Risvolto
Mosca, 14 aprile 1930. Intorno alle undici del mattino i telefoni si
mettono a suonare tutti insieme, come indemoniati, diffondendo
«l'oceanica notizia» del suicidio di Vladimir Majakovskij: uno sparo al
cuore, che immediatamente trasporta il poeta nella costellazione delle
giovani leggende. Per alcuni quella fine appare come un segno: è morta
l'utopia rivoluzionaria. Ma c'è anche il coro dei filistei: si è ucciso
perché aveva la sifilide; perché era oppresso dalle tasse; perché in
questo modo i suoi libri andranno a ruba. E ci sono l'imbarazzo e
l'irritazione della nomenklatura di fronte a quella «stupida,
pusillanime morte», inconciliabile con la gioia di Stato.
Ma che cosa succede davvero quella mattina nella minuscola stanza di una
kommunalka dove Majakovskij è da poco arrivato in compagnia di
una giovane e bellissima attrice, sua amante? Studiando con acribia e
passione le testimonianze dei contemporanei, i giornali dell'epoca, i
documenti riemersi dagli archivi dopo il 1991 (dai verbali degli
interrogatori ai «pettegolezzi» raccolti da informatori della polizia
politica), sfatando le varie, pittoresche congetture formulate nel
tempo, Serena Vitale ha magistralmente ricostruito quello che ancora
oggi è considerato, in Russia, uno dei grandi misteri – fu davvero
suicidio? – dell'epoca sovietica. E regala al lettore un trascinante
romanzo-indagine che è anche un fervido omaggio a Majakovskij,
realizzazione del suo estremo desiderio: parlare ai posteri – e «ai
secoli, alla storia, al creato» – in versi.
Serena Vitale, una morte di Majakovskij
Serena Vitale. «IL DEFUNTO ODIAVA I PETTEGOLEZZI», DA ADELPHI: UN’INCHIESTA FILOLOGICA E LETTERARIA DI SERENA VITALE SUL SUICIDIO TEATRALE DEL POETA RUSSO
Cecilia Bello Minciacchi il Manifesto 7.6.2015, 0:46
«Il cadavere» di Majakovskij, riportano i verbali, «indossa una camicia di colore giallastro con una cravatta nera (a farfalla)… Sulla parte sinistra del torace c’è un foro di forma irregolare… La circonferenza del foro presenta segni di bruciatura». Da anni ha dismesso il giallo esuberante cantato nella Blusa del bellimbusto: «Io mi cucirò neri calzoni / del velluto della mia voce. / E una gialla blusa di tre tese di tramonto». Nei ricordi della sorella Ljudmila, i ragazzi Majakovskij avevano amato il giallo fin dall’infanzia perché simboleggiava l’originaria «Georgia assolata». Non era solo predilezione cromatica, era anche astuzia, accorto scambio di ruolo tra accessori, come rivela un passo autobiografico citato da Angelo Maria Ripellino: «la cosa più cospicua e più bella nell’uomo è la cravatta. Se aumenti la cravatta aumenta anche il furore(…): feci della cravatta una camicia e della camicia una cravatta. Effetto irresistibile».
