domenica 7 giugno 2015

La costruzione di una genealogia benecomunista

Yan Thomas: Il valore delle cose, A cura di Michele Spanò. Con un saggio di Giorgio Agamben, Quodlibet

Risvolto

In questo saggio esemplare, Yan Thomas, uno dei massimi conoscitori del diritto romano, mette in questione il primato giuridico della proprietà – definita come rapporto inderogabile tra pochi uomini proprietari e una immensa distesa di cose appropriabili – e propone una nuova e sorprendente archeologia delle «cose».
Perché qualcosa come un mercato, uno spazio in cui le cose sono scambiate contro un valore commerciale, potesse costituirsi, un gesto giuridico e istituzionale originario doveva essersi già prodotto: si tratta della santuarizzazione di un certo numero di cose qualificate come indisponibili. Le cose che non appartengono ad alcuno, sottratte al gioco dello scambio, inibite a diventare merci, identificano un’area dell’indisponibilità (al commercio, alla proprietà e all’appropriazione) e sono perciò destinate all’uso comune degli uomini. Parenti non troppo lontane degli oggi dibattutissimi «beni comuni», le cose indisponibili che Yan Thomas isola, offrono una nuova genealogia della proprietà e dello scambio, fornendo una lezione magistrale sull’istituzione giuridica del valore e su tutte quelle operazioni capaci di fare – o di non fare – di una cosa una merce.


Giuliano Milani «Internazionale» 26-03-2015
Lorenzo Coccoli «Alfabeta2» 27-03-2015
Emanuele Coccia «Le parole e le cose» 19-05-2015
Angelo Guglielmi «Tuttolibri - La Stampa» 30-05-2015
Roberto Esposito «La Repubblica» 01-06-2015

Yan Thomas contro la gabbia della proprietà privata 
Tempi presenti. La pubblicazione da parte di Quodlibet de «il valore delle cose» di Yan Thomas copre finalmente una lacuna su un’opera filosofica che a partire dall’analisi del diritto romano offre molti elementi nella comprensione della genesi teorica dell’individuo proprietario 
Massimiliano Guareschi il Manifesto 

Yan Tho­mas è stato un bril­lante e inno­va­tivo sto­rico del diritto romano, docente all’Ehess di Parigi, pre­ma­tu­ra­mente scom­parso nel 2007. La pub­bli­ca­zione di Il valore delle cose (quod­li­bet, pp. 98, euro 12), a cura di Michele Spanò, con pre­fa­zione di Gior­gio Agam­ben, si pre­senta come una pre­ziosa occa­sione per pren­dere con­tatto con l’opera di que­sto ano­malo roma­ni­sta. L’itinerario di ricerca di Yan Tho­mas, infatti, per la ric­chezza di spunti che dispensa si pre­sta a susci­tare un inte­resse che vada oltre la ristretta cer­chia dei cul­tori di cose storico-giuridiche. 
Tutto ciò non certo per gusto dell’eclettismo o per quell’immancabile sol­le­ci­ta­zione all’interdisciplinarità che, come parte inte­grante del nuovo gala­teo glo­ba­lac­ca­de­mico, spinge a infi­lare un po’ ovun­que qual­che sparso rife­ri­mento agli imman­ca­bili Weber, Fou­cault o Lacan, assurti al rango di autori pas­spar­tout in grado di for­nire patenti di gene­ra­lità anche alla più set­to­riale delle ricer­che. All’opposto, l’impressione più imme­diata che suscita la let­tura di Il valore delle cose è quella di una sorta di raf­fi­nata auste­rità, se il ter­mine non fosse, in que­sti anni, com­pro­messo dalla sua decli­na­zione penitenzial-economica. Diciamo allora par­si­mo­nia, in senso epi­ste­mo­lo­gico, con l’eleganza teo­rica che ne deriva. 

