Siamo nell'ambito della teoria del totalitarismo. Esilarante il risvolto: dopo la morte di Tito il regime - aggredito che più non posso - fu "incapace di conservarsi"... [SGA].
Jože Pirjevec:
Tito e i suoi compagni, Einaudi
Risvolto
L'unica biografia di Tito e del suo apparato di potere: una
monumentale opera di ricerca storica e un racconto incalzante
nel cuore di tenebra del Novecento.
Dittatore che sembra sfuggire alla definizione del tiranno, oppositore di
Stalin, artefice di un modello socialista alternativo e promotore del movimento
dei "paesi non allineati", oggetto di caricatura dopo lo sfacelo della
Jugoslavia, Tito è una figura di estrema complessità e interesse storico.
Dall'infanzia alla surreale agonia nei suoi ultimi anni, Joze Pirjevec
ci consegna un resoconto completo, equilibrato, esauriente e di estrema
leggibilità della vita di Tito, del suo mondo e dei suoi compagni, che rappresenta
al medesimo tempo una storia appassionata della ex Jugoslavia.
Despota o ribelle? Nonostante trentacinque
anni di dittatura, non si può considerare
Tito come un tiranno alla stregua
di Stalin: al contrario, proprio perché si
era ribellato al terrore staliniano, istituendo
in Jugoslavia un socialismo «autogestito» dal volto umano, Tito è rimasto
nella memoria di molti suoi «sudditi» come un uomo a cui essere grati. La
Jugoslavia che lasciò alla sua morte era
decisamente diversa da quella del 1945:
era passata dal regime centralizzato staliniano
al «socialismo di mercato», conoscendo
una rapida industrializzazione,
grazie a cui le masse popolari godettero
di una costante crescita della qualità
della vita, anche se dovuta in gran parte
ad aiuti esterni. Per quanto il potere fosse
nelle mani del Partito, il sistema autogestito
permetteva ai cittadini di esercitare
qualche influenza sulla vita politica.
L'opposizione era proibita, ma la vita
intellettuale non era soggetta a censura
preventiva e le frontiere erano davvero
aperte al passaggio delle persone e delle
idee. Senza Tito, non ci sarebbe stata la
frattura con Stalin. A suo favore vi è pure
la sua epica ribellione a Hitler e a Mussolini
che assicurò ai popoli jugoslavi la
vittoria sui nazifascisti. Inoltre, a partire
dagli anni Cinquanta, riuscí a sottrarsi
al canto delle sirene dell'Occidente, mettendosi
a capo dei Paesi «non allineati».
Non va però ignorato il fallimento del
regime di Tito, incapace di conservarsi
senza la sua forza di coesione, e di sviluppare
l'esperimento dell'autogestione
in una democrazia moderna e pluralista.
L’eretico Tito, marxista con gusti da arciduca anche a tavola e in camera da letto
Oggi nelle repubbliche ex jugoslave c’è nostalgia del maresciallo che combatté i nazisti e si ribellò all’Urss È
visto come un padre severo ma giusto. Gioca a suo favore l’immagine da
raffinato dandy, amico di attrici come Liz Taylor e Sophia Loren Ma in realtà fu un dittatore spietato
di Patrick Krlsen Corriere La Lettura 14.6.15
La Tito-nostalgia è una variante, distinta e ben riconoscibile, di
quell’attitudine al rigetto e al rimpianto diffusa nelle società
postcomuniste dell’Europa centrorientale, bloccate dentro una
transizione irrisolta verso la democrazia e l’economia di mercato. Da
Lubiana a Belgrado una messe di studi, sondaggi, mostre, romanzi, film
ci raccontano il sentimento benevolo nei confronti del dittatore e delle
due illusioni a lui associate: l’unità dei popoli slavi del Sud, cioè
la Jugoslavia, combinata a un socialismo dal volto umano, non oppressivo
come quello sovietico. Nei Paesi in cui ha «regnato», Tito è ricordato
spesso come un padre severo ma giusto, rispettato in ugual misura da
tutti i figli del suo Stato multinazionale. Inoltre continua ad
affascinare l’immagine del dandy in completo bianco, amante del lusso e
della dolce vita, a passeggio con Sophia Loren o Liz Taylor sui moli
dell’isola di Brioni. Praticamente, una sorta di Francesco Giuseppe in
versione patinata e glam .
In Italia, che pure ha intessuto con il vicino comunista relazioni
intense e talora critiche, di questi umori filtra poco o nulla. E
neppure sono state tradotte le opere di quegli storici (due nomi per
tutti: Geoffrey Swain e il compianto William Klinger) che hanno iniziato
ad approfondire la biografia del discusso leader jugoslavo. A partire
dai capitoli da sempre più oscuri e temuti dagli agiografi, quelli della
giovinezza e della prima maturità negli anni Venti e Trenta. Quando
Tito non era ancora Tito, ma «Walter»: un funzionario del Comintern in
rampa di lancio sospettato di collaborare con l’Nkvd, la polizia
politica del futuro arcinemico Stalin.
Pertanto, giova sicuramente al pubblico italiano l’uscita del
monumentale Tito e i suoi compagni dello storico sloveno triestino Jože
Pirjevec (Einaudi). Tanto più se il volume è il risultato di una ricerca
seria e documentata, fondata su un estesissimo apparato di fonti
secondarie e d’archivio ex jugoslave e sovietiche, statunitensi,
britanniche e italiane. E se l’intento è quello dichiarato nell’asciutta
introduzione, cioè restituire il profilo di Tito «alla maniera di
Rembrandt»: senza sconti, vale a dire, con le ombre a dominare su
sporadici chiarori, come Marx ed Engels invitavano a ritrarre gli uomini
di potere.
