venerdì 19 giugno 2015

Richard Sennet risponde a Umberto Eco e ricorda la questione dello "sfruttamento capitalistico della tecnologia"

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La colpa del web? Non rende stupidi ma più aggressivi 
Il sociologo-star risponde a Umberto Eco. E studia come usare la tecnologia per rendere le città davvero “smart” e favorire la cooperazione tra i suoi abitanti 

Paolo Mastrolilli la Stampa 19 6 2015
Tutto ruota intorno a un punto, secondo Richard Sennett: «Bisogna spezzare le compagnie monopolistiche della comunicazione elettronica, tipo Google, Amazon o Apple, per liberare l’innovazione e rendere questi strumenti più utili alla cooperazione». Non è d’accordo con Umberto Eco, quando accusa i social media di aver dato una piattaforma alla stupidità, però pensa che abbiano favorito l’aggressività, proprio per il modello capitalistico dell’individualismo e la rapidità che lo governa.

Sennett, quanto di più vicino ci sia a una star della sociologia, sarà domani a Lignano Sabbiadoro per ricevere il Premio Hemingway: «Parlerò - ci dice dalla sua casa di Londra - della scrittura nelle scienze sociali. Come renderla profonda, ma aperta alla lettura. In sostanza, né accademica, né popolare».
È un tema importante per lei come autore, o per i suoi lettori?
«Per me. Scrivere con chiarezza mi aiuta a pensare meglio».
Gli strumenti moderni della comunicazione ostacolano o facilitano la chiarezza?
«Non penso che l’era digitale significhi la fine del libro. Questo è un cliché, Internet non è stupido. Molte persone che conosco sono state stimolate a leggere i miei libri, e bene, da questi strumenti. Il problema è il contenuto, perché scrivere sullo schermo è diverso che farlo a mano. I libri scritti col computer sono in genere il 20 o 25% più lunghi di quelli con la penna, perché la scrittura in video è più provvisoria, mentre quella a mano è più riflessiva e diventa un editing automatico».
È d’accordo con Umberto Eco che i social media hanno dato una piattaforma agli stupidi?
«No, questo non è vero: la stupidità c’è sempre stata. Però hanno accresciuto l’aggressività. Quando ti trovi faccia a faccia con una persona sei più inibito. La distanza dei social media, invece, viene presa come una licenza a essere aggressivi».
Questo compromette la cooperazione tra gli esseri umani, che era al centro del suo libroInsieme?
«La collaborazione online non funziona, non per colpa del media, ma dei programmatori. La cooperazione che mi interessa, e che sta sparendo, non è consenso o accordo. È un processo dialogico, non dialettico, che consente a persone diverse, con idee, posizioni, etnie e anche fedi religiose diverse, di lavorare insieme. I programmatori che costruiscono gli strumenti della comunicazione online, invece, tendono alla creazione del consenso. Ma Facebook o Twitter non erano mai nati come programmi politici».
Perché avviene questo?
«Per lo sfruttamento capitalistico della tecnologia. I grandi monopoli che la gestiscono non hanno interesse a sperimentare davvero. Perciò è necessario dividere le grandi compagnie come Google, Amazon o Apple, preoccupate solo di controllare la tecnologia della comunicazione. Per certi versi, è il problema che Edward Snowden ha portato alla luce nel settore della sicurezza. La politica dovrebbe smettersi di occuparsi di cose frivole, come le dispute partitiche o le dinamiche dei voti parlamentari, o anche della Grecia, che andrebbe lasciata uscire dall’euro, e concentrarsi invece su questi problemi epocali del nostro tempo».
Spezzare quelle compagnie libererebbe le energie della creatività?
«I programmatori vivono una grande contraddizione: per natura sarebbero individualisti, non burocratici, ma invece sono costretti a costruire gli strumenti digitali in modo da favorire il consenso».
La chiarezza quindi è compromessa da questi strumenti?
«Sì. Gli strumenti si usano bene quando lo si fa con lentezza, ma l’economia moderna è segnata dalla velocità, che in pratica è la misura della produttività. Questo ci porta a scaricare sulla tecnologia colpe che invece sono del modello moderno del capitalismo. Chi ne soffre moltissimo, ad esempio, sono i media».
Dicono che stiamo sparendo, per colpa di Internet e dei social.
«Per colpa vostra e degli editori, direi. Se uno prima dedicava venti minuti al giorno a leggere il giornale, nulla toglie che continui a farlo oggi sui tablet. Alcuni esempi ci sono, come il Guardian o Die Zeit, che hanno creato giornali profittevoli soprattutto online. La cultura prevalente, però, è che siccome l’informazione è in rete, la sua qualità va abbassata. Quindi si licenziano i giornalisti, si riducono gli investimenti, si pubblicano articoli più superficiali, e poi si dà la colpa alla nuova tecnologia digitale se le copie non vendono. È la mancanza di qualità che vi affossa, qualunque sia il media usato».
Lei sta lavorando a un progetto chiamato «Homo faber»: prima è uscitoL’uomo artigiano, poiInsieme, e adesso?
«Sto preparando un libro su come fare le città aperte, usando la tecnologia per renderle davvero “smart”, e favorire la cooperazione tra gli esseri umani che ci vivono».
La cooperazione sembra un’ossessione: perché è così importante?
«Perché sta diventando sempre più superficiale. Cooperiamo solo con chi è come noi: stesse idee, stessa etnia, stessa religione, vista ad esempio la pochissima collaborazione tra cristiani e musulmani. Così però la società diventa isolata, incapace di funzionare».