La chiassosa mise del cubofuturista, magnifico declamatore, cedette il passo col tempo – e con gli incontri – a un giallo meno vibrante, rosato. A indurre il cambiamento fu Lili Brik, conosciuta nel 1915 e subito eletta dedicataria delle sue opere, subito amata, amante. Con il suo arrivo nella vita di Vladimir, «via gli abiti da giullare, solo cravatte e non fusciacche o nastri, tagliare i capelli, curare quegli orribili denti marci… Il guardaroba del poeta si è arricchito di un paltò inglese», così scrive Serena Vitale nel suo recentissimo Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi «Fabula», pp. 284, euro 19,00), minuziosa indagine documentaria, ricostruzione e racconto – la forza narrativa è tanta, e avvincente – del suicidio di Majakovskij. I coniugi Brik, Lili e Osip, ebbero ruolo non piccolo nel destino del poeta: a loro deve la pubblicazione dello straordinario, inventivo, freschissimo tetrattico La nuvola in calzoni; da loro riceve e a loro ricambia amore e amicizia in un vincolo singolare quanto saldo, culminato in convivenza nel 1919. A loro deve l’incontro con Veronika Polonskaja organizzato ad arte nel 1929 per guarirlo, «malato d’amore» com’era per Tat’jana Jakoleva. Ma la bellissima Veronika, Nora, sua ultima amante, non seppe avere la pietà o la prontezza per scongiurare il suicidio più volte minacciato e infine compiuto mentre lei stava per lasciare lo studio. La mattina del 14 aprile 1930 Nora per la prima volta aveva prove di scena importanti, voleva arrivare in orario, soprattutto resisteva all’insistenza del poeta che le chiedeva di divorziare per diventare sua moglie. Dopo giorni d’angoscia e di solitudine – i Brik erano in viaggio in Europa – Majakovskij non poté sopportare un rifiuto, e neppure una dilazione di poche ore come Nora proponeva. Il suicidio avvenne nella «stanza-barchetta», come la chiamava il poeta, forse davanti a Nora, forse alle sue spalle. Se l’atto è stato repentino, il celebre commiato, lettera A tutti, era pronto già da due giorni, e non aveva avuto su Nora (troppo calata in Casa di bambola? – finissima Vitale) gli effetti sperati. Testimonianze, congetture e ricostruzioni che hanno impegnato e appassionato gli studiosi di Majakovskij sono ripercorse dalla slavista con la meticolosità che le è propria, e che già le ha permesso, vent’anni fa, il solidissimo e fascinoso Bottone di Puškin (Adelphi). Il metodo è sempre quello del montaggio: lettere, memorie e resoconti fatti confliggere tra loro, a mostrarne incongruenze, a cercarvi verità. Metodo efficacissimo, sovrano nella più interessante narrazione novecentesca, dal cinema alla letteratura. Incomparabile per esibire evidenze. Nel Defunto odiava i pettegolezzi, agli stralci di corrispondenza, alle deposizioni, alla descrizione degli oggetti conservati nell’Archivio del Politbjuro, Serena Vitale aggiunge altri documenti di prima mano, e fotografie inframezzate ai testi, ritratti del protagonista e dei comprimari, disegni – la piantina della kommunalka, i cuccioli di cane con cui spesso il poeta firmava le lettere, il disegnino di un’automobile (a Parigi comprò un’economica piccola Renault invece della Ford o della Buick desiderata da Lili) –, le istantanee dei funerali gremiti, la locandina di una «cinenovella» russa, il foglio spiegazzato con l’ultimo scritto, lo «schema della conversazione» da tenere con Nora, alcune immagini di pistole (accurata l’indagine sull’arma, sulla confusione tra modelli e matricole, sulla comparsa in dono e sulla rapida scomparsa della Mauser da cui partì il colpo). E ancora, a conclusione del capitolo «L’eternità di scorta», «dialogo» tra poeti, compaiono le fotografie di due statue, di Puškin e di Majakovskij, che i monumenti detestava – «Me ne frego / dei quintali di bronzo, / me ne frego / del marmoreo muco» –, e che dal 1935, dopo una lettera di Lili a Stalin, finì ingabbiato nella retorica di regime, la sua opera obbligatoria nelle scuole, «vigorosamente sforbiciata, presentata in tendenziose crestomazie». Salvo la piantina dello studio nessuna immagine reca didascalia: l’impaginazione basta a darne il soggetto, sì da rendere il documento visivo filo del tessuto narrativo, non semplice illustrazione esornativa.
