domenica 7 giugno 2015

Da Waterloo al Congresso di Vienna. Johnny Riotta insidia a Paolo Mieli la palma di Storico Laureato


Harold Nicolson: Il Congresso di Vienna, Castelvecchi, pagg. 288, euro 20

Risvolto
Tra l'autunno 1814 e la primavera 1815, Vienna divenne il teatro dell'incontro tra i potenti d'Europa, uniti nel tentativo di costruire una pace stabile dopo il trauma della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. Mai il gioco della diplomazia era stato esercitato su così larga scala, e nelle stanze del castello di Schönbrunn venne inaugurata una nuova era nella storia del continente. Harold Nicolson racconta il Congresso di Vienna con l'acume del diplomatico e l'eleganza dello scrittore, abile tanto nella ricostruzione dello scontro tra i diversi interessi nazionali quanto nella descrizione psicologica dei protagonisti. Un classico della letteratura storica che, estendendo il suo sguardo all'analisi delle conseguenze dell'evento, si rivela anche una riflessione critica e attualissima sulla difficile via della pace.


Metternich e Talleyrand furono protagonisti di un accordo che creava un ordine legittimo evitando di umiliare la Francia. Per "ammorbidire" gli avversari fu utilizzato ogni mezzo... 

Francesco Perfetti - il Giornale Dom, 07/06/2015

Franco Cardini Avvenire 1 giugno 2015

Il Congresso di Vienna La pace batte la libertà 
A duecento anni dall’atto finale con cui le potenze vittoriose cercarono di ripristinare l’ordine distrutto da Napoleone gli storici sfumano il giudizio negativo sulla restaurazione Gianni Riotta La Stampa 7 6 2015
Nell’estate 1980, all’Hotel Excelsior di Roma, Jorge Luis Borges e Leonardo Sciascia si incontrano per una discreta conversazione. Rita Cirio, critica de L’Espresso, ricorda come i due scrittori abbiano un dissenso sulla battaglia di Waterloo, 18 giugno 1815. Per Borges, una nonna inglese, la vittoria del Duca di Wellington e del Feldmaresciallo prussiano Gebhard Leberecht von Blücher è positiva per l’ordine e la ragione. Per Sciascia, scettico illuminista, con Napoleone e la Vecchia Guardia viene sconfitta la speranza progressista.

L’Europa del dopo Waterloo è regolata dal Congresso di Vienna, primo incontro mondiale di grandi potenze, che secondo l’ex segretario di Stato Henry Kissinger anticipa «Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite» e assicura pace, stabilità e legittimità, dopo la Rivoluzione francese 1789 e le scorrerie di Napoleone. Per lo storico Adam Zamoyski, invece, il Congresso equivale «all’arresto dell’intera Europa», nega la libertà, blocca le riforme sociali, restaura tratti feudali.

