domenica 7 giugno 2015

Stalin uccise Majakovskij e ne mangiò il cuore a brani

Serena Vitale: Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi

Risvolto
Mosca, 14 aprile 1930. Intorno alle undici del mattino i telefoni si mettono a suonare tutti insieme, come indemoniati, diffondendo «l'oceanica notizia» del suicidio di Vladimir Majakovskij: uno sparo al cuore, che immediatamente trasporta il poeta nella costellazione delle giovani leggende. Per alcuni quella fine appare come un segno: è morta l'utopia rivoluzionaria. Ma c'è anche il coro dei filistei: si è ucciso perché aveva la sifilide; perché era oppresso dalle tasse; perché in questo modo i suoi libri andranno a ruba. E ci sono l'imbarazzo e l'irritazione della nomenklatura di fronte a quella «stupida, pusillanime morte», inconciliabile con la gioia di Stato. Ma che cosa succede davvero quella mattina nella minuscola stanza di una kommunalka dove Majakovskij è da poco arrivato in compagnia di una giovane e bellissima attrice, sua amante? Studiando con acribia e passione le testimonianze dei contemporanei, i giornali dell'epoca, i documenti riemersi dagli archivi dopo il 1991 (dai verbali degli interrogatori ai «pettegolezzi» raccolti da informatori della polizia politica), sfatando le varie, pittoresche congetture formulate nel tempo, Serena Vitale ha magistralmente ricostruito quello che ancora oggi è considerato, in Russia, uno dei grandi misteri – fu davvero suicidio? – dell'epoca sovietica. E regala al lettore un trascinante romanzo-indagine che è anche un fervido omaggio a Majakovskij, realizzazione del suo estremo desiderio: parlare ai posteri – e «ai secoli, alla storia, al creato» – in versi. 



Serena Vitale, una morte di Majakovskij 
Serena Vitale. «IL DEFUNTO ODIAVA I PETTEGOLEZZI», DA ADELPHI: UN’INCHIESTA FILOLOGICA E LETTERARIA DI SERENA VITALE SUL SUICIDIO TEATRALE DEL POETA RUSSO 

