Franco Cardini Avvenire 1 giugno 2015
Il Congresso di Vienna La pace batte la libertà
A duecento anni dall’atto finale con cui le potenze vittoriose cercarono di ripristinare l’ordine distrutto da Napoleone gli storici sfumano il giudizio negativo sulla restaurazione Gianni Riotta La Stampa 7 6 2015
Nell’estate 1980, all’Hotel Excelsior di Roma, Jorge Luis Borges e Leonardo Sciascia si incontrano per una discreta conversazione. Rita Cirio, critica de L’Espresso, ricorda come i due scrittori abbiano un dissenso sulla battaglia di Waterloo, 18 giugno 1815. Per Borges, una nonna inglese, la vittoria del Duca di Wellington e del Feldmaresciallo prussiano Gebhard Leberecht von Blücher è positiva per l’ordine e la ragione. Per Sciascia, scettico illuminista, con Napoleone e la Vecchia Guardia viene sconfitta la speranza progressista.
L’Europa del dopo Waterloo è regolata dal Congresso di Vienna, primo incontro mondiale di grandi potenze, che secondo l’ex segretario di Stato Henry Kissinger anticipa «Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite» e assicura pace, stabilità e legittimità, dopo la Rivoluzione francese 1789 e le scorrerie di Napoleone. Per lo storico Adam Zamoyski, invece, il Congresso equivale «all’arresto dell’intera Europa», nega la libertà, blocca le riforme sociali, restaura tratti feudali.
Senza Twitter
L’atto finale del Congresso cade il 9 di giugno del 1815, i lavori erano cominciati a novembre del 1814, si doveva riscrivere la carta politica e dinastica del continente. Austria, Russia, Prussia e Gran Bretagna intendevano far tutto da sole, relegando a un simbolico ruolo le potenze minori, ma Svezia, Spagna, Portogallo e Francia dei redivivi Borboni – gli «otto» membri del Congresso - si sentono parte già del Trattato di Parigi 1814, per nulla intenzionate a farsi legare le mani dal ministro inglese, il visconte Castlereagh, dal principe austriaco Klemens von Metternich e dallo Zar Alessandro I. Un dispaccio impiegava tre settimane da Vienna a Parigi, un mese per Londra e due mesi per Mosca, i plenipotenziari di Vienna erano autonomi, riservati, senza twitter, hacker, Wikileaks, Snowden.
Il dilemma Borges-Sciascia divide ancora storici e opinione pubblica. Se lord Byron, inglese, gufava contro i suoi a Waterloo, auspicando «di vedere su una picca la testa di quell’eunuco di Castlereagh e quel tagliagole di Wellington», il docente di Cambridge Brendan Simms la considera «la prima operazione Nato, con Wellington combattevano inglesi, tedeschi, olandesi, belgi…». Kissinger osserva nel suo ultimo saggio World Order, come Vienna valga la Pace di Westphalia 1648, che mette fine a trenta anni di guerre religiose. Con tutti i suoi limiti, sentimenti e aspirazioni nazionali negletti, dinastie imposte contro le aspirazioni locali, confini disegnati a tavolino, il Congresso di Vienna anticipa l’idea odierna che un accordo diplomatico, pur mediocre, sia sempre superiore alla distruzione delle battaglie, perché – per dirla con il certo non pacifista Winston Churchill - «il bla bla diplomatico è preferibile alla guerra».
Il ruolo di Talleyrand
Le potenze dominanti devono presto accorgersi che la loro influenza non è assoluta. L’astuto inviato francese, Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord comprende che Parigi può giocare sulle divisioni tra Austria, Russia, Prussia e Gran Bretagna, e, anticipando il trasformismo di De Gaulle e Mitterrand, opera su tanti fronti. Già vescovo di Autun, rivoluzionario dopo il 1789, ministro degli Esteri di Bonaparte e inviato a Vienna come capo della diplomazia del restaurato monarca Luigi XVIII, Talleyrand ambisce a ripristinare i confini pre-rivoluzionari e avrà risultati imprevedibili nel 1814.
