domenica 7 giugno 2015

Una biografia di Heirich Mann negli anni dell'esilio

La casa dell’esilioEvelyn Juers: La casa dell'esilio. La vita e il tempo di Heinrich Mann e Nelly Kroeger Mann, Bompiani

Risvolto
Nel 1933 lo scrittore e attivista politico Heinrich Mann e la sua compagna, Nelly Kröger, fuggono dalla Germania nazista, trovando rifugio prima in Francia e poi, ormai senza speranze, a Los Angeles. Attraverso la loro storia d’amore passionale e tormentata l’autrice guarda il mondo culturale europeo della prima metà del Novecento, e le vicende di Heinrich e Nelly si intrecciano con quelle del fratello di Heinrich, Thomas Mann; di sua sorella, Carla; degli amici, Bertolt Brecht, Alfred Döblin, e Joseph Roth; e con quelle degli scrittori James Joyce, Franz Kafka, e Virginia Woolf, tra gli altri. Evelyn Juers anima questa generazione di esuli con una straordinaria intensità e un racconto potente: tra scompartimenti ferroviari, cabine di navi e camere in affitto, i Mann si aggrappano disperatamente a ciò che è rimasto loro – i loro corpi, le loro menti e i loro libri.
    
Heinrich Mann e consorte, biografia collettiva da Lubecca all’esilio 

La scrittrice tedesca fa rivivere un caso esemplare dell’opposizione a Hitler, montando fonti e documenti con parti di fiction in una specie di romanzo corale 