Richard Sennett dentro la corrosione del legame sociale 
Intervista. «L’essere umano ha una caratteristica che spesso rimuove: è un animale portato a muoversi e spostarsi per vivere insieme ai suoi simili. Chi respinge i migranti dimentica questa propensione sociale della natura umana, rimuovendo così il fatto che discende lui stesso da altri migranti». Parla il sociologo statunitense 
Riccardo Mazzeo il Manifesto 30.6.2015, 0:01 
Richard Sen­nett è stato recen­te­mente ospite del Pre­mio Heming­way, giunto alla tren­tu­ne­sima edi­zione, per la sezione “Avven­tura del Pen­siero” a Lignano Sab­bia­doro, una sorta di anti­ci­pa­zione di «Por­de­no­ne­legge». È un uomo molto gen­tile e riser­vato, que­sto socio­logo set­tan­ta­duenne carat­te­riz­zato da una schiera di ammi­ra­tori che in tutto il mondo atten­dono ogni volta con ansia che esca un suo nuovo libro. Forse per­ché cen­tel­lina i suoi volumi, visto che il terzo libro del suo pro­getto «Homo faber», una tri­lo­gia ini­ziata nel 2008 con L’uomo arti­giano e pro­se­guita nel 2012 con Insieme. Rituali, pia­ceri, poli­ti­che della col­la­bo­ra­zione (entrambi pub­bli­cati da Fel­tri­nelli), si con­clu­derà forse nel 2016 con il libro sulle città e ha avuto una sola inter­pun­zione, un pic­colo libro tito­lato Lo stra­niero pub­bli­cato sem­pre da Fel­tri­nelli. O forse per­ché nei suoi libri, mai sem­plici, si ritrova l’arte dell’artigiano che rac­co­manda e di cui è mae­stro: forma e rigore rav­vi­vati da qual­che con­trap­punto di iro­nia che non scon­fina però nella bru­ta­lità o nella risata beffarda. 

Si per­ce­pi­sce dal suo stile un amore pro­fondo per l’«umano». E tra­spare anche dalla sua rilut­tanza a rila­sciare inter­vi­ste fret­to­lose: par­lare dei destini del mondo in due minuti è irri­spet­toso non solo per chi è chia­mato a farlo dall’alto del suo magi­stero ma anche per i lettori. 

Nei suoi libri si è molto dilun­gato sulle carat­te­ri­sti­che del «nuovo capi­ta­li­smo», met­ten­done in evi­denza il loro lato oscuro… 

Il nuovo capi­ta­li­smo ha sman­tel­lato le isti­tu­zioni e ha tra­sfor­mato le car­riere in meri lavori. Le car­riere di un tempo richie­de­vano un impe­gno con­ti­nua­tivo sia nella costru­zione di un cor­redo di com­pe­tenze indi­vi­duali, affi­da­bili, salde, sia nella tes­si­tura di un insieme di rela­zioni sia ver­ti­cali sia orizzontali. 