Dimenticato è oggi il contributo di Friedrich von Gentz, «Hofrat», consigliere privato di Metternich, giornalista persuaso che l’ordine debba regnare su un’Europa che la libertà del 14 luglio 1789 ha trasformato in carnaio, non nel cenacolo illuminista sognato da Voltaire e Locke. Von Gentz muore intristito dall’amore per la ballerina Fanny Elssler (tocca a Metternich pagare i funerali dell’amico), ma a Vienna anticipa il ruolo degli intellettuali moderni negli affari internazionali, dalla Guerra Fredda al conflitto con il terrorismo, scrivendo saggi, partecipando a balli e banchetti, promuovendo conversazioni informali tra i diplomatici. Perché il Congresso fu anche festa mobile: aristocratici, dame, cicisbei, borghesi arricchiti, cortigiane, brindano a champagne, in balli inebrianti, allo scampato pericolo rivoluzionario dell’«usurpatore corso», come scrive lo storico Brian Vick nel brillante saggio The Congress of Vienna: power and politics after Napoleon.
«L’Europa senza distanze» che Metternich ha in mente, nasce in salotti eleganti, come quello di Fanny Arnstein, dove il messo papale blocca in un angolo il povero Castlereagh perorando la causa pontificia. L’austero nazionalista tedesco von Treitschke depreca «la diplomazia da salotto», ma chiacchierando, la nuova classe dirigente smussa differenze e crea compromessi. Vick supera il dilemma Borges-Sciascia e considera l’Europa dopo Vienna e Waterloo non scontro tra reazionari e rivoluzionari, ma «cauto consenso tra liberali moderati e conservatori riformisti, per tutelare i popoli da pericolosi esperimenti estremisti».
Un’eco ancora viva
Quando i valzer si spengono a Vienna lo Zar Alessandro («troppo debole per l’ambizione, troppo ambizioso per la vanità» secondo Metternich) concede la Galizia all’Austria e Thorn alla Prussia, in cambio della Polonia. La Prussia prende la Sassonia, parte della Westphalia, la Pomerania e la riva sinistra del Reno, come imposto da Londra contro Parigi. Il regno olandese include il Belgio. L’Austria ottiene Tirolo, Baviera, Württemberg e Baden. La Germania diventa potenza, il Papa torna nei suoi Stati, i Borboni a Napoli. Milano e Venezia cadono sotto Vienna, detestata dai carbonari alla Pellico, amata da tanti anonimi burocrati italiani per le future divisioni del Risorgimento, Genova è piemontese, Toscana e Modena sotto l’influenza austriaca, Parma e Piacenza assegnate a Maria Luisa, consorte di Napoleone.
Le barricate del 12 gennaio 1848 a Palermo incrineranno quest’ordine, ma solo la Prima Guerra Mondiale, nel 1914, lo distruggerà. Cento anni dopo è raro, dalla crisi euro all’Ucraina, l’evento di prima pagina che non abbia un’eco a Vienna 1815: nel male, ma anche nel bene.
Waterloo, un trionfo che dimentica il genio prussiano
Lo
scrittore Cornwell racconta ora per ora la sconfitta di Napoleone:
attribuisce però l’intero merito agli inglesi di Wellington
di Alessandro Barbero La Stampa TuttoiLibri 13.6.15
I luoghi comuni sono duri a morire. Nell’immaginario collettivo i
tedeschi passano ancora per il popolo più militarista d’Europa, e chissà
quanto tempo ci vorrà perchè quella nazione profondamente pacifica
riesca a far dimenticare gli elmi chiodati del Kaiser e il passo
dell’oca nazista. Non è affatto consueto, invece, associare
l’Inghilterra al militarismo, eppure quello è oggi il paese dove il
culto delle glorie passate è più vivo, e dove la storia militare è una
passione collettiva coltivata con una punta di sciovinismo. Per molti
sudditi di Sua Maestà amare la storia significa innanzitutto celebrare
con compiacimento una serie ininterrotta di vittorie inglesi, dalle
grandi battaglie della guerra dei Cent’Anni alla guerra delle Falkland,
passando, naturalmente, per Waterloo. E non si tratta di un hobby per
pochi, ma di una componente della cultura popolare: una delle serie
televisive di maggior successo in Inghilterra, Sharpe, protagonista Sean
Bean, racconta proprio le eroiche avventure di un soldato inglese
durante le guerre napoleoniche.
