ni­smo che voglia il Comune par­to­rito dallo svi­luppo delle forze pro­dut­tive? Stiamo ancora a dibat­terci tra il «fine» e l’«a priori»? 
A que­sto punto un passo indie­tro si rende necessario. 
La con­clu­sione che punta tutto su un prin­ci­pio poli­tico, anzi sul prin­ci­pio stesso della poli­tica è l’esito di un per­corso che alla poli­tica e al diritto con­fe­ri­sce un pri­mato sul sociale e sulla dimen­sione economico-produttiva. Dar­dot e Laval, cri­ti­cando il para­digma del capi­ta­li­smo cogni­tivo, respin­gono l’idea che nel lavoro vivo sia andata tra­sfe­ren­dosi quell’accumulazione di espe­rienze, saperi e pro­ce­dure già cri­stal­liz­zate nel sistema delle mac­chine, ren­den­dolo così in grado di sot­trarsi al comando del capi­tale, di pas­sare dalla pro­du­zione dell’uomo per il capi­tale alla «pro­du­zione dell’uomo per l’uomo». 
In altre parole, non si darebbe una potenza sociale auto­noma (la forza col­let­tiva della coo­pe­ra­zione) di cui il capi­tale si appro­pria, come rite­neva il vec­chio Prou­d­hon, ma nean­che una potenza che il capi­tale svi­luppa nel suo seno fino a pro­durre una con­trad­di­zione esplo­siva con il pro­cesso di accu­mu­la­zione, le sue regole e le sue forme, quando i rap­porti di pro­du­zione diven­tano la gab­bia che impe­di­sce lo svi­luppo delle stesse forze pro­dut­tive. Non si darebbe, insomma, nes­suna gene­ra­zione «spon­ta­nea» del Comune. E se non fosse per una pra­tica poli­tica col­let­tiva che sta­bi­li­sce regole e pro­duce diritto, la coo­pe­ra­zione pro­dut­tiva reste­rebbe indis­so­lu­bil­mente con­nessa con gli impe­ra­tivi dell’accumulazione capi­ta­li­stica e il suo sistema di regole. Solo e sem­pre potenza del capitale. 
Tut­ta­via, per­ché pos­sano svi­lup­parsi rap­porti di natura capi­ta­li­stica sap­piamo essere neces­sa­ria la sepa­ra­zione tra il lavo­ra­tore e il suo stru­mento, tra pro­dut­tori e mezzi di pro­du­zione. Ma que­sta sepa­ra­zione diventa pro­ble­ma­tica quando qua­lità cogni­tive e risorse sog­get­tive devono essere messe al lavoro in posi­zione non più mar­gi­nale per con­ti­nuare a garan­tire la ripro­du­zione allar­gata del capi­tale. Si tratta allora di costruire una sorta di «auto­no­mia ete­ro­di­retta» e si può ben capire quanto que­sto equi­li­brio sia con­trad­dit­to­rio, fra­gile e «inna­tu­rale», quanto poco assi­cu­rato da auto­ma­ti­smi o da quelle par­venze di «ogget­ti­vità» che da sem­pre hanno fatto la forza dell’ordine costi­tuito. Cosic­ché Dar­dot e Laval aggiun­gono alle due clas­si­che forme mar­xiane della sus­sun­zione capi­ta­li­stica (quella for­male che sot­to­mette l’esistente e quella reale che lo tra­sforma), una terza forma, che i due stu­diosi chia­mano «sus­sun­zione sog­get­tiva», una sorta di colo­niz­za­zione neo­li­be­ri­sta delle anime, di inte­rio­riz­za­zione delle ragioni del capi­tale, in breve una nuova fron­tiera dell’alienazione. 

Auto­no­mia eterodiretta 
Ma, in fondo, que­sta «ultra­sog­get­ti­va­zione», come la bat­tez­zano gli autori, non è che un altro modo per indi­care come solo stru­menti extrae­co­no­mici — poli­tici, giu­ri­dici, ideo­lo­gici, comu­ni­ca­tivi — pos­sano ricon­durre il «Comune» della pro­du­zione nell’alveo dello sfrut­ta­mento capi­ta­li­stico. Il che equi­vale a evi­den­ziare, appunto, la natura arbi­tra­ria, paras­si­ta­ria o «estrat­tiva» del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, messa però in dub­bio dai due stu­diosi fran­cesi. Basterà guar­dare al peso senza pre­ce­denti del pre­lievo fiscale nell’assicurare il flusso della ren­dita finan­zia­ria per ren­dersi conto di come que­sti stru­menti siano diven­tati a loro volta fat­tori di pro­du­zione. Non più come sem­plici guar­diani dell’ordine pro­prie­ta­rio, gen­darmi al ser­vi­zio della bor­ghe­sia, ma come veri e pro­pri rap­porti di pro­du­zione. Di fronte alle tante spe­ranze ripo­ste in un diritto che dovrebbe difen­derci dal mer­cato, por­ta­tore di una supe­riore razio­na­lità, con­verrà segna­lare il pas­sag­gio dalla sus­sun­zione for­male del diritto a quella che potremmo defi­nire la sua sus­sun­zione reale, lad­dove, come nel campo estre­ma­mente mobile della pro­prietà intel­let­tuale, siano le norme stesse, le sen­tenze e i trat­tati a pro­durre valore di scambio. 
I grandi studi legali sta­tu­ni­tensi, le corti nazio­nali e inter­na­zio­nali, sono a tutti gli effetti for­mi­da­bili fat­tori di pro­du­zione della ric­chezza e non solo sem­plici nego­zia­tori della sua distri­bu­zione. Il che non signi­fica, benin­teso, che il campo del diritto debba essere diser­tato o che la sua sus­sun­zione risulti senza resi­dui, ma che non può sem­pli­ce­mente essere iden­ti­fi­cato con l’autogoverno del «Comune». 

Un pro­blema di condizione 
La poli­tica, dun­que, è ine­vi­ta­bil­mente chia­mata in causa. Non per­ché assente dalla sfera dell’economia, ma pro­prio per­ché con essa stret­ta­mente intrec­ciata nel sistema totale del neo­li­be­ri­smo. Il timore, legit­timo, di non insab­biarsi nel deter­mi­ni­smo eco­no­mico ha fatto spesso per­dere di vista la com­ples­sità e la ric­chezza dell’idea mar­xiana di pro­du­zione, già pie­na­mente dispie­gata in quella for­mula che indica il capi­tale come «rap­porto sociale». Tut­ta­via, sull’intera argo­men­ta­zione di Dar­dot e Laval mi sem­bra, invece, incom­bere quella distin­zione tra «agire stru­men­tale» e «agire comu­ni­ca­tivo» da cui discende una con­ce­zione povera del primo e una inter­pre­ta­zione astratta del secondo, non­ché la sostan­ziale incom­pren­sione di entrambi. Impe­dendo, alla fine, al «Comune» di dotarsi di una solida base mate­riale, di una neces­sità rico­no­sci­bile. Con­trap­porre la «spon­ta­neità», e cioè i pro­cessi sto­rici, all’istituzione di regole con­di­vise, fon­dare l’agire comune su un «prin­ci­pio» e non anche su una «con­di­zione», sepa­rare la fonte del diritto da quella della ric­chezza, rischia di con­durci lon­tano dal «Comune» come costru­zione sociale e costi­tu­zione poli­tica tra loro inse­pa­ra­bili. Con­ce­pen­dolo, alla fine, come un prin­ci­pio morale della ragion pratica.

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