Un pro­blema di equivalenze 
Nono­stante i temi toc­cati susci­tino un ampio spet­tro di asso­cia­zioni e rimandi, in rela­zione a que­stioni quali il sacro, il valore, la pro­prietà e la scam­bia­bi­lità dei beni, lo sta­tuto del pub­blico e del comune, Tho­mas si attiene stret­ta­mente al reper­to­rio delle fonti del diritto romano, dalle XII tavole al Codex theo­do­siano e al Cor­pus iuris civi­lis giu­sti­nia­neo, e alla sto­rio­gra­fia giu­ri­dica più imme­dia­ta­mente per­ti­nente ai temi trattati. 
Al cen­tro del sag­gio di Tho­mas si col­loca un inter­ro­ga­tivo circa la costi­tu­zione giu­ri­dica delle cose, ossia il loro carat­tere di appro­pria­bi­lità, pos­sesso e tra­sfe­ri­bi­lità, nel diritto romano. Con­tro ogni ogget­ti­vi­smo, si sot­to­li­nea in primo luogo come nelle fonti il ter­mine res sia chia­mato a iden­ti­fi­care non solo le cose ma anche le cause, le pro­ce­dure, le con­tro­ver­sie in cui sono prese. Nume­rose for­mule pro­ve­nienti da giu­re­con­sulti, mate­riale epi­gra­fico e let­te­ra­tura didat­tica (Insti­tu­tio­nes) sono chia­mate a evi­den­ziare come la cosa diventi tale in quanto pas­si­bile di con­tro­ver­sia legale, dispie­gando un ver­ti­gi­noso gioco di sino­ni­mie in cui res, causa, lis sono giu­stap­po­sti come equivalenti. 
Il tra­di­zio­nale locus filo­so­fico secondo cui ogni cosa rimanda a una causa e/o a un pro­cesso salva così la pro­pria let­te­ra­lità attra­verso una ride­cli­na­zione dei ter­mini causa e pro­cesso dal con­te­sto fisico o meta­fi­sico a quello giu­ri­dico. E così si fa strada un’altra sino­ni­mia, quella fra la cosa e il suo pre­tium, la pecu­nia: «la ridu­zione della cosa al suo valore trova la sua col­lo­ca­zione tipica nell’antico pro­cesso civile, in cui la res era chia­mata così per­ché costi­tuiva la posta in gioco di una messa in causa, di un affare (detto anch’esso res), che com­por­tava una stima pecuniaria». 
Ma a defi­nire lo sta­tuto giu­ri­dico delle res non è solo un gioco di equi­va­lenze, les­si­cali e quan­ti­ta­tive, ma anche una vera e pro­pria topo­lo­gia. Come ripete più volte Tho­mas, la voca­zione patri­mo­niale delle res viene espressa dal diritto romano solo in ter­mini nega­tivi, a par­tire dall’indisponibilità che carat­te­rizza una parte di esse. A essere defi­nito, infatti, è il regime delle res sot­tratte alla cir­co­la­zione in quanto col­lo­cate nelle zone del sacro (tem­pli e luo­ghi di culto), del reli­gioso (luo­ghi di sepol­tura legati ai mani), del santo (mura urbane e castrali) o del pub­blico (strade, piazze, por­tici, lito­rali, corsi d’acqua ecc.). Al di là di ogni distin­zione, come ci può atten­dere da un popolo che aveva risolto la mito­lo­gia in sto­ria della pro­pria fon­da­zione, le res sacre, reli­giose, sante e pub­bli­che appa­iono carat­te­riz­zate dallo stesso sta­tuto di inap­pro­pia­bi­lità. Si tratta delle res in nul­lius in boni, ossia, secondo una for­mula un po’ tor­tuosa, «cose appar­te­nenti a un patri­mo­nio che non appar­tiene a nes­suno», da non con­fon­dersi, però, con le res nul­lius, ossia le cose vacanti, di cui il «primo arri­vato» può libe­ra­mente appro­priarsi.
A deter­mi­nare lo sta­tuto delle res in nul­lius boni non sono qua­lità loro intrin­se­che, quanto, il loro inse­ri­mento in una data cate­go­ria, legata a cir­co­stanze che pos­sono essere con­tin­genti. A defi­nirsi è infatti una vera e pro­pria topo­lo­gia, del sacro, del reli­gioso, del santo, del pub­blico in cui l’istituzione in quanto tale di deter­mi­nati luo­ghi rende pri­va­ta­mente inap­pro­pra­bili le cose che su di loro insi­stono o tran­si­tano. Solo le aree e le strut­ture di fon­da­zione erano sot­trate a ogni com­mer­cio, men­tre altri beni, per esem­pio le offerte o gli arredi, pote­vano assu­mere tem­po­ra­nea­mente il carat­tere di indi­spo­ni­bi­lità delle per essere poi reim­messi in circolazione. 
Fra i due estremi oppo­sti delle res in nul­lius boni e delle res nul­lius si col­lo­ca­vano poi le res appro­pria­bili, quelle pas­si­bili di com­mer­cio, che gode­vano di tale sta­tuto fino a che non fos­sero cat­tu­rate in una sfera di inappropriabilità. 