Il creatore di Sharpe, Bernard Cornwell, è un prolificissimo autore di
romanzi storici, la cui produzione ha raggiunto livelli addirittura
industriali: la serie di Sharpe conta 24 volumi, ma ce ne sono altri 8
ambientati tra gli antichi Sassoni, 3 su re Artù, 4 sulla guerra civile
americana, 5 sulla guerra dei Cent’Anni, e altri 11 ambientati in epoche
diverse, per un totale di 55 romanzi – più un solo libro di non
fiction, appena uscito, su Waterloo. Quest’anno cade il bicentenario
della grande battaglia, migliaia di rievocatori in divisa si sono dati
appuntamento per farla rivivere in quella che Victor Hugo chiamò la
«triste pianura» a pochi chilometri da Bruxelles, e puntualmente le
librerie si sono riempite di nuovi libri dedicati all’argomento. Com’era
forse inevitabile, quello di Cornwell è l’unico ad essere stato subito
tradotto in tutte le lingue, benchè non sia necessariamente il più
bello: non mancano segni di una confezione frettolosa in vista
dell’appuntamento. E lo stesso vale per la traduzione, affidata a gente
beatamente ignara dell’argomento e del relativo lessico, per cui
contiene un buon numero di spropositi: ma questo ormai succede
regolarmente ai libri di storia militare tradotti in Italia, qualunque
sia la casa editrice.
Ma il vero problema del libro di Cornwell è che sembra un pezzo di
antiquariato, anziché un libro di storia scritto nel 2014. Negli ultimi
anni una storiografia libera da pregiudizi nazionali ha mostrato i
limiti della versione tradizionale, anglocentrica, della battaglia,
sottolineando che Waterloo fu una vittoria tedesca almeno quanto
inglese, e forse anche un po’ di più: c’erano molti più soldati tedeschi
che britannici in campo, e senza l’arrivo tempestivo dell’esercito
prussiano del vecchio feldmaresciallo von Blücher non c’è dubbio che
l’esercito multinazionale del duca di Wellington, in cui si parlavano
quattro lingue, sarebbe stato sconfitto. Ma la visione di Cornwell è
convenzionale e anglocentrica. Fin dalla prima pagina ripete il vetusto
luogo comune secondo cui l’ultimo assalto di Napoleone, la carica della
Vecchia Guardia, s’infranse contro la linea inglese «quando i prussiani
stavano per entrare in scena a sinistra»: come dire che gli inglesi
hanno comunque vinto da soli. La verità è che i prussiani erano entrati
in scena da ore, e che avevano combattuto la loro battaglia, separata da
quella di Wellington, costringendo Napoleone a impiegare contro di loro
quasi tutte le riserve ammassate quel mattino in vista dell’attacco
decisivo: per cui la Vecchia Guardia dovette avanzare da sola, con il
risultato che sappiamo.
Non è che Cornwell queste cose non le sappia: è che riesce a raccontare
la giornata senza metterle in evidenza. Il duca di Wellington disse una
volta che la battaglia di Waterloo era stata come un incontro di
pugilato: «Mai visto un incontro fra due picchiatori così. Eravamo
tutt’e due quello che i pugili chiamano dei ghiottoni» (un termine dello
slang sportivo che designava chi non ha paura del corpo a corpo, e si
lascia massacrare piuttosto che arrendersi). L’immagine è bellissima, ma
la verità è che i pugili sul ring erano tre, e che il peso massimo,
Napoleone, venne costretto a gettare la spugna da due pesi medi, con
Blücher che lo lavorava ai fianchi impedendogli di usare tutta la sua
forza contro Wellington. Ecco, il libro di Cornwell è scritto da un
tifoso del pugile inglese, per un pubblico di connazionali: l’avversario
e il socio sono messi sotto i riflettori solo quanto basta per
celebrare ancor meglio la vittoria del loro idolo.