Raul Calzoni il Manifesto 7.6.2015, 0:10 

Nel feb­braio del 1933, a un solo mese dall’ascesa al potere di Hitler, comin­ciò la dia­spora intel­let­tuale che avrebbe por­tato alla disper­sione della cul­tura tede­sca della Repub­blica di Wei­mar. Per gli intel­let­tuali di ori­gine ebraica non ci fu spesso altra solu­zione per sfug­gire alla per­se­cu­zione nazi­sta se non quella di abban­do­nare la Ger­ma­nia, ma per chi non era ebreo e occu­pava posi­zioni di rilievo nel tes­suto sociale dell’epoca, l’esilio rap­pre­sen­tava una «terza via», alter­na­tiva sia all’adesione al nazi­smo sia all’emigrazione interna. Quest’ultima fu pra­ti­cata da chi era stato ban­dito dal regime in quanto le sue opere erano «con­tra­rie allo spi­rito tede­sco», o da quanti deci­sero di non alli­nearsi senza però abban­do­nare il pro­prio paese, dedi­can­dosi a una silen­ziosa rifles­sione let­te­ra­ria in attesa della caduta di Hitler. È il caso, ad esem­pio, di Gott­fried Benn, che dopo un ini­ziale entu­siamo per il nazi­smo trovò nell’esercito la pro­pria «forma ari­sto­cra­tica di emi­gra­zione», ma anche di que­gli autori come Frank Thieß e Wal­ter von Molo che, nep­pure tre mesi dopo la firma dell’armistizio, con­te­sta­vano a Tho­mas Mann il suo atteg­gia­mento di distac­cato sno­bi­smo nei con­fronti della Ger­ma­nia del III Reich, invi­tan­dolo tut­ta­via acco­ra­ta­mente a rien­trare in Ger­ma­nia. «La prego, torni pre­sto, guardi nei volti sol­cati dall’angoscia!» gli scri­veva, infatti, von Molo nell’agosto del 1945, e Mann subito replicò con Per­ché non torno in Ger­ma­nia, in cui defi­niva il pro­prio paese «una terra inquie­tante» che gli era diven­tata «estra­nea» e, allo stesso tempo, non lesi­nava parole di disprezzo per gli espo­nenti dell’emigrazione interna. Que­sta frat­tura tra pro­ta­go­ni­sti dell’esilio e dell’immigrazione interna non si ricom­pose nep­pure quando Mann rien­trò in Europa nel 1952, sta­bi­len­dosi però nella neu­trale Sviz­zera, e avrebbe inciso sugli svi­luppi della let­te­ra­tura del dopo­guerra.
Ma, cos’era la let­te­ra­tura dell’esilio, chi sono stati i suoi mag­giori espo­nenti e come si è riu­nita in Cali­for­nia durante il nazi­smo l’enclave intel­let­tuale tede­sca? A que­ste domande, fra le altre, prova a rispon­dere Eve­lyn Juers con La casa dell’esilio La vita e il tempo di Hein­rich Mann e Nelly Kröger-Mann (Bom­piani «Saggi», pp. 528, euro 25,00), una com­plessa opera pseudo-documentaria, sag­gi­stica e nar­ra­tiva, defi­nita dall’autrice – nella nota sulle fonti che chiude il testo – come «una bio­gra­fia col­let­tiva, in un’epoca di fra­men­ta­zione e di flussi». Pro­prio da que­sta con­si­de­ra­zione vale la pena par­tire per affron­tare l’imponente volume di que­sta polie­drica scrit­trice di saggi let­te­rari e di sto­ria dell’arte, che è nata in Ger­ma­nia nel 1950, si è tra­sfe­ri­tata in Austra­lia all’età di dieci anni e ha poi vis­suto a Amburgo, Syd­ney, Lon­dra e Gine­vra. Dun­que, La casa dell’esilio è innan­zi­tutto un ibrido di generi let­te­rari, al quale l’autrice attri­bui­sce il sedu­cente nome di «bio­gra­fia col­let­tiva», così che ci si aspet­te­rebbe di leg­gere una rie­vo­ca­zione corale degli anni tra­scorsi da Hein­rich Mann e dalla moglie Nelly in esi­lio. In effetti, que­sto si rea­lizza solo in parte, per­ché Eve­lyn Juers non rac­conta sol­tanto gli anni dell’esilio dei coniugi Kröger-Mann attra­verso i ricordi di Hein­rich, che si oppose subito al regime nazi­sta e di con­se­guenza abban­donò la Ger­ma­nia già nel feb­braio del 1933, ma riper­corre la vita dello scrit­tore dall’infanzia a Lubecca sino agli anni sta­tu­ni­tensi. L’opera si snoda, infatti, attra­verso una sorta di ricordo corale, che rende pos­si­bile rico­struire attra­verso la saga fami­liare dei Mann il com­plesso qua­dro del pas­sato tede­sco dal fin de siè­cle sino alla morte di Hein­rich, avve­nuta a Los Ange­les nel 1950 a pochi giorni dal pre­vi­sto ritorno in patria per assu­mere il ruolo di pre­si­dente dell’Accademia delle Arti nella Ger­ma­nia orien­tale, e a quella del fra­tello Tho­mas, avve­nuta a Zurigo nel 1955.