Oltre a esprimere la grandezza di Majakovskij – i versi inclusi nel montaggio già da soli sarebbero sufficienti –, il libro di Serena Vitale, ricostruisce epoca e atmosfera, facendo propria la raccomandazione di Marina Cvetaeva citata in epigrafe: «In primo luogo: quando parliamo di un poeta, voglia Dio che ricordiamo sempre il secolo in cui visse. In secondo e opposto luogo: parlando di Majakovskij, dovremo ricordare sempre non soltanto il secolo – ci toccherà sempre ricordare un secolo avanti…».
Del tempo Serena Vitale inquadra le livide ombre dell’OGPU, la perfidia di Gor’kij che lo diceva affetto dalla sifilide, «malattia del capitalismo», il LEF e il REF, la RAPP, Associazione russa degli scrittori proletari, il demoniaco Arbuzov, il doppio Agranov, il controllo della stampa, l’intellettualità moscovita, le ipocrisie, le delazioni incrociate, il «nano sanguinario», le esecuzioni. Del poeta mostra a più riprese l’intelligenza affilata, brillante (arguta finanche nelle agitki, slogan di propaganda politica), e la lungimiranza, le virtù precorritrici, rese ancor più nitide dalla miopia della critica, dalle polemiche e dai lazzi offensivi di chi lo considerava «finito» cui, a meno di una settimana dalla morte, replicava con ferita consapevolezza: «tra quindici, vent’anni, il livello culturale dei lavoratori sarà più alto, e allora le mie opere saranno comprensibili a tutti». La ricostruzione muove dalla morte, dalla sensibilità privata e dalla figura pubblica di Majakovskij che del suicidio portano il peso, dalla dinamica dei fatti, perché, si legge nel Bottone di Puškin, «la morte dei grandi è valle di echi, magica lente di ingrandimento».
Alla vividezza della narrazione contribuiscono, accanto all’aura e alla problematicità del soggetto, alcune soluzioni stilistiche: d’un espressionismo lucente e crudo è il rapido prelievo del cervello di Majakovskij perché gli scienziati possano studiarlo (chissà in quali circonvoluzioni alberga la Musa…); senza vie di fuga, per le contraddizioni che espone, il montaggio a incastro serrato della deposizione che Nora diede nell’imminenza del suicidio e delle memorie che stese otto anni dopo.
Alla propria voce Serena Vitale riserva spesso commenti tra parentesi, non privi d’ironia screziata d’amaro, e di frequente chiusi da punto esclamativo, che marca paradossi o enormità ed è spia di un approccio diretto, di un pensiero sfuggito ad alta voce, fuori dell’ortodossia accademica. L’operazione alla base del libro è storico-letteraria e nel contempo affabile. L’adesione è a volte schermata da parole altrui – acuta, e tragica, per noi molto persuasiva, la nota di Eizenštejn sul ritmo e sulla sintassi della lettera di commiato, vicini a una canzonetta popolare, una «poesia della malavita odessita» di cui era protagonista un caduto «sul campo di battaglia». Era diventato politicamente ingombrante, Majakovskij, il poeta della rivoluzione, e vulnerabile. Alla vigilia della morte era pieno di furore e di rabbia, e di amore – Serena Vitale insiste su questi nodi –, eppure non lo abbandonava l’autocoscienza: «Conosco la forza delle parole lo scampanare a stormo / un niente sembra / petalo schiacciato dai tacchi delle danze / ma in anima e labbra e scheletro l’uomo».
L’ultimo atto di Majakovskij Un suicida circondato di spie
Agenti di Stalin e donne fatali nella vita di un uomo solo e infelice Un libro di Serena Vitaledi Giorgio Montefoschi Corriere 15.6.15
Mosca, ore 10 e 16 del 14 aprile 1930. Al Pronto soccorso dell’Istituto
Slifosovskij arriva una richiesta urgente di intervento. Sette minuti
più tardi, un’ambulanza si ferma al numero 3 del passaggio Lubianskij.