Negli anni Ses­santa e Set­tanta la nego­zia­zione fra diri­genti e mano­do­pera poteva anche essere ruvida ma alla fine si giun­geva comun­que a un accordo che con­sen­tisse di andare avanti. I qua­dri inter­medi erano a cono­scenza delle deci­sioni dei diri­genti, e la con­sa­pe­vo­lezza della rotta comune era tale da moti­vare tutti. Esi­steva anche una pro­pen­sione al soste­gno reci­proco dei lavo­ra­tori che, in caso di neces­sità, vuoi per un dramma fami­liare, vuoi per il sem­plice sci­vo­lone di un col­lega che magari si era ubria­cato, si aiu­ta­vano e si copri­vano affin­ché il lavoro pro­ce­desse e non ci fos­sero con­se­guenze serie per nes­suno. La potente indi­vi­dua­liz­za­zione del divide et impera odierno, il cre­scente potere dei mana­ger che non sanno ormai più nulla del lavoro che viene svolto e che hanno inter­rotto la comu­ni­ca­zione con i qua­dri che lo ese­guono ma che sono stati espunti da qua­lun­que potere deci­sio­nale con­giunto, la scom­parsa o l’estremo inde­bo­li­mento di strut­ture, cor­po­ra­zioni e asso­cia­zioni a difesa dei lavo­ra­tori, met­tono oggi l’uno con­tro l’altro, così come indu­cono spesso pro­prio le cate­go­rie di lavo­ra­tori più svan­tag­giate a guar­dare con sospetto o con odio agli immi­grati che potreb­bero rubare il posto a chi ce l’ha e non sa se e fino a quando potrà conservarlo. 

Il suo metodo inter­di­sci­pli­nare di inda­gine socio­lo­gica, che attinge dalla let­te­ra­tura, dall’arte e dalla musica, dipende dal Suo pas­sato di violoncellista? 

Senz’altro. Ricordo che ero bravo e mi pia­ceva mol­tis­simo suo­nare da solo ma che facevo dav­vero fatica a suo­nare con gli altri. C’era sem­pre qual­che motivo di disac­cordo e tal­volta mi pro­vo­cava una sof­fe­renza vera e pro­pria dover rinun­ciare alla mia visione di come avrebbe dovuto essere ese­guito un brano per­ché gli altri musi­ci­sti erano ani­mati da un’altra pro­spet­tiva. Era una lotta con­ti­nua con me stesso e con gli altri. Ma poi, riu­scendo attra­verso la reci­proca influenza a tro­vare una serie di solu­zioni che con­sen­ti­vano un’esecuzione con­giunta infi­ni­ta­mente più signi­fi­ca­tiva del suo­nare da soli, la sod­di­sfa­zione che se ne traeva ripa­gava delle ten­sioni e delle fru­stra­zioni che la nego­zia­zione aveva com­por­tato. Si tratta di un pro­cesso di appren­di­mento fati­coso ma essen­ziale: ci si educa o si viene edu­cati alla capa­cità di coo­pe­rare che è un’arte: un’arte che oggi non viene più inse­gnata, che per certo in un’epoca che tende a can­cel­lare la figura del «mae­stro» non ci verrà inse­gnata dalla rete. Le per­sone sono fatte per vivere insieme ma tale com­pe­tenza va col­ti­vata. La com­pe­tenza dia­lo­gica dipende dalle capa­cità di ascolto, dalle esi­genze che tra­spa­iono sotto le parole. 

Il mar­xi­smo che si mani­fe­sta in fili­grana in tutta la sua opera si ispira più al socia­li­smo sociale del XIX secolo che ai «mas­simi sistemi», segna­lando una sua sfi­du­cia nella «poli­tica»: è così? 

In effetti non credo nei par­titi poli­tici, auspi­che­rei piut­to­sto un decen­tra­mento in cui le sin­gole voci potes­sero avere un ter­reno comune in cui mani­fe­starsi. La mia è anzi una posi­zione «anti­po­li­tica», le per­sone che par­lano insieme con una sola voce non mi piac­ciono, sono con­tra­rio all’uniformità e all’omogeneizzazione. Sono cre­sciuto in un quar­tiere dif­fi­cile dove le oppor­tu­nità per un ragazzo nero e povero erano ine­si­stenti al di fuori dell’affiliazione a una gang. Que­sti gio­vani sape­vano che un per­corso sco­la­stico sarebbe stato tempo perso per loro per­ché ne erano esclusi a priori. Ecco per­ché pre­fe­ri­sco le pra­ti­che di socia­liz­za­zione ai mas­simi sistemi: por­tare via un ragazzo dalle gang ha biso­gno di diplo­ma­zia sociale e di sen­si­bi­lità. Men­tre la spon­ta­neità induce a urlare e a cer­care con ogni mezzo di accre­di­tare la pro­pria visione, la diplo­ma­zia sociale è una com­pe­tenza che può sul serio modi­fi­care le cose. Per riu­scirvi, però, non bastano certo i social net­work, c’è biso­gno di qual­cosa che vada oltre i mes­saggi deno­ta­tivi espli­citi, il fatto di scri­vere sì o no, e che coin­volga la comu­ni­ca­zione non ver­bale. I blog sono depri­menti, defi­ni­scono tutto tra­mite le parole, manca un soprac­ci­glio che si sol­leva, o la mano che si posa su un brac­cio. Le nuove tec­no­lo­gie, per quanto utili, pos­sono essere una tra­ge­dia per­ché costi­tui­scono espe­rienze sma­te­ria­liz­zate men­tre noi esseri umani abbiamo la neces­sità di espe­rienze incarnate. 