Pazienza: la storia è di per sé grandiosa, piena di suspence, di
emozione, di brivido, soprattutto ora che gli storici hanno imparato a
non nascondere gli aspetti più truci del macello. Quando riesce a
dimenticare la compassione per quei poveri francesi, destinati a
rompersi le corna contro l’invincibile fanteria inglese, e si ricorda
che quel giorno Napoleone è stato fino all’ultimo sul punto di vincere,
anche Cornwell riesce a tenere il lettore col fiato sospeso, come se non
sapesse già dall’inizio come è andata a finire.
* Alessandro Barbero, storico e romanziere, ha pubblicato una storia di Waterloo (Laterza)
Così la “vittoria” francese divenne una disfatta
18 giugno 1815: alle sei del pomeriggio erano sicuri del trionfo, Wellington ribaltò la situazione
Marco Zatterin La Stampa 14 5 2015
Passate le sei del pomeriggio, dopo oltre quattro ore di combattimenti senza quartiere, il maggiore inglese George Baring ordina ai suoi hannoveriani della «Legione tedesca del Re» di ritirarsi dalla Haie Sainte, la fattoria che sinora ha protetto il cuore dell’esercito alleato dall’offensiva imperiale. I fanti francesi avanzano, esultanti. Il maresciallo Ney annuncia al generale Desales, comandante dell’artiglieria, «stasera verrete a cena da me a Bruxelles». Il nemico gli pare sul punto di cedere, così invoca i pretoriani della Vecchia Guardia, senza sapere che sono già impegnati a Sud-Est, nel villaggio di Plancenoit. Napoleone prova ad aiutarlo con una menzogna, fa dire che il fido Grouchy si è finalmente ricongiunto all’Armée. Invece Grouchy è lontano, così quelli che arrivano sono i prussiani di Blücher che proprio Grouchy per tutto il giorno ha inutilmente cercato di raggiungere. E sono troppi perché lo scontro possa continuare senza trasformarsi in una fatale sconfitta per l’Aquila imperiale.
200 mila in 16 km quadrati
Qui finisce «la Battaglia» e si chiudono i conti del 18 giugno 1815, una domenica. Svaniscono le ambizioni dell’esercito che per vent’anni ha dominato il continente con poche eccezioni, e quelli di Napoleone Bonaparte, autoincoronatosi imperatore dei francesi a Notre-Dame undici anni prima. Non s’era mai visto scontro altrettanto feroce, teste mozzate e macelleria equina, mai tanto sangue in così poco spazio, né sarebbe più accaduto. Duecentomila uomini si affrontarono in un rombo di quattro chilometri per quattro: i blu e bianchi francesi; i rossi britannici, i grigioblù olandesi, i verdi hannoveriani, i prussiani blu notte. Il fumo che distorceva la vista. Il sangue che mescolava i colori.
Non si è combattuto a Waterloo. Bisognerebbe chiamarla Battaglia di Mont-Saint-Jean o di Braine-l’Alleud, ma è ormai troppo tardi. Dopo essere ritornato dall’Elba il primo marzo, Napoleone aveva riconquistato il potere con una facilità che non avrebbe ritrovato nel gestirlo. Rimesso sul trono dagli alleati, Luigi XVIII era fuggito a Gand lasciando un esercito ridotto dall’abbandono della leva obbligatoria seguito alla restaurazione. La vera minaccia veniva però da fuori, dalla Settima coalizione formata per cancellare «il piccolo caporale» dalla Storia: i 96 mila anglo-olandesi del Duca di Wellington erano in Belgio con 124 mila prussiani; 200 mila austriaci marciavano verso l’Alsazia-Lorena e 150 mila russi erano attesi sul Reno nell’estate. L’imperatore aveva in tutto 125 mila uomini.