Senza Twitter
L’atto finale del Congresso cade il 9 di giugno del 1815, i lavori erano cominciati a novembre del 1814, si doveva riscrivere la carta politica e dinastica del continente. Austria, Russia, Prussia e Gran Bretagna intendevano far tutto da sole, relegando a un simbolico ruolo le potenze minori, ma Svezia, Spagna, Portogallo e Francia dei redivivi Borboni – gli «otto» membri del Congresso - si sentono parte già del Trattato di Parigi 1814, per nulla intenzionate a farsi legare le mani dal ministro inglese, il visconte Castlereagh, dal principe austriaco Klemens von Metternich e dallo Zar Alessandro I. Un dispaccio impiegava tre settimane da Vienna a Parigi, un mese per Londra e due mesi per Mosca, i plenipotenziari di Vienna erano autonomi, riservati, senza twitter, hacker, Wikileaks, Snowden.
Il dilemma Borges-Sciascia divide ancora storici e opinione pubblica. Se lord Byron, inglese, gufava contro i suoi a Waterloo, auspicando «di vedere su una picca la testa di quell’eunuco di Castlereagh e quel tagliagole di Wellington», il docente di Cambridge Brendan Simms la considera «la prima operazione Nato, con Wellington combattevano inglesi, tedeschi, olandesi, belgi…». Kissinger osserva nel suo ultimo saggio World Order, come Vienna valga la Pace di Westphalia 1648, che mette fine a trenta anni di guerre religiose. Con tutti i suoi limiti, sentimenti e aspirazioni nazionali negletti, dinastie imposte contro le aspirazioni locali, confini disegnati a tavolino, il Congresso di Vienna anticipa l’idea odierna che un accordo diplomatico, pur mediocre, sia sempre superiore alla distruzione delle battaglie, perché – per dirla con il certo non pacifista Winston Churchill - «il bla bla diplomatico è preferibile alla guerra».
Il ruolo di Talleyrand
Le potenze dominanti devono presto accorgersi che la loro influenza non è assoluta. L’astuto inviato francese, Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord comprende che Parigi può giocare sulle divisioni tra Austria, Russia, Prussia e Gran Bretagna, e, anticipando il trasformismo di De Gaulle e Mitterrand, opera su tanti fronti. Già vescovo di Autun, rivoluzionario dopo il 1789, ministro degli Esteri di Bonaparte e inviato a Vienna come capo della diplomazia del restaurato monarca Luigi XVIII, Talleyrand ambisce a ripristinare i confini pre-rivoluzionari e avrà risultati imprevedibili nel 1814.
Dimenticato è oggi il contributo di Friedrich von Gentz, «Hofrat», consigliere privato di Metternich, giornalista persuaso che l’ordine debba regnare su un’Europa che la libertà del 14 luglio 1789 ha trasformato in carnaio, non nel cenacolo illuminista sognato da Voltaire e Locke. Von Gentz muore intristito dall’amore per la ballerina Fanny Elssler (tocca a Metternich pagare i funerali dell’amico), ma a Vienna anticipa il ruolo degli intellettuali moderni negli affari internazionali, dalla Guerra Fredda al conflitto con il terrorismo, scrivendo saggi, partecipando a balli e banchetti, promuovendo conversazioni informali tra i diplomatici. Perché il Congresso fu anche festa mobile: aristocratici, dame, cicisbei, borghesi arricchiti, cortigiane, brindano a champagne, in balli inebrianti, allo scampato pericolo rivoluzionario dell’«usurpatore corso», come scrive lo storico Brian Vick nel brillante saggio The Congress of Vienna: power and politics after Napoleon. 
«L’Europa senza distanze» che Metternich ha in mente, nasce in salotti eleganti, come quello di Fanny Arnstein, dove il messo papale blocca in un angolo il povero Castlereagh perorando la causa pontificia. L’austero nazionalista tedesco von Treitschke depreca «la diplomazia da salotto», ma chiacchierando, la nuova classe dirigente smussa differenze e crea compromessi. Vick supera il dilemma Borges-Sciascia e considera l’Europa dopo Vienna e Waterloo non scontro tra reazionari e rivoluzionari, ma «cauto consenso tra liberali moderati e conservatori riformisti, per tutelare i popoli da pericolosi esperimenti estremisti».
Un’eco ancora viva
Quando i valzer si spengono a Vienna lo Zar Alessandro («troppo debole per l’ambizione, troppo ambizioso per la vanità» secondo Metternich) concede la Galizia all’Austria e Thorn alla Prussia, in cambio della Polonia. La Prussia prende la Sassonia, parte della Westphalia, la Pomerania e la riva sinistra del Reno, come imposto da Londra contro Parigi. Il regno olandese include il Belgio. L’Austria ottiene Tirolo, Baviera, Württemberg e Baden. La Germania diventa potenza, il Papa torna nei suoi Stati, i Borboni a Napoli. Milano e Venezia cadono sotto Vienna, detestata dai carbonari alla Pellico, amata da tanti anonimi burocrati italiani per le future divisioni del Risorgimento, Genova è piemontese, Toscana e Modena sotto l’influenza austriaca, Parma e Piacenza assegnate a Maria Luisa, consorte di Napoleone.
Le barricate del 12 gennaio 1848 a Palermo incrineranno quest’ordine, ma solo la Prima Guerra Mondiale, nel 1914, lo distruggerà. Cento anni dopo è raro, dalla crisi euro all’Ucraina, l’evento di prima pagina che non abbia un’eco a Vienna 1815: nel male, ma anche nel bene.



Waterloo, un trionfo che dimentica il genio prussiano

Lo scrittore Cornwell racconta ora per ora la sconfitta di Napoleone: attribuisce però l’intero merito agli inglesi di Wellington

di Alessandro Barbero La Stampa TuttoiLibri 13.6.15

I luoghi comuni sono duri a morire. Nell’immaginario collettivo i tedeschi passano ancora per il popolo più militarista d’Europa, e chissà quanto tempo ci vorrà perchè quella nazione profondamente pacifica riesca a far dimenticare gli elmi chiodati del Kaiser e il passo dell’oca nazista. Non è affatto consueto, invece, associare l’Inghilterra al militarismo, eppure quello è oggi il paese dove il culto delle glorie passate è più vivo, e dove la storia militare è una passione collettiva coltivata con una punta di sciovinismo. Per molti sudditi di Sua Maestà amare la storia significa innanzitutto celebrare con compiacimento una serie ininterrotta di vittorie inglesi, dalle grandi battaglie della guerra dei Cent’Anni alla guerra delle Falkland, passando, naturalmente, per Waterloo. E non si tratta di un hobby per pochi, ma di una componente della cultura popolare: una delle serie televisive di maggior successo in Inghilterra, Sharpe, protagonista Sean Bean, racconta proprio le eroiche avventure di un soldato inglese durante le guerre napoleoniche.

