Jacques Derrida:
Il maestro o il supplemento di infinito, Il Melangolo, pp. 72, euro 12
Risvolto
"È possibile, dichiarandolo "in silenzio" o "a bassa voce", non dovere niente a un maestro? Proprio qui? A un maestro ammirato? Quanto a sapere se qui è possibile ammirare un maestro senza dovergli restituire niente, senza impegnarsi espressamente nel mercato di nessun "grazie", senza debito e senza dovere, dunque senza favore possibile, là dove forse ne va ancora di una strana esperienza della spartizione, ebbene, perché la domanda resti, e resti aperta o sospesa, bisognerebbe provare a pensare altrimenti tutti i concetti che vi si trovano compromessi: la distinzione tra "dire" e "tacere", il "senso", il "buono" del "buon senso", il "debito", il "dovere", la "maestria o la magisterialità del maestro" (non dimentichiamo che nella maggior parte dei casi parliamo al maschile), proprio la parte della "spartizione" (di "cosa"? di "chi"? con "chi"?); ma anche il "niente", il "possibile" e il resto. Soprattutto il resto".
Chi è un maestro?
Cosa trasmette? Chi o cosa lo legittima? E ancora: cosa resta
dell'insegnamento di un maestro? Cosa resta del maestro stesso?
Intrecciando un indiavolato rincorrersi di domande che prendono spunto
dagli studi di Charles Malamoud dedicati alla trasmissione del sapere
nell'India antica, Jacques Derrida ci consegna una riflessione che può
essere letta, oggi, come testimonianza e provocazione del suo stesso
percorso filosofico. Testimonianza fatta di contaminazioni, effetti,
intransitabili confini: resti inappropriabili. Come il sapere e la sua
trasmissione.
I giochi linguistici dell’oscuroDerrida col sanscrito «vac»
19 giu 2015 Libero
Decostruzione è vocabolo chiave in Jacques Derrida (1930-2004). Pensatore atipico, tanto che i suoi colleghi sono scesi a patti obtorto collo con la sua scarsa sistematicità, il linguaggio oscuro e l’indubbia originalità del suo pensare. Habermas si chiedeva se lo fosse davvero, un filosofo. Derrida scrive e ragiona in modo ellittico, perciò è stato accusato di tradire il pensiero sistematico. Con lui però c’è da fare i conti. Anche stavolta, con un libro in cui si sposta nell’India classica, Il maestro o il supplemento di infinito (Il Melangolo, pp. 72, euro 12). Predomina anche qui l'analisi del linguaggio. L’occasione è data da un seminario dell’orientalista Charles Malamoud e dal suo studio del termine sanscrito vac, che ricrea ogni volta la realtà nelle formule di sacrificio indù. L’argomento non potrebbe essere più indicato, vista la centralità della parola in Derrida. Il rispetto per il maestro e per il suo insegnamento, chiedendosi fino a che punto sia necessario ammirarlo e tributargli onori, è nobile pretesto per modulare un caposaldo del suo pensiero, la metafisica della presenza, sullo schema dell’India classica e della sua nobile lingua, il sanscrito. Vac è la parola dell’inizio dei tempi: tutto è suono. C’è materia per recuperare il punto nodale della sua filosofia: la prorompente ermeneutica contemporanea che fa del suo pensiero il massimo esempio di radicalità del tardo '900.
Nessun commento:
Posta un commento