A dif­fe­renza del fra­tello minore, che nel 1929 aveva rice­vuto il Nobel e avrebbe lasciato la Ger­ma­nia con la moglie di radici ebrai­che solo qual­che anno più tardi, Hein­rich abban­donò Ber­lino il giorno prima che i nazi­sti per­qui­sis­sero la sua abi­ta­zione, dove tro­va­rono la moglie Nelly, che invano tor­tu­ra­rono e inter­ro­ga­rono per sapere dove avesse ripa­rato il marito. Nelly e Hein­rich si sareb­bero rin­con­trati nel sud della Fran­cia, da dove l’avanzare dell’occupazione nazi­sta li avrebbe spinti attra­verso i Pire­nei in Spa­gna, fin­ché nel 1940 sal­pa­rono alla volta di Los Ange­les. Come imme­dia­ta­mente si rende evi­dente dalle pagine del libro, a dif­fe­renza di diversi emi­grati, Hein­rich, che all’epoca aveva ses­san­ta­nove anni, non si adattò facil­mente alla sta­tus di esi­liato e alla vita in Cali­for­nia, e que­sto mal­grado l’amorevole e costante pre­senza di Nelly, pro­fon­da­mente invisa a Tho­mas e alla cognata Katia, per­ché più gio­vane del marito di ven­ti­sette anni, ma soprat­tutto di umili ori­gini e un tempo entraî­neuse in quei locali ber­li­nesi che ave­vano ispi­rato Il Pro­fes­sor Unrat, reso leg­gen­da­rio dal film con Mar­lene Die­trich, L’angelo azzurro, ancora oggi il romanzo di mag­giore suc­cesso del più vec­chio dei Mann. Eppure, come fa ampia­mente capire Juers, Nelly sarebbe sem­pre stata fedel­mente vicino a Hein­rich, dagli anni ber­li­nesi del marito sino al sui­di­cio che, depressa e alco­liz­zata, la donna com­mise nel 1944. È pro­prio que­sto Hein­rich, rima­sto solo dopo la morte della moglie e intento a ricor­dare il pro­prio pas­sato, che incon­triamo nelle prime pagine dell’opera. Di fatto, il rac­conto dell’esilio, o meglio della vita dei Mann dalla pro­spet­tiva dell’esilio, è un lungo fla­h­sback che, nar­rato in prima e in terza per­sona, resti­tui­sce sì la bio­gra­fia dei due fra­telli anta­go­ni­sti Hein­rich e Tho­mas, dal tem­pe­ra­mento «san­gui­gno» l’uno e «melan­co­lico» l’altro, ma non si esau­ri­sce in una sem­plice rie­vo­ca­zione poe­tica della saga dei Mann. Juers ci offre, infatti, lungo il suo cor­poso libro – non senza pren­dersi alcune licenze – quella «bio­gra­fia col­let­tiva», appunto, che coin­volge una gal­le­ria di intel­let­tuali tede­schi e inglesi i quali incro­cia­ro­noo il destino di Hein­rich e della moglie, o che avreb­bero potuto farlo.
L’impianto corale di que­sta bio­gra­fia si lascia cogliere anche dalle fonti che l’hanno ispi­rata: Juers si è affi­data, infatti, sia alla ricerca d’archivio, sia ai gior­nali dell’epoca, come pure a opere sto­rio­gra­fi­che e let­te­ra­rie, in pri­mis dei fra­telli Mann, per resti­tuire la vita di Hein­rich e della moglie. La sua è dun­que un’opera «col­let­tiva» anche dal punto di vista for­male, per­ché alle parti in prosa l’autrice ha inter­po­lato cita­zioni – ripor­tate in cor­sivo nel testo, ma senza mai indi­carne la fonte – tratte dai testi che ha con­sul­tato per ricom­porre davanti agli occhi del let­tore la sto­ria dei Mann. Così, dato docu­men­ta­rio (fact) e fin­zio­nale (fic­tion) si inte­grano in que­sto libro che è cer­ta­mente uno dei più riu­sciti esempi con­tem­po­ra­nei di mon­tag­gio e di fac­tion nar­ra­tiva. Anche gra­zie a que­sti arti­fici este­tici, l’autrice ha potuto rac­con­tare quella serie di «incon­tri», in alcuni casi mai avve­nuti, dei coniugi Mann con Leo­nard e Vir­gi­nia Woolf, James e Nora Joyce, Aldous e Maria Hux­ley, ma pure con Sig­mund Freud, Franz Kafka, Kurt Tuchol­sky, Wal­ter Ben­ja­min, Alfred Döblin, Ber­tolt Bre­cht, Joseph Roth, Lion Feu­cht­wan­ger e molti altri. Gra­zie all’espediente nar­ra­tivo della dislo­ca­zione spazio-temporale Juers è riu­scita a met­tere in comu­ni­ca­zione le figure cen­trali della sto­ria let­te­ra­ria euro­pea della prima metà del Noven­cento, affron­tando in una pro­spet­tiva col­let­tiva i pro­blemi etici e este­tici che all’epoca afflig­ge­vano la figura dell’intellettuale e quella dell’artista: l’alienazione, l’esilio e la dispe­rata ricerca di rispo­ste all’enigma della vita. Tutte que­stioni, que­ste, ancora oggi aperte e ricom­prese nel verso di Wal­lace Ste­vens che chiude La casa dell’esilio: «viviamo in un luogo che non è nostro».

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