Il creatore di Sharpe, Bernard Cornwell, è un prolificissimo autore di romanzi storici, la cui produzione ha raggiunto livelli addirittura industriali: la serie di Sharpe conta 24 volumi, ma ce ne sono altri 8 ambientati tra gli antichi Sassoni, 3 su re Artù, 4 sulla guerra civile americana, 5 sulla guerra dei Cent’Anni, e altri 11 ambientati in epoche diverse, per un totale di 55 romanzi – più un solo libro di non fiction, appena uscito, su Waterloo. Quest’anno cade il bicentenario della grande battaglia, migliaia di rievocatori in divisa si sono dati appuntamento per farla rivivere in quella che Victor Hugo chiamò la «triste pianura» a pochi chilometri da Bruxelles, e puntualmente le librerie si sono riempite di nuovi libri dedicati all’argomento. Com’era forse inevitabile, quello di Cornwell è l’unico ad essere stato subito tradotto in tutte le lingue, benchè non sia necessariamente il più bello: non mancano segni di una confezione frettolosa in vista dell’appuntamento. E lo stesso vale per la traduzione, affidata a gente beatamente ignara dell’argomento e del relativo lessico, per cui contiene un buon numero di spropositi: ma questo ormai succede regolarmente ai libri di storia militare tradotti in Italia, qualunque sia la casa editrice.
Ma il vero problema del libro di Cornwell è che sembra un pezzo di antiquariato, anziché un libro di storia scritto nel 2014. Negli ultimi anni una storiografia libera da pregiudizi nazionali ha mostrato i limiti della versione tradizionale, anglocentrica, della battaglia, sottolineando che Waterloo fu una vittoria tedesca almeno quanto inglese, e forse anche un po’ di più: c’erano molti più soldati tedeschi che britannici in campo, e senza l’arrivo tempestivo dell’esercito prussiano del vecchio feldmaresciallo von Blücher non c’è dubbio che l’esercito multinazionale del duca di Wellington, in cui si parlavano quattro lingue, sarebbe stato sconfitto. Ma la visione di Cornwell è convenzionale e anglocentrica. Fin dalla prima pagina ripete il vetusto luogo comune secondo cui l’ultimo assalto di Napoleone, la carica della Vecchia Guardia, s’infranse contro la linea inglese «quando i prussiani stavano per entrare in scena a sinistra»: come dire che gli inglesi hanno comunque vinto da soli. La verità è che i prussiani erano entrati in scena da ore, e che avevano combattuto la loro battaglia, separata da quella di Wellington, costringendo Napoleone a impiegare contro di loro quasi tutte le riserve ammassate quel mattino in vista dell’attacco decisivo: per cui la Vecchia Guardia dovette avanzare da sola, con il risultato che sappiamo.
Non è che Cornwell queste cose non le sappia: è che riesce a raccontare la giornata senza metterle in evidenza. Il duca di Wellington disse una volta che la battaglia di Waterloo era stata come un incontro di pugilato: «Mai visto un incontro fra due picchiatori così. Eravamo tutt’e due quello che i pugili chiamano dei ghiottoni» (un termine dello slang sportivo che designava chi non ha paura del corpo a corpo, e si lascia massacrare piuttosto che arrendersi). L’immagine è bellissima, ma la verità è che i pugili sul ring erano tre, e che il peso massimo, Napoleone, venne costretto a gettare la spugna da due pesi medi, con Blücher che lo lavorava ai fianchi impedendogli di usare tutta la sua forza contro Wellington. Ecco, il libro di Cornwell è scritto da un tifoso del pugile inglese, per un pubblico di connazionali: l’avversario e il socio sono messi sotto i riflettori solo quanto basta per celebrare ancor meglio la vittoria del loro idolo.
Pazienza: la storia è di per sé grandiosa, piena di suspence, di emozione, di brivido, soprattutto ora che gli storici hanno imparato a non nascondere gli aspetti più truci del macello. Quando riesce a dimenticare la compassione per quei poveri francesi, destinati a rompersi le corna contro l’invincibile fanteria inglese, e si ricorda che quel giorno Napoleone è stato fino all’ultimo sul punto di vincere, anche Cornwell riesce a tenere il lettore col fiato sospeso, come se non sapesse già dall’inizio come è andata a finire.
* Alessandro Barbero, storico e romanziere, ha pubblicato una storia di Waterloo (Laterza) 



Così la “vittoria” francese divenne una disfatta 

18 giugno 1815: alle sei del pomeriggio erano sicuri del trionfo, Wellington ribaltò la situazione 

Marco Zatterin La Stampa 14 5 2015

Passate le sei del pomeriggio, dopo oltre quattro ore di combattimenti senza quartiere, il maggiore inglese George Baring ordina ai suoi hannoveriani della «Legione tedesca del Re» di ritirarsi dalla Haie Sainte, la fattoria che sinora ha protetto il cuore dell’esercito alleato dall’offensiva imperiale. I fanti francesi avanzano, esultanti. Il maresciallo Ney annuncia al generale Desales, comandante dell’artiglieria, «stasera verrete a cena da me a Bruxelles». Il nemico gli pare sul punto di cedere, così invoca i pretoriani della Vecchia Guardia, senza sapere che sono già impegnati a Sud-Est, nel villaggio di Plancenoit. Napoleone prova ad aiutarlo con una menzogna, fa dire che il fido Grouchy si è finalmente ricongiunto all’Armée. Invece Grouchy è lontano, così quelli che arrivano sono i prussiani di Blücher che proprio Grouchy per tutto il giorno ha inutilmente cercato di raggiungere. E sono troppi perché lo scontro possa continuare senza trasformarsi in una fatale sconfitta per l’Aquila imperiale.