Alla fine è quanto il lettore si trova in mano, perché Pirjevec non
risparmia le tinte forti nell’abbozzare il suo soggetto. E non potrebbe
essere altrimenti. Nato suddito asburgico nel 1892 a Kumrovec, sulla
frontiera tra il regno di Croazia e il principato di Stiria, molto
presto Josip Broz «si compromise a livello morale». Precisamente quando,
sopravvissuto alla Grande guerra nella Galizia ucraina e risucchiato
nelle maglie del sistema bolscevico, fissò a sua norma di vita
l’inesorabile «meccanismo di rivoluzione e potere» che è il
marxismo-leninismo, convincendosi che il male serve al bene e
confondendo così l’uno con l’altro. Ma adottò senza remore anche la
logica e la prassi dello stalinismo, non rinnegando l’arma del terrore e
anzi adoperandola «con gioia» per sistemare le faide interne al
piccolo, rissosissimo Partito comunista jugoslavo prima della Seconda
guerra mondiale. «Eravamo orgogliosi di essere fedeli al tiranno
sovietico» avrebbe ricordato Milovan Gilas: uno dei «compagni» del
titolo «più stalinisti di Stalin», il gruppo dirigente decimato nel
tempo dalle lotte fratricide del quale erano membri anche Edvard
Kardelj, Aleksandar Rankovic e Andrija Hebrang.
La spaccatura del 1948 con l’Unione Sovietica non ebbe dunque fondamento
ideologico, ma piuttosto derivò dalla «superba arroganza» della
politica estera jugoslava. Lungi dal segnare un allontanamento dai
contenuti criminali dello stalinismo, avrebbe coinciso almeno sul breve
periodo con un loro soprassalto. Così accadde nell’«inferno» del lager
di Goli Otok: l’Isola Calva sull’Adriatico dove più di 30 mila comunisti
leali a Mosca, o presunti tali, sperimentarono, secondo alcuni
testimoni, supplizi peggiori di quelli inflitti nel Gulag siberiano.
Oppure quando fu varata la collettivizzazione forzata della terra, con
la distruzione della classe sociale degli agricoltori decisa
nell’autunno 1948 per dimostrare a Stalin quanto fossero infondate le
accuse di lassismo verso i kulaki (contadini ricchi) indirizzate a Tito e
compagni nella scomunica.
Tuttavia lo stesso Stalin si era compiaciuto per come quel «ragazzo in
gamba» avesse eliminato tutti gli avversari, collaborazionisti e
generici «controrivoluzionari», nel grande massacro dopo la vittoria del
1945. Un «terribile spargimento di sangue» lo definisce Pirjevec,
rimasto a lungo tabù e costato la vita a un numero imprecisato di
persone, tra le 70 e le 100 mila. Le politiche repressive e di
epurazione preventiva colpirono in diverse fasi e modalità anche gli
italiani della Venezia Giulia, di Fiume e della Dalmazia contrari
all’annessione alla Jugoslavia o giudicati ostili al comunismo. Ma di
«foibe» e di «esodo», nell’edizione italiana del ritratto di Tito
firmato da Pirjevec, purtroppo non si parla, neppure in chiave
problematica: il che appare un incongruo vuoto sullo sfondo di un’opera
equilibrata.
In ogni caso, il tasso di violenza politica connaturato al nuovo regime
decrebbe in maniera significativa dalla metà degli anni Cinquanta. La
stagione che avrà per capolinea la lunga agonia e infine la morte del
dittatore nel 1980, inaugurata alla conferenza dei Paesi non allineati a
Bandung (Indonesia) 25 anni prima, è quella che più ha contribuito a
forgiarne il mito in patria e all’estero. Specie nel Terzo mondo, agli
occhi del quale Tito potè presentarsi come il paladino dei Paesi
oppressi dalle superpotenze e penalizzati dallo schema bipolare della
guerra fredda. Ma la sua popolarità salì alle stelle anche nel movimento
comunista internazionale, dove il socialismo autogestito degli
jugoslavi parve un faro a quei partiti (il Pci soprattutto) interessati a
un riequilibrio policentrico dei rapporti di forza contro il
monolitismo dell’Urss.
Nell’opinione prevalente tra i «suoi» popoli, Tito restò lo stratega
che, dopo avere sconfitto Hitler e Mussolini, osò ribellarsi a Stalin
senza cedere alle sirene occidentali, guadagnando alla Jugoslavia
prestigio nel mondo grazie a un’accorta politica multilaterale. Le
efferatezze dell’immediato dopoguerra furono avvolte in un tacito oblio.
I relativi progressi nella qualità della vita, frutto in gran parte di
un’economia drogata dai prestiti internazionali, occultarono il completo
fallimento dell’autogestione. La grandeur , le frontiere aperte e le
seconde case che «crescevano come funghi» resero sopportabili anche gli
aspetti illiberali del regime, allentati ma mai cancellati del tutto,
così come gli eccessi di un uomo bramoso e ingordo che non rinunciava a
uno «stile di vita da arciduca austriaco». Sia a tavola che in camera da
letto, come riferisce Pirjevec nei capitoli dedicati al Broz privato.
Solo il suo carisma, solo il magnetismo sfuggente dei suoi occhi azzurro
pallido, riuscirono a tenere in piedi l’edificio fatiscente dello Stato
jugoslavo, dentro il quale covavano i conflitti etnici che l’avrebbero
dilaniato pochi anni dopo la sua morte. Occhi da vecchio cospiratore,
«che non sempre sorridevano insieme con il suo volto» secondo Henry
Kissinger. Da Stalin, l’antico maestro poi ripudiato e odiato, aveva
imparato questa lezione tra le altre: «Devi ridere con gli occhi. E poi
piantare il coltello nella schiena».
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