La mossa di Napoleone
Napoleone decise di agire di sorpresa, prima che il nemico si riunisse e diventasse insuperabile. Il 6 giugno mosse verso il Belgio da Metz e Lille. Nove giorni più tardi sbucò da Charleroi fra gli anglo-olandesi e i prussiani. Il 16 giugno, in un pomeriggio, mise in fuga i primi a Quatre-Bras, e sconfisse i secondi a Ligny. Cominciava bene, tuttavia fu il 17 giugno a essere determinante. Perché Wellington riuscì a riorganizzarsi senza danni sulla strada per Bruxelles e Blücher si ritirò a Est, verso Wavre invece che Namur, dove il generale Grouchy - che aveva informazioni sbagliate - corse inutilmente a cercarlo.
Il fattore pioggia
Durante la notte piovve in abbondanza. Al mattino, il sole tornato a splendere nel cielo del Brabante trovò gli alleati ben disposti sul crinale di Mont-Saint-Jean, una posizione che offriva un punto di vista formidabile. La battaglia non cominciò subito. I due eserciti attesero che il fango si asciugasse per facilitare il movimento dei cannoni. I primi colpi furono sparati dopo le 11, quando l’imperatore ordinò al generale Reille di prendere a ogni costo la fattoria di Hougoumont che copriva la destra alleata: nonostante la carneficina e le bombe incendiarie, lo «chateau» non cadde. I francesi persero tempo e uomini.
La seconda mossa dell’Aquila imperiale fu l’attacco al centro delle linee alleate coi fanti di d’Erlon, coperti da un fitto cannoneggiamento. Giunsero a sentire l’alito dei nemici. Un feroce contrattacco britannico e una carica della cavalleria pesante li costrinse a ripiegare disordinatamente.
L’errore fatale di Ney
Fu allora che il generale Ney, pensando alla tavolata bruxellese con Desales, spedì la cavalleria francese a caricare la compagine nemica che riteneva indebolita e mal disposta, errore che pagò caro davanti ai quadrati alleati. Nulla poterono i cavalieri corazzati della Guardia. E neanche la fanteria sopraggiunta verso le sei.
Un lampo di speranza s’accese con la caduta della fattoria Haie Sainte. Erano le sei e mezzo. «Datemi la notte o datemi Blücher!», invocò Wellington. Gli diedero i prussiani che, gabbato Grouchy, apparvero da Oriente e ingaggiarono i francesi fra le case di Plancenoit. Impegnate sui due fronti, le truppe imperiali preferirono la fuga alla morte. La Guardia imperiale indietreggiò e sparì nel fumo da cui era emersa. «Merde!», è la risposta (apocrifa) del Visconte di Cambronne a chi gli chiedeva la resa. Napoleone era sconfitto, Napoleone era già su una vela per Sant’Elena, Napoleone usciva da un’Europa che non sarebbe stata più la stessa. Sul campo oltre 40 mila fra morti, feriti e dispersi. Ma i numeri sono incerti.
Andò davvero così? «Lascia perdere Waterloo - intimò il Duca vincitore a un suo biografo -. Nessuno può ricostruire l’ordine o l’esatto momento in cui le cose accaddero». Sir John Colborne, che comandava il 52° di fanteria leggera, dichiarò che «solo gli ufficiali a cavallo» potevano dare un resoconto della battaglia. Difficile avere certezze e, anzi, chi va a Waterloo oggi può esser tentato di pensare che il trionfatore sia stato Napoleone, perché solo di lui si parla a Mont-Saint-Jean e dintorni. Questo non è certamente successo. Sicuro come che Ney non cenò a Bruxelles con Desales quella sera del 18 giugno di duecento anni fa.
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