200 mila in 16 km quadrati
Qui finisce «la Battaglia» e si chiudono i conti del 18 giugno 1815, una domenica. Svaniscono le ambizioni dell’esercito che per vent’anni ha dominato il continente con poche eccezioni, e quelli di Napoleone Bonaparte, autoincoronatosi imperatore dei francesi a Notre-Dame undici anni prima. Non s’era mai visto scontro altrettanto feroce, teste mozzate e macelleria equina, mai tanto sangue in così poco spazio, né sarebbe più accaduto. Duecentomila uomini si affrontarono in un rombo di quattro chilometri per quattro: i blu e bianchi francesi; i rossi britannici, i grigioblù olandesi, i verdi hannoveriani, i prussiani blu notte. Il fumo che distorceva la vista. Il sangue che mescolava i colori.
Non si è combattuto a Waterloo. Bisognerebbe chiamarla Battaglia di Mont-Saint-Jean o di Braine-l’Alleud, ma è ormai troppo tardi. Dopo essere ritornato dall’Elba il primo marzo, Napoleone aveva riconquistato il potere con una facilità che non avrebbe ritrovato nel gestirlo. Rimesso sul trono dagli alleati, Luigi XVIII era fuggito a Gand lasciando un esercito ridotto dall’abbandono della leva obbligatoria seguito alla restaurazione. La vera minaccia veniva però da fuori, dalla Settima coalizione formata per cancellare «il piccolo caporale» dalla Storia: i 96 mila anglo-olandesi del Duca di Wellington erano in Belgio con 124 mila prussiani; 200 mila austriaci marciavano verso l’Alsazia-Lorena e 150 mila russi erano attesi sul Reno nell’estate. L’imperatore aveva in tutto 125 mila uomini. 
La mossa di Napoleone
Napoleone decise di agire di sorpresa, prima che il nemico si riunisse e diventasse insuperabile. Il 6 giugno mosse verso il Belgio da Metz e Lille. Nove giorni più tardi sbucò da Charleroi fra gli anglo-olandesi e i prussiani. Il 16 giugno, in un pomeriggio, mise in fuga i primi a Quatre-Bras, e sconfisse i secondi a Ligny. Cominciava bene, tuttavia fu il 17 giugno a essere determinante. Perché Wellington riuscì a riorganizzarsi senza danni sulla strada per Bruxelles e Blücher si ritirò a Est, verso Wavre invece che Namur, dove il generale Grouchy - che aveva informazioni sbagliate - corse inutilmente a cercarlo.

Il fattore pioggia
Durante la notte piovve in abbondanza. Al mattino, il sole tornato a splendere nel cielo del Brabante trovò gli alleati ben disposti sul crinale di Mont-Saint-Jean, una posizione che offriva un punto di vista formidabile. La battaglia non cominciò subito. I due eserciti attesero che il fango si asciugasse per facilitare il movimento dei cannoni. I primi colpi furono sparati dopo le 11, quando l’imperatore ordinò al generale Reille di prendere a ogni costo la fattoria di Hougoumont che copriva la destra alleata: nonostante la carneficina e le bombe incendiarie, lo «chateau» non cadde. I francesi persero tempo e uomini.
La seconda mossa dell’Aquila imperiale fu l’attacco al centro delle linee alleate coi fanti di d’Erlon, coperti da un fitto cannoneggiamento. Giunsero a sentire l’alito dei nemici. Un feroce contrattacco britannico e una carica della cavalleria pesante li costrinse a ripiegare disordinatamente.
L’errore fatale di Ney
Fu allora che il generale Ney, pensando alla tavolata bruxellese con Desales, spedì la cavalleria francese a caricare la compagine nemica che riteneva indebolita e mal disposta, errore che pagò caro davanti ai quadrati alleati. Nulla poterono i cavalieri corazzati della Guardia. E neanche la fanteria sopraggiunta verso le sei.
Un lampo di speranza s’accese con la caduta della fattoria Haie Sainte. Erano le sei e mezzo. «Datemi la notte o datemi Blücher!», invocò Wellington. Gli diedero i prussiani che, gabbato Grouchy, apparvero da Oriente e ingaggiarono i francesi fra le case di Plancenoit. Impegnate sui due fronti, le truppe imperiali preferirono la fuga alla morte. La Guardia imperiale indietreggiò e sparì nel fumo da cui era emersa. «Merde!», è la risposta (apocrifa) del Visconte di Cambronne a chi gli chiedeva la resa. Napoleone era sconfitto, Napoleone era già su una vela per Sant’Elena, Napoleone usciva da un’Europa che non sarebbe stata più la stessa. Sul campo oltre 40 mila fra morti, feriti e dispersi. Ma i numeri sono incerti.
Andò davvero così? «Lascia perdere Waterloo - intimò il Duca vincitore a un suo biografo -. Nessuno può ricostruire l’ordine o l’esatto momento in cui le cose accaddero». Sir John Colborne, che comandava il 52° di fanteria leggera, dichiarò che «solo gli ufficiali a cavallo» potevano dare un resoconto della battaglia. Difficile avere certezze e, anzi, chi va a Waterloo oggi può esser tentato di pensare che il trionfatore sia stato Napoleone, perché solo di lui si parla a Mont-Saint-Jean e dintorni. Questo non è certamente successo. Sicuro come che Ney non cenò a Bruxelles con Desales quella sera del 18 giugno di duecento anni fa. 

Waterloo tra i due litiganti il Belgio gode 

Duecento anni dopo, sul luogo della battaglia che segnò la fine di Napoleone va in scena la più grande rievocazione militare mai organizzata 

La Stampa 14 5

Quest’anno vincono i belgi. Sono riusciti a trasformare in un evento globale il bicentenario della battaglia di Waterloo, lo scontro fatale del 18 giugno 1815 in cui la coalizione condotta dal Duca di Wellington sbaragliò con valore e fortuna le armate napoleoniche. È probabilmente la più grande rievocazione militare mai organizzata. Tra giovedì e domenica, a Sud di Bruxelles, sulle colline fra Mont-Saint-Jean e Braine-L’Alleud sono attesi 5260 «soldati», con 1103 fra aiutanti di campo, vivandieri e ragazzi, 100 cannoni e 360 cavalli. È un circo da oltre 10 milioni di euro, spesi bene visto che sono stati venduti 114 mila biglietti, esauriti da aprile. Hanno pensato a tutto. «Le previsioni dicono che il primo giorno potrebbe piovere - ammette un organizzatore col sorriso -. La fedeltà con la Storia sarà ancora maggiore».