Al terzo piano, nella stanza (undici metri quadrati: un lusso per quei
tempi) di una casa comune, c’è lo studio di Vladimir Majakovskij. Il
poeta è in terra. Morto. Si è sparato al cuore. Il defunto odiava i
pettegolezzi , l’appassionante libro, pubblicato da Adelphi, con il
quale Serena Vitale ricostruisce il suicidio (ma fu vero suicidio?) di
Majakovskij e, insieme, l’epoca mostruosa del terrore staliniano, e
tutto un mondo che oggi ci appare ancora inaudito — perché i poeti e gli
scrittori venivano giustiziati uno dopo l’altro nei sotterranei del
lugubre palazzo della Lubjanka(sede della Ceka, la polizia segreta, poi
chiamata Ogpu e quindi Nkvd) e però andavano all’ippodromo a vedere le
corse dei cavalli, giocavano a poker, continuavano a scrivere poesie e
commedie pericolose, e poteva capitare che ballassero il fox trot —,
comincia così.
Lo schiocco di uno sparo e il grido di una donna — «Aiuto, aiuto…
Majakovskij si è sparato!» — difficilmente possono rimanere inascoltati
in una casa comune. La prima ad accorrere è Lidija Raijkovskaja, una
infermiera che abita nell’appartamento numero 13. Entra e vede il
cadavere al suolo con «la testa verso la porta, i piedi verso la
finestra, tra i piedi una pistola». La giovane donna che ha gridato si
chiama Veronika Polonskaja. Fa l’attrice. È l’ultima fiamma di Vladimir.
Gliel’hanno presentata nel maggio del 1929, all’ippodromo, i coniugi
Brik, Osip e Lili, con i quali in vicolo Gendrikov, consumando un
rapporto ambiguo, Majakovskij abita da diversi anni.
In realtà, il rapporto è meno scandaloso di quanto possa immaginarsi,
per quegli anni. Lili — che, al pari di suo marito, lavora per la
polizia segreta — è una specie di Messalina, passa da un uomo all’altro,
prende il sole nuda davanti ai suoi ospiti; e in Russia, da quel punto
di vista, forse per reagire alla tetraggine, succede di tutto.
La scintilla, fra Lili e Vladimir, è scoppiata quindici anni prima.
Appoggiato allo stipite di una porta (come Aleksandr Puškin) in una casa
di Pietrogrado, il ventiduenne Vladimir sta declamando La nuvola in
calzoni , il poema che va annoverato fra i suoi capolavori. Lili ha già
conosciuto quel giovanotto corpulento e altissimo, scalmanato — il più
scalmanato fra i poeti futuristi che vorrebbero buttare a mare Puškin,
tutta la letteratura e la poesia precedenti, e cambiare il mondo —
vestito in modo abominevole, i denti guasti, rozzo, arrogante, eppure
maestoso. Ascolta la sua voce tonante: «Ehi, cielo,/ dico a voi!/
Toglietevi il cappello!/ Arrivo!/ Non sente./ Non sente./ L’universo
dorme,/ l’enorme orecchio appoggiato alla zampa/ stellata di zecche…»;
lo fissa ammaliata; di lì a poco diventeranno amanti. Ma lei sarà
padrona crudele del suo destino.
Infatti lo sorveglia, in tutti i sensi. E quando Vladimir — che grazie
alla sua fama e ai versi incendiari che celebrano la rivoluzione e il
futuro radioso della città socialista, ha danaro, autista, e può
viaggiare all’estero — torna da Parigi innamorato perso e deluso da
Tatjana Jakovleva (una russa emigré , modista e mannequin da Coco
Chanel), dopo aver scartato i regali che gli ha chiesto (tre paia di
calzamaglie rosa, tre nere, profumo Rue de la Paix, matite per gli occhi
Houbigant), organizza l’incontro all’ippodromo con la Polonskaja.
Perché Vladimir continua a vivere con lei e il marito, pur non essendo
più il suo amante, ma non basta: il «cucciolo», come lei lo chiama, non
può stare da solo.