Cosa pensa delle bar­riere che si sol­le­vano un po’ dovun­que nei con­fronti dei migranti? 

Provo tri­stezza e rab­bia per­ché sem­bra che tutti quei paesi che un tempo vede­vano la loro gente emi­grare e che adesso dovreb­bero acco­gliere per­sone a loro volta costrette a emi­grare si com­por­tano come gli Stati che negli anni Trenta e Qua­ranta si rifiu­ta­vano di aprire le porte agli ebrei per­se­gui­tati dal nazi­smo e dal fasci­smo. Hanno dimen­ti­cato che siamo stati tutti migranti, e chiu­dono le porte come cara­paci. In realtà la società odierna mi sem­bra, a dif­fe­renza di quanto pensa Zyg­munt Bau­man, solida e impe­ne­tra­bile. Nei secoli XVIII e XIX la popo­la­zione dell’Europa era molto povera e molto fluida, adesso invece si sta rifa­sci­stiz­zando. Come fa l’Irlanda, che ha avuto l’emigrazione del 60 per cento della sua popo­la­zione, a sbar­rare le porte ai migranti? Sotto que­sto aspetto l’Italia è stata ed è più generosa. 

C’è una eco «laca­niana» nel secondo dei due saggi che com­pon­gono il suo ultimo volu­metto «Lo stra­niero». Lo apre con l’opera di Manet «Il bar delle Folies-Bergère» che, attra­verso lo stra­nia­mento e la dislo­ca­zione susci­tati dal dipinto, sem­brano sug­ge­rire l’impressione: «Guardo in uno spec­chio e vedo qual­cuno che non sono io». Sem­bra quasi un’indicazione di per­corso non solo per lo stra­niero che deve rie­la­bo­rare la pro­pria iden­tità, ma anche per cia­scuno di noi che siamo tanto più incon­si­stenti e peri­co­lanti quanto più ci sen­tiamo pian­tati con i piedi per terra in un’autoimmagine inscalfibile. 

Ho cono­sciuto per­so­nal­mente Lacan e, se lui non mi è pia­ciuto come per­sona, apprezzo però il suo genio. In Insieme avevo par­lato dei tre modi di effet­tuare una ripa­ra­zione. Il primo è quello di ripri­sti­nare l’oggetto così com’era. L’equivalente di que­sto ten­ta­tivo per un migrante è la nostal­gia e il desi­de­rio che tutto torni così com’era. Fal­li­men­tare. Il secondo modo è quello di ripa­rare l’oggetto ren­den­dolo migliore di quanto fosse nel suo stato ori­gi­na­rio. Insuf­fi­ciente, giac­ché la rapi­dità di cam­bia­mento del mondo con­tem­po­ra­neo rende ina­de­guata qual­che sem­plice miglio­ria a qual­cosa che è stato tra­volto da un’onda impe­tuosa. Il terzo modo, quindi, quello di tra­sfor­mare l’oggetto in qual­cosa di nuovo, è l’unico che possa atta­gliarsi al migrante che sa di esserlo e all’autoctono che è tale solo prov­vi­so­ria­mente, fin­ché non soprag­giunga la pos­sente onda d’urto del cam­bia­mento che preme. 

Ne L’uomo arti­giano avevo spie­gato che la capa­cità crea­tiva del pro­ta­go­ni­sta del libro non è nostal­gica, non è rivolta a un pas­sato da far risor­gere, ma è la capa­cità di far nascere qual­cosa di nuovo. Voi ita­liani, che secondo me con un certo maso­chi­smo vi auto­sva­lu­tate, siete mae­stri nel gene­rare nuove armo­nie, nuovi sce­nari di bel­lezza inau­dita, ma la lezione riguarda tutti noi: come aveva scritto Kant nel 1784 in Idea di una sto­ria uni­ver­sale dal punto di vista cosmo­po­li­tico, gli esseri umani sono tanto più favo­riti nello svi­luppo quanto più rie­scono a tesau­riz­zare gli sti­moli che arri­vano da chi è diverso: dun­que, dob­biamo inven­tare solu­zioni crea­tive di convivenza.

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