I francesi non partecipano a livello istituzionale, la vivono con malcelato fastidio, sebbene l’attore scelto per impersonare Napoleone reciti bene la parte e assicuri che «quest’anno o vinco o abdico». Gli inglesi sono spavaldi, avranno 1283 replicanti in campo, poco meno dei 1328 in viaggio dalla Germania. Dall’ex impero napoleonico arriveranno soltanto in 650, ma il bello è che il numero di britannici e tedeschi che voglio battersi (e morire) per l’aquila imperiale è straordinariamente superiori alle attese.
I belgi, soprattutto quelli della regione vallona, lavorano, incassano, sorridono. L’hanno anche spuntata sulla moneta commemorativa. Essendo a corso legale hanno dovuto chiedere l’autorizzazione all’Eurozona e la Francia ha posto il veto. Loro l’hanno aggirato. Hanno coniato un pezzo da collezione da 2,5 euro, con la collina di Waterloo e il suo Leone: «Questa non è una moneta», direbbe Magritte. Comunque sia, l’hanno offerta a 6 euro ed è rapidamente sparita. Poi ne hanno emessa una seconda da 10 euro col profilo dell’Imperatore. Un «beau geste»? Oltre la frontiera, verso Parigi, non è affatto piaciuta. «Belge-geste», hanno detto. 
[M. ZAT.]

Il tracollo di Bonaparte è cominciato a Trafalgar 

Ernesto Ferrero 

Le sconfitte e le vittorie arrivano da lontano. Si può dire che Waterloo, a un soffio dall’essere vinta ai tempi supplementari, comincia con la disastrosa sconfitta navale di Trafalgar (1805), con la scriteriata invasione della Spagna (1808-09) e con la disfatta di Russia (1812). Un’identica hybris può colpire gli imperi e le aziende: la presunzione di una crescita illimitata attenua l’accuratezza della progettazione, il calcolo dei rischi, di costi e ricavi. Nella fretta di conquistare nuovi mercati, non c’è tempo di preparare un management all’altezza, e un centralismo ossessivo finisce col riportare al Líder Máximo ogni minima decisione. Un’ambizione diventata irragionevole forza la mano al giocatore talentuoso, lo spinge all’azzardo che finirà col perderlo.

Napoleone sottovaluta la suscettibilità e l’orgoglio nazionale dei popoli che vuol sottomettere, non potendo credere che al suo ottimo modello amministrativo gli spagnoli o i russi preferiscano quello piuttosto arretrato dei loro sovrani. In Russia l’invasione del suolo patrio crea un fortissimo sentimento identitario e patriottico, il Paese è costretto a crescere in fretta sotto l’urgenza della sfida mortale. E poi il know-how napoleonico ha smesso di essere una novità. I vinti di ieri hanno imparato la lezione, le battaglie sono diventate incerte, costose, mai veramente risolutive.
Abituato a giocare tutto sulla carta della grande battaglia vincente, Napoleone non capisce che anche sul mare, elemento che non conosce e non padroneggia, sarebbe stata migliore strategia, di fronte a un avversario soverchiante, condurre una lunga guerriglia di logoramento in grado di intralciare i traffici inglesi ben più del Blocco Continentale. Senza il dominio dei mari non era possibile vincere una guerra che era in primo luogo commerciale. Così la Grande Vittoria Finale rimane un sogno di gioventù. Il gioco è diventato troppo grande e troppo complesso persino per uno statista e manager di immense qualità. E poi, incredibilmente, l’uomo proiettato nel futuro trascura l’innovazione tecnologica: i fucili sono ancora quelli modello 1777, l’artiglieria non è aggiornata da trent’anni, l’invenzione del battello a vapore è giudicata inapplicabile. Per lui resta primario il fattore umano, ma dopo vent’anni di guerre anche l’Armée è diventata un patchwork multietnico, raccogliticcio e impreparato, in cui si parlano troppe lingue diverse. Forse Napoleone è stato il primo a pagare il prezzo della globalizzazione forzata che lui stesso aveva avviato. 

La guerra moderna non crea stabilità 
Gianni Riotta 

Lo storico Creasy conclude la classica antologia di «battaglie decisive» con Waterloo, ritenendola culmine della storia. Tante battaglie hanno avuto questo onore, Maratona, Zama-Naraggara, Lepanto, Stalingrado, solo per rivelarsi momenti di equilibrio precario. John Keegan, ne Il volto della battaglia, ripercorre i cento «se» che da due secoli accompagnano sangue e memorie di Waterloo. Se la preghiera di Wellington non fosse stata esaudita, «Notte o Blücher», o l’arrivo delle tenebre che allora chiudevano i combattimenti, o l’alleato maresciallo prussiano a finire gli stremati francesi. Se tra i belgi e gli olandesi, infidi, riluttanti e impauriti, avessero prevalso i tanti disertori. Se il maresciallo Ney, «il coraggioso dei coraggiosi», cinque cavalli uccisi mentre li montava a Waterloo, avesse prevalso nella carica. E se la Guardia, arrivata a un passo dalle linee inglesi, anziché arretrare al grido che cambia la storia - «la Garde recule!» - avesse compiuto l’attacco!