Ora, la Polonskaja, in cappotto e cappellino, dopo lo sparo e la
richiesta d’aiuto — e già, nell’appartamento, le testimonianze
contrastano: chi dice che è uscita dalla porta prima, chi dopo lo sparo —
a coloro che sono accorsi sembra «tranquilla». Doveva andare alle prove
della commedia La nostra giovinezza (così sostiene nell’interrogatorio e
poi scriverà nelle sue memorie: ma pare che le prove si fossero svolte
il giorno prima). Dopo l’interrogatorio, si dilegua.
Sono le 10 e 50. I giornali battono la notizia: Majakovskij si è ucciso.
Nell’angusto studio di passaggio Lubianskij, si è raccolta una vera e
propria folla: un ispettore, un medico legale, un famoso giornalista,
l’impresario delle serate ultimamente sempre più rovinose del poeta,
agenti segreti importantissimi (tra i quali, la vera anima nera: tale
Agranov), precipitatisi dal palazzo della Lubjanka, che dista solo
duecento metri, mezz’ora appena dopo lo sparo. Uno sconosciuto redige il
verbale: secondo il medico legale, Majakovskij si è sparato al cuore,
ha un forellino tre centimetri sopra il capezzolo sinistro; è disteso a
terra con la testa verso la porta; tra le gambe, un revolver Mauser
calibro 7,65.
Ore 12 e 15: la notizia si è sparsa in tutta Mosca, provocando
incredulità e sgomento. La gente si accalca (c’è pure Boris Pasternak). I
portantini faticano a trasportare la barella. Il cadavere arriva in
vicolo Gendrikov. Da dietro la porta chiusa si sentono colpi atroci,
come se stessero abbattendo un albero: gli stanno prelevando il
cervello. Ore 24: viene trasportato in Via Vorovskij, al Club degli
scrittori.
Passano ventiquattr’ore. Sulla «Pravda» appaiono epitaffi ipocriti. La
versione ufficiale deve essere che Majakovskij si è ucciso per un dramma
privato. Maksim Gorkij sostiene che lo ha fatto perché malato (forse,
di sifilide). In città si intrecciano malignità e commenti di ogni tipo:
si è ucciso perché era solo («Solo come l’ultimo occhio di chi va in
una terra di ciechi»), per l’insuccesso della sua commedia Banja («Il
bagno») critica verso la burocrazia staliniana, per lo spegnersi del
talento.
Viene il giorno dei funerali. Ci sono fiumane di gente (come ai funerali
di Puškin), più di centomila persone; sui balconi sono appesi drappi
neri. Il cadavere di Vladimir si è gonfiato. La bara non si chiude. Un
amico solerte monta sul coperchio. Altri amici spargono lacrime finte. I
professori della Filarmonica moscovita suonano la Marcia funebre di
Chopin. Qualcuno dice: «Majakovskij non riesce nemmeno a morire senza
far casino».
Alle 19 e 35, al crematorio, il corpo brucia. E il «teppista», il grande
poeta convinto di essere lui stesso un monumento, l’uomo disperato che
un cattivo aveva descritto come un cavallo vestito da dama inglese, che
di notte girava per Mosca prendendo a martellate il Dio che non gli
rispondeva o non voleva concedergli l’eternità terrestre, e aveva
scritto: «Il mio verso/ si aprirà una breccia/ nella mole degli anni/ e
apparirà/ poderoso/ rozzo/ tangibile», non esiste più.