 La codi­fi­ca­zione del sacro 
Come si diceva, la let­tura di Il valore delle cose suscita innu­me­re­voli sti­moli e asso­cia­zioni, che ele­gan­te­mente Tho­mas oltre a non espli­ci­tare si guarda anche dal sug­ge­rire. L’unico rimando, da que­sto punto di vista, è rife­rito al Sag­gio sul dono di Mar­cell Mauss, alla cui inse­gna è posto l’intero volume. Sulla stessa linea, viene imme­dia­ta­mente spon­ta­neo invo­care il nome di Dur­kheim. Da que­sto punto di vista, l’indagine di Tho­mas ci mostra una codi­fi­ca­zione in senso spa­ziale e giu­ri­dico di quel sacro, insieme tra­scen­dente e imma­nente, a cui Le forme ele­men­tari ele­men­tari della vita reli­giosa affi­da­vano la costi­tu­zione della dimen­sione sociale ricor­dan­doci come l’esperienza dell’urbs, tra­mite la media­zione del mae­stro Fustel de Cou­lan­ges, abbia costi­tuito la sug­ge­stione di par­tenza del viag­gio all’interno di una stanza che avrebbe con­dotto il padre della socio­lo­gia fran­cese a con­fron­tarsi con i riti eso­tici dei «sel­vaggi» austra­liani per sve­lare i segreti della modernità. 
Il libro di Tho­mas ci parla delle cose, del loro valore, di come le parole e le clas­si­fi­ca­zioni giu­ri­di­che agi­scono su di loro, qua­li­fi­can­dole pro­ce­du­ral­mente. E in tal modo ci con­duce, al di là della sua dimen­sione anti­qua­ria a una grande que­stione, forse una delle più urgenti della nostra epoca. Essa riguarda lo sta­tuto della pro­prietà nell’età dell’accesso, per usare una for­tu­nata for­mula di Jeremy Rif­kin, o in un pre­sente in cui le carat­te­ri­sti­che che sco­la­sti­ca­mente erano attri­buite ai diritti reali – imme­dia­tezza, asso­lu­tezza e ine­renza – e con­fe­ri­vano loro un’apparente autoe­vi­denza natu­ra­li­stica sfu­mano sem­pre più in quanto le res sono prese in costru­zioni finan­zia­rie sem­pre più com­plesse, fatte di car­to­la­riz­za­zioni, swap, future, blind trust, ope­ra­zioni col­la­te­rali ecc. È inu­tile aggiun­gere come ciò non signi­fi­chi affatto un declino dell’appropriazione pri­vata in ter­mini gene­rali e, anzi, si ponga alla base di pra­ti­che estrat­tive e di sfrut­ta­mento sem­pre più intense e rapaci che, tut­ta­via, sem­pre meno appa­iono inqua­dra­bili all’interno degli schemi dell’individualismo pro­prie­ta­rio tra­di­zio­nal­mente inteso.

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