Napoleone aveva condotto la campagna con la consueta geniale interpretazione del teatro, consapevole che i suoi 200.000 soldati, non più corroborati dalla leva obbligatoria, né attratti in massa dal patriottismo o dal soldo pagato con le invasioni, non bastavano a fronteggiare la coalizione, con i russi in riserva. Dividendo inglesi e prussiani passa per l’ultima volta a Ligny, ma a Waterloo non vede spegnersi la furia militare, assiste al tramonto di un progetto politico. È il sistema fiscale inglese che batte Napoleone, prosciugandone le risorse, impedendone la ripresa politica. Waterloo spegne il sogno romantico della battaglia di Valmy, con la carica del generale Kellerman padre e i suoi poveri coscritti del 1792, l’idea che i patrioti rivoluzionari prevalgano sulle milizie professionali delle monarchie. Non più.
Wellington lo comprende, confidando all’amica Lady Shelley, un mese dopo la vittoria su Napoleone: «Una sola grazia chiedo a Dio: aver combattuto a Waterloo la mia ultima battaglia. Dover sempre combattere è un destino orribile. In guerra, gridando gli ordini, mi dimentico dei sentimenti. Cessato il fuoco, comincia l’angoscia. L’anima, la ragione, si usurano, impossibile pensare alla gloria. [...] Con l’eccezione di una battaglia perduta, la più grande disgrazia che possa capitare agli uomini è una battaglia vinta». 


Queste parole sono il lascito di Waterloo: al contrario di quel che riteneva Napoleone, la guerra moderna non crea stabilità, Prima guerra mondiale e Hitler confermano. Negli anni duri della Guerra fredda, Truman, Eisenhower, Stalin e Krusciov, soprattutto dopo la bomba termonucleare, praticano, sia pur riluttando, la lezione di Arthur Wellesley, il primo Duca di Wellington. Speriamo che, anche nel XXI secolo, Usa, Russia, Cina, India, Europa la rispettino.


Waterloo non fu soltanto sfortuna Errori e stanchezza di Napoleone 
Incoerenza L’imperatore diceva che il tempo è il fattore cruciale. E quel giorno ne perse troppo 
17 giu 2015  Corriere della Sera Di Giuseppe Galasso © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Sulla battaglia di Waterloo, della quale ricorre domani il duecentesimo anniversario, Napoleone a Sant’Elena non aveva alcun dubbio. Si chiedeva spesso che cosa avesse sbagliato in quella giornata per lui conclusiva. La risposta era sempre la stessa. Di sbagliato, nulla. La conduzione strategica e tattica della battaglia era stata ineccepibile. L’esito catastrofico era stato tutto e soltanto effetto della sfortuna, della cattiva sorte che lo aveva atteso lì.
Si può, umanamente, più che capire. La sua idea di non aver nulla sbagliato quel giorno non era del tutto infondata. A un certo punto la sua vittoria si era nettamente delineata; e, non fossero intervenuti i prussiani di Blücher, con il francese Grouchy errante a vuoto a breve distanza, Wellington sarebbe uscito distrutto dallo scontro. Del resto, le perdite francesi non furono in sostanza maggiori di quelle britanniche e prussiane, e le forze di Napoleone furono battute e disperse, piegate, ma non annientate. Che, poi, anche un esito opposto della battaglia non avrebbe di molto mutato le cose e non avrebbe affatto significato vincere la guerra, è un altro discorso. 
Che nulla vi fosse da osservare sulla conduzione della battaglia, non si può, tuttavia, dire. La guerra in Spagna e Portogallo avrebbe dovuto far valutare meglio a Napoleone la tattica di Wellington nello schierare le sue truppe. Allo stesso modo, avrebbe potuto valutare meglio la differenza nella potenza di fuoco dello schieramento inglese rispetto a quello dello schieramento e dell’attacco in colonna: la magnifica resistenza dei quadrati della Guardia imperiale, a cose ormai decise, lo conferma. Ed era poi necessario spendere tanto tempo nell’attacco alla fattoria della Belle Alliance? 
Già: il tempo. La battaglia avrebbe potuto concludersi prima dell’arrivo determinante dei prussiani? È un’ipotesi difficile a farsi per quei giorni di pioggia e di terreno molle. Invece, per alcuni Napoleone, contro il suo solito («in guerra, la perdita di tempo è un male irreparabile», scriveva nel 1806 al fratello Giuseppe), parecchio tempo lo perse prima dello scontro. 
Nel libro La Battaglia di Waterloo (Castelvecchi), un napoleonista convinto come Henry Lachouque, militare di professione, nota che il 15 giugno l’imperatore perse cinque ore, dando modo di fuggire ai prussiani; e che «nella notte fra il 16 e il 17» perse quindici ore, lasciando fuggire l’armata battuta di Blücher, a Wavre, per ritrovarsela poi di fronte a Waterloo. Anche il 17, alla vigilia, «si attarda a Fleurus, visita in vettura il campo di battaglia, passeggia a cavallo a Ligny e a Brye, consola i feriti, intrattiene i suoi generali sulla politica giacobina, liberale, gioca all’imperatore secondo l’immagine di Épinal». E lo stesso autore nota pure che, sempre contro i suoi stessi principii, non fu lui a scegliere il campo di battaglia, e che non operò il massimo concentramento possibile delle sue forze. 
Certo, sono critiche del giorno dopo, ma inficiano la sicurezza professata a Sant’Elena di non aver nulla sbagliato, e confermano, insieme, il giudizio di chi lo vide, nei Cento giorni del 1815, diverso dal fulmine di guerra della prima campagna d’Italia o di Austerlitz: appesantito, facile alla stanchezza, e anche un po’ torpido e lento. Era ancora, come riconosceva Wellington, un grande stratega («fa onore alla guerra»). A Sant’Elena, però, «sentivo — diceva pure — la fortuna abbandonarmi. Dentro di me non avevo il presentimento del successo finale. Non osare vuol dire non fare niente al momento opportuno, e non si osa se non si è convinti della buona fortuna». 
Decisamente, non la sfortuna, ma il fato bussava alla sua porta in quei giorni del 1815, con il respiro di una storia che stava andando già da un po’ oltre di lui.