In una lettera, preparata il 12 aprile, rivolta «a tutti» ha scritto di
non incolpare nessuno: niente pettegolezzi. Ma quali sono i motivi veri
per i quali si è ucciso? Per l’insuccesso teatrale? Per le contestazioni
e i fischi nelle letture pubbliche? Per le pressioni del partito? Per i
ricatti della polizia segreta? Per il disinganno, il crollo degli
ideali, l’orrore per l’avvento dei Tiranni? O davvero, come un
borghesuccio qualunque, per amore, perché Veronika Polonskaja non voleva
divorziare dal marito e quella mattina lo aveva definitivamente
respinto? O per quella ferita sanguinosa che si portava dietro nel cuore
e nessun amore, nessun progetto di futuro rivoluzionario radioso
avrebbe mai potuto sanare? E infine: si era ucciso veramente da solo
(usando la sinistra, lui che non era mancino); o qualcuno lo aveva
ucciso usando la scala segreta che sbucava nello studio; o qualcuno,
peggio ancora, gli aveva messo in mano la pistola (che forse era una
Mauser, forse una Browning, forse un’altra)?
Aveva scritto: «Non inghiottirò veleno,/ e non riuscirò a premere il
grilletto contro la nuca». Ma anche: «E sempre più spesso mi chiedo/ se
non sarebbe meglio mettere il punto/ di una pallottola alla mia fine».
Che dovesse, o potesse morire era comunque opinione diffusa. «Bisognava
farlo fuori», scrisse Sergej Eiženštejn. «E lo hanno fatto fuori… Con le
sue stesse mani.»
Con quale intelligenza di studiosa, con quale abilità di investigatrice
Serena Vitale ricostruisce il suicidio, o l’omicidio, considerando tutte
le possibili testimonianze vere o false, tutti i possibili documenti,
tutti i perché ai quali fino ad ora — anche dopo la riabilitazione di
Majakovskij — non è stata data una risposta. Per esempio: perché non fu
mai interrogato l’autista del taxi che la mattina del 14 portò Vladimir e
Veronika in passaggio Lubianskij; perché non furono conservati i
verbali dell’autopsia; perché l’indagine fu chiusa il giorno stesso; e,
soprattutto, «perché quello stormo di cekisti accorsi come avvoltoi
subito dopo il suicidio»?
Con quale sapienza — dolorosa e asciutta — la Vitale conduce il lettore
all’interno delle Tenebre dalle quali affiorano, veri e propri fantasmi
in carne ossa, i volti emaciati, «normali» e orribili, dei delatori e
delle spie che popolavano quel gigantesco carcere a cielo aperto, e
quelli delle vittime trafitte dalla paura. Con quale finezza psicologica
disegna la figura del poeta amato e vilipeso, altezzoso e tenero,
impaziente e pietoso, con «quel corpo da gigante, grosso e inutile,
partorito da chissà quale Golia in una notte di gelo».
Non da ultimo, con quale sapienza romanzesca l’autrice descrive il
«prima» di quella mattina tragica. Perché già nella notte di San
Silvestro Majakovskij era triste e non erano serviti a consolarlo i
quaranta ospiti e il vino. E nei giorni precedenti il 14, dalla
Polonskaja (quasi certamente la sua ultima sorvegliante) aveva ricevuto
solo schiaffi in faccia, e dalla gente insulti. La sera del 13, dai
Kataev — una delle tipiche serate moscovite con tè, biscotti, al massimo
due bottiglie di Riesling — era taciturno e cupo; a Veronika, all’altro
capo della tavola, mandava supplichevoli bigliettini. Poi il 14, col
taxi, era passato a prenderla ed erano entrati nella stanza del mistero.
Il bardo Majakovskij ucciso dai rancori
Il suo suicidio è stato un lungo “giallo” tra amori, gelosie di colleghi e del partito
Lorenzo Mondo tuttolibri 20 6 2015
Non c’è bisogno di avere speciali competenze sulla letteratura russa per apprezzare i libri di Serena Vitale, la qualità della sua scrittura, il suo talento critico-narrativo. Così, chi ha letto Il bottone di Puskin o L’imbroglio del turbante si sente sollecitato a leggere il suo ultimo saggio, intitolato Il defunto odiava i pettegolezzi. In esso si tratta di Vladimir Majakovskij, il titolo è desunto dal suo testamento, che Serena Vitale intende rispettare liberando appunto il poeta dai pettegolezzi, e non soltanto da quelli. Il dato di partenza è offerto dalla mattina del 14 aprile 1930 quando il poeta trentasettenne si uccide in una «kommunalka» (un alloggio in coabitazione) sparandosi al petto. Pregando il «compagno Governo» di prendersi cura, oltrechè dei familiari, delle due donne cui era tempestosamente legato, Lili Brik e Veronika Polonskaja.