La Francia duecento anni dopo ancora non digerisce la sconfitta
Il 18 giugno 1815 la fine dell’epopea di Napoleone. Celebrazioni inmezza Europa conmostre e rievocazioni. MaHollande ha boicottato lamoneta ad hoc da 2 euro
18 giu 2015 Libero BRUNAMAGI
Bicentenario di una battaglia diventata simbolo di tutte le sconfitte: chi non hamai pronunciato la frase «è stata una Waterloo» quale commento a un fallimento ineluttabile? Parafrasando il cinema e gli eventi, la si può definire una «sconfitta perfetta». Tanto da accrescere paradossalmente la gloria delperdente, Napoleone I, l’empereur: continua a prevalere intorno alla sua figura la leggenda del fulmineo condottiero, accantonandonela spietatezza, indifferente, pur di vincere, anche di fronte alla morte dei suoi devotissimiuomini.
Furono73.000 i francesi schieraticontro i 118.000 della Settima coalizione che vide alleati inglesi e prussiani per combattere il “redivivo”, tornato a sorpresadal confino all’Elba, per unamanciata di ore quasi vittorioso in sella alla candidagiumentaDesirée, nome ispirato dal primoamore di gioventù. Cavalla adorata quasi quanto l’ex moglie Giuseppina, ma perlomeno leinon lo aveva riempito di corna. Ci furono migliaia di morti in una tre giorni di full immersion nel sangue, dal 16 al 19 giugno 1815, in una verdeggiante pianura a sud di Bruxelles, tra paesini ridenti come Quatre Bras e Ligny, dove dapprima Napoleone aveva vinto, e infineWaterloo, con il suo romantico campanile da cartolina incombente sulmassacro.
Molte le celebrazioni: a Londra è in corso la mostra Waterloo inedita, la battaglia rivisitata (alla Somerset House, sino al 31 agosto), in cui il fotografo Sam Faulkner ha ritratto 80 figuranti che interpretano i protagonisti più famosi della battaglia. Che sarà letteralmente rimessa in scena, dal 19 al 20 giugno, nei luoghi esattidelle cariche di cavalleria e di ogni scontro corpo a corpo, conlapartecipazionedi seimilafiguranti. Per l’esattezza soltanto il 5% sarà francese, guarda caso proprio loro (quelli chesiautoproclamanopaladinidellatutela dei diritti, dai tempi di liberté, egalité, fraternité, ma respingono imigranti) non riescono, neppure in nome dell’unitàeuropea, adaccantonare ilmito della grandeur, anzi rincarano: è a causadel lorodivietoche la previstamoneta celebrativa da due euro, voluta da re Filippo del Belgio, non sarà emessa. Al suo posto ne è stata coniata una simbolica, da due euro e cinquanta, che non sarà in circolazione in quanto falsa, e venduta come gadget al prezzo di sei euro. A Bruxelles, oggi sede del Parlamentoeuropeo (la storia a volte sidiverteconle coincidenzecuriose), hannoarricciatoilnaso, mainfinesi sonoadeguati. Evidentemente non si possono pretendere larghe vedute dal Paese di FrançoisHollande, presidentesocialista che vuole varare una legge antigossip ad personam.
Irritanti francesi a parte, se volete rivivere nei minimi particolari la battaglia che più ha ispirato letteratura e cinema (due icone per tutti, Marlon Brando e Rod Steiger nei panni di Napoleone), è appena uscito Waterloo ( Longanesi, pp. 334, euro 17,60), di Bernard Cornwell, ex giornalistadellaBBCe famoso autore di saggi e romanzi storici (per esempio la saga di Excalibur o le avventuremedievaliambientatetra l’InghilterraeimaridelNord). Unresocontocapillare della battaglia, la più suggestiva da ricostruire a tavolino con i soldatini per gliappassionati, pietramiliareper il futuro dell’Europa. Perché Napoleone avrebbe anche potuto vincere, se non fossero arrivati iprussiani sul filodi lana, comandati dal durissimo generale Blucher. In un continuo faccia a faccia a distanza, nel libro di Cornwell si fronteggiano i due immensi protagonisti di quel giorno fatidico: Napoleone, con le suemalinconie, i ricordi che si sfaldano, l’impennata illusoria di un grande ritornosulla scena, l’ultimoattaccoforsennato, infine la consapevolezza di un futuro che non ci sarà più; e l’altro, il Duca di Wellington, l’inglese comandante in capo, con le sue frequentazionimondane e amorose, un ballo a Bruxelles la sera prima della battaglia...
Per dirla con l’autore, con l’annuncio della fine di quella battaglia epocale: «...È quasi il giorno più lungo dell’anno e al calar della sera mancano ancora dueore, più che sufficientiperchéuno o due eserciti vengano annientati. Come capita con le grandi storie, anche se si sa già come andrà a finire, val sempre la pena di rileggerla».    


il bicentenario della battaglia
Per tre giorni il Belgio ha celebrato l’anniversario dello storico scontro con una ricostruzione degli avvenimenti dal sapore di manifestazione turistica
Beda Romano Domenicale 21 6 2015
Molti penseranno che nell’organizzare una fastosa ricostruzione della Battaglia di Waterloo le autorità belghe abbiano voluto ricordare i duecento anni della fine dell’impero napoleonico. Altri sosterranno che è stato il tentativo spregiudicato di fare di una commemorazione storica una manifestazione turistica. Altri ancora, con malizia, si chiederanno se il Belgio non abbia sottilmente stuzzicato l’amor proprio francese, ancora malmenato dalla sconfitta dell’imperatore. In realtà, con le celebrazioni organizzate in quella che Victor Hugo definì «una piana desolata», il Belgio ha anche celebrato se stesso.
Poco importa, agli occhi di molti belgi, se il Congresso di Vienna stabilì che l’attuale Belgio sarebbe diventato olandese. Se il piccolo Paese vide la luce quindici anni dopo, nel 1830, è perché bisognava isolare la sempre minacciosa Francia con uno stato-cuscinetto su cui continua a pesare il giudizio di Talleyrand: «Duecento protocolli non ne faranno mai una nazione». Mentre non passa giorno senza che il Paese debba fare i conti con le sue divisioni linguistiche, i suoi contrasti comunitari, Waterloo è una occasione per celebrare una difficile unità nazionale.
«La Battaglia di Waterloo – spiega Etienne Claude, direttore dell’ente chiamato a organizzare le celebrazioni di questo mese – è la culla dell’Europa moderna e una delle chiavi dell’esistenza del Belgio. Senza Waterloo non avremmo il Belgio, come lo conosciamo oggi». Le autorità hanno organizzato nei giorni scorsi una ricostruzione dei sanguinosi avvenimenti di due secoli fa su un periodo di tre giorni, dal 18 al 20 giugno. All’appello c’erano 6mila figuranti, 100 cannoni, 300 cavalli, 3.500 chili di polvere da sparo.
In questi mesi, il Paese ha vissuto al ritmo delle celebrazioni. Il quotidiano «La Libre Belgique» ha dedicato ogni settimana una pagina agli avvenimenti del 1815. La rete televisiva nazionale Rtbf ha appena trasmesso in prima serata una serie di documentari storici. Le librerie sono state rifornite di vecchie e nuove biografie di Napoleone, così come di precisi resoconti della battaglia. A Waterloo, i musei sono stati ristrutturati e ammodernati. La coreografia è stata preparata nei suoi minimi dettagli, anche perché erano attesi più di centomila spettatori.
«Semplice divertissement», ha dichiarato non senza ragione Anne Morelli, professore dell’U niversité Libre de Bruxelles . Ma c’è anche, soprattutto nella parte francofona del Paese ma anche in quella fiamminga, il desiderio di cavalcare il significato politico di Waterloo. Curiosamente, lo fecero persino i tedeschi nel 1914 quando in un appello alla popolazione belga giustificarono l’invasione del piccolo regno «ricordando i giorni gloriosi di Waterloo quando gli eserciti tedeschi contribuirono a fondare l’indipendenza e la prosperità» del Paese.
Gli ultimi mesi sono stati l’occasione per il Belgio di ricordare quanto il Paese debba al periodo napoleonico, tanto ai successi di Bonaparte quanto alla sua ultima disfatta. Dall’imperatore, il Paese ha ereditato tra le cose il codice civile e il liceo. Bruxelles, in particolare, gli deve la salvaguardia del Castello di Laeken, oggi residenza della famiglia reale, che ai tempi stava rischiando il degrado, ma anche il restauro del Théâtre de la Monnaie. Più in generale, in un Paese che stenta a distinguersi dai suoi vicini linguistici, Francia e Olanda, che tendono ad assorbire le glorie belghe, Waterloo per la sua localizzazione geografica è parte indiscutibile del patrimonio nazionale.
Ciò non significa però che la battaglia del 1815 non sia stata nei secoli fonte di contrasti tra francofoni e fiamminghi. Voluto da Guglielmo I d’Olanda per celebrare la vittoria di inglesi, olandesi e prussiani contro la Francia, il leone di bronzo che sovrasta la pianura su una collina artificiale rischiò nel 1832 la distruzione. Ritenendolo una offesa contro la Francia, un deputato vallone, Alexandre Gendebien, volle convincere il nuovo Parlamento belga di demolirlo. Senza successo. «Le Belge», un giornale dell’epoca, francofono per di più, scrisse: «I monumenti sono dei libri di storia all’uso dei popoli. Rispettateli se volete fondare una nazione».
In questo senso va capito il desiderio delle autorità belghe di coniare una moneta per ricordare il centenario della battaglia. Tre mesi fa, il governo belga chiese ai suoi partner europei l’autorizzazione di poter creare una moneta da due euro. Ancora ferita dalla sconfitta, la Francia si oppose; ma da allora l’ingegno belga ha avuto la meglio. Il ministero delle Finanze si è ricordato di una norma europea che consente a qualsiasi Paese di coniare monete purché abbiano un valore irregolare. La zecca belga ha quindi coniato centomila monete celebrative, da due euro e mezzo l’una.
In fondo a poco meno di duecento anni dalla sua fondazione e nonostante una retorica secessionista al Nord e slogan regionalisti al Sud, il Belgio ha una sua vena nazionalista. Incredibilmente, sia valloni sia fiamminghi si riconoscono insieme negli edifici Art nouveau di Victor Horta, nei dipinti di James Ensor e di Jan Van Eyck, nel surrealismo di René Magritte, nei romanzi di Georges Simenon, nei fumetti di Hergé e Edgar P. Jacobs, nelle canzoni di Jacques Brel. E in una battaglia di due secoli fa nella quale soldati belgi combatterono sui due fronti e il cui teatro naturale è protetto da una legge del 26 marzo 1914 approvata con 95 voti a favore, cinque contro e tre astensioni. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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