Nasce di qui la serrata inchiesta dell’autrice per mettere un punto fermo sul «mistero» di quella morte. Tale fu a lungo considerato, per la mole di indiscrezioni, sospetti, occultamenti che gravarono su una personalità in tutti i sensi ingombrante. Un mistero favorito dall’aggrovigliata vita sentimentale del poeta ma anche dalle gelosie e rancori degli ambienti letterari, soprattutto dal ripudio ad opera della Nomenklatura. Il bardo della Rivoluzione era diventato ormai obsoleto: gli rinfacciavano i cedimenti alle emozioni private e alle accensioni liriche, non tolleravano in particolare la sua denuncia del filisteismo imperante nella società sovietica. Dove «l’imparnassito guerriero del Futurismo» appariva un corpo estraneo. Si insinuò che fosse affetto da sifilide, «la malattia del capitalismo», di avere sacrificato la Grande Causa a meschini amorucci, di essersi distratto dal celebrare le conquiste del Socialismo. (Confidava un altro scrittore refrattario: «Che cosa si può scrivere delle patate, degli orti? Che vogliono da noi? Che cosa si può scrivere dei kolchoz?...E sui kulaki non c’è niente da scrivere. Non ce ne sono più). Il suicidio - annota Serena Vitale - è inammissibile lì dove solo lo Stato ha licenza di eliminare i propri sudditi». Il suo libro vale d’altronde, ben oltre l’assunto, per l’impressionante contesto storico, che presenta un sinistro corteo di scrittori perseguitati e fucilati.
Passarono cinque anni prima che Stalin, non potendo più reclutare alla causa nomi di prima grandezza, lo proclamasse «il migliore, il più dotato poeta della nostra epoca sovietica» e definisse un crimine l’offesa alla sua memoria. Serena utilizza nella sua indagine le testimonianze dei giornali, le confidenze di contemporanei amici e nemici, le carte emerse dagli archivi della polizia segreta. Sgombra il campo dalle troppe, abusive illazioni ma registra anche il clima oppressivo che circondò Majakovskij. Ravvisa, tra le cause della sua morte, il disinganno atroce per l’avvento dei Tiranni, la rabbia e lo sdegno contro chi aveva deturpato la «sua» Rivoluzione. Prova grande simpatia per il suo personaggio, che conserva nel corpo da gigante, nelle pose statuarie l’anima febbrile di un adolescente. Gli fa grazia di quelle che sembrano a noi poetiche intemperanze, sonore e virulente compromissioni con la propaganda, mettendo in luce il suo nativo, perenne ribellismo, il suo utopistico abbraccio al futuro. Scrive Majakovskij in una poesia rimasta incompiuta: «La notte ha imposto al cielo il tributo di stelle/in ore come questa ti alzi e parli/ai secoli, alla storia, al creato».
Serena procede con brevi capitoli che contengono nudi referti fattuali, catene di citazioni tratte da diari e verbali, lacerti di poemi. Interviene in prima persona soprattutto nei brani racchiusi tra parentesi che si aprono ad aggiustamenti, contestazioni, libere riflessioni su Majakovskij e il tempo in cui visse. Sembra quasi corrispondere, in una sorta di affettuosa complicità, al franto discorso poetico del suo autore. Il suo libro seduce e intriga anche per questa originale, composita struttura.
Nessun commento:
Posta un commento