Cecilia Bello Minciacchi il Manifesto 7.6.2015, 0:46
«Il cada­vere» di Maja­ko­v­skij, ripor­tano i ver­bali, «indossa una cami­cia di colore gial­la­stro con una cra­vatta nera (a far­falla)… Sulla parte sini­stra del torace c’è un foro di forma irre­go­lare… La cir­con­fe­renza del foro pre­senta segni di bru­cia­tura». Da anni ha dismesso il giallo esu­be­rante can­tato nella Blusa del bel­lim­bu­sto: «Io mi cucirò neri cal­zoni / del vel­luto della mia voce. / E una gialla blusa di tre tese di tra­monto». Nei ricordi della sorella Ljud­mila, i ragazzi Maja­ko­v­skij ave­vano amato il giallo fin dall’infanzia per­ché sim­bo­leg­giava l’originaria «Geor­gia asso­lata». Non era solo pre­di­le­zione cro­ma­tica, era anche astu­zia, accorto scam­bio di ruolo tra acces­sori, come rivela un passo auto­bio­gra­fico citato da Angelo Maria Ripel­lino: «la cosa più cospi­cua e più bella nell’uomo è la cra­vatta. Se aumenti la cra­vatta aumenta anche il furore(…): feci della cra­vatta una cami­cia e della cami­cia una cra­vatta. Effetto irre­si­sti­bile».
La chias­sosa mise del cubo­fu­tu­ri­sta, magni­fico decla­ma­tore, cedette il passo col tempo – e con gli incon­tri – a un giallo meno vibrante, rosato. A indurre il cam­bia­mento fu Lili Brik, cono­sciuta nel 1915 e subito eletta dedi­ca­ta­ria delle sue opere, subito amata, amante. Con il suo arrivo nella vita di Vla­di­mir, «via gli abiti da giul­lare, solo cra­vatte e non fusciac­che o nastri, tagliare i capelli, curare que­gli orri­bili denti marci… Il guar­da­roba del poeta si è arric­chito di un paltò inglese», così scrive Serena Vitale nel suo recen­tis­simo Il defunto odiava i pet­te­go­lezzi (Adel­phi «Fabula», pp. 284, euro 19,00), minu­ziosa inda­gine docu­men­ta­ria, rico­stru­zione e rac­conto – la forza nar­ra­tiva è tanta, e avvin­cente – del sui­ci­dio di Maja­ko­v­skij. I coniugi Brik, Lili e Osip, ebbero ruolo non pic­colo nel destino del poeta: a loro deve la pub­bli­ca­zione dello straor­di­na­rio, inven­tivo, fre­schis­simo tetrat­tico La nuvola in cal­zoni; da loro riceve e a loro ricam­bia amore e ami­ci­zia in un vin­colo sin­go­lare quanto saldo, cul­mi­nato in con­vi­venza nel 1919. A loro deve l’incontro con Vero­nika Polon­skaja orga­niz­zato ad arte nel 1929 per gua­rirlo, «malato d’amore» com’era per Tat’jana Jako­leva. Ma la bel­lis­sima Vero­nika, Nora, sua ultima amante, non seppe avere la pietà o la pron­tezza per scon­giu­rare il sui­ci­dio più volte minac­ciato e infine com­piuto men­tre lei stava per lasciare lo stu­dio. La mat­tina del 14 aprile 1930 Nora per la prima volta aveva prove di scena impor­tanti, voleva arri­vare in ora­rio, soprat­tutto resi­steva all’insistenza del poeta che le chie­deva di divor­ziare per diven­tare sua moglie. Dopo giorni d’angoscia e di soli­tu­dine – i Brik erano in viag­gio in Europa – Maja­ko­v­skij non poté sop­por­tare un rifiuto, e nep­pure una dila­zione di poche ore come Nora pro­po­neva. Il sui­ci­dio avvenne nella «stanza-barchetta», come la chia­mava il poeta, forse davanti a Nora, forse alle sue spalle. Se l’atto è stato repen­tino, il cele­bre com­miato, let­tera A tutti, era pronto già da due giorni, e non aveva avuto su Nora (troppo calata in Casa di bam­bola? – finis­sima Vitale) gli effetti spe­rati. Testi­mo­nianze, con­get­ture e rico­stru­zioni che hanno impe­gnato e appas­sio­nato gli stu­diosi di Maja­ko­v­skij sono riper­corse dalla sla­vi­sta con la meti­co­lo­sità che le è pro­pria, e che già le ha per­messo, vent’anni fa, il soli­dis­simo e fasci­noso Bot­tone di Puš­kin (Adel­phi). Il metodo è sem­pre quello del mon­tag­gio: let­tere, memo­rie e reso­conti fatti con­flig­gere tra loro, a mostrarne incon­gruenze, a cer­carvi verità. Metodo effi­ca­cis­simo, sovrano nella più inte­res­sante nar­ra­zione nove­cen­te­sca, dal cinema alla let­te­ra­tura. Incom­pa­ra­bile per esi­bire evi­denze. Nel Defunto odiava i pet­te­go­lezzi, agli stralci di cor­ri­spon­denza, alle depo­si­zioni, alla descri­zione degli oggetti con­ser­vati nell’Archivio del Polit­b­juro, Serena Vitale aggiunge altri docu­menti di prima mano, e foto­gra­fie infra­mez­zate ai testi, ritratti del pro­ta­go­ni­sta e dei com­pri­mari, dise­gni – la pian­tina della kom­mu­nalka, i cuc­cioli di cane con cui spesso il poeta fir­mava le let­tere, il dise­gnino di un’automobile (a Parigi com­prò un’economica pic­cola Renault invece della Ford o della Buick desi­de­rata da Lili) –, le istan­ta­nee dei fune­rali gre­miti, la locan­dina di una «cine­no­vella» russa, il foglio spie­gaz­zato con l’ultimo scritto, lo «schema della con­ver­sa­zione» da tenere con Nora, alcune imma­gini di pistole (accu­rata l’indagine sull’arma, sulla con­fu­sione tra modelli e matri­cole, sulla com­parsa in dono e sulla rapida scom­parsa della Mau­ser da cui partì il colpo). E ancora, a con­clu­sione del capi­tolo «L’eternità di scorta», «dia­logo» tra poeti, com­pa­iono le foto­gra­fie di due sta­tue, di Puš­kin e di Maja­ko­v­skij, che i monu­menti dete­stava – «Me ne frego / dei quin­tali di bronzo, / me ne frego / del mar­mo­reo muco» –, e che dal 1935, dopo una let­tera di Lili a Sta­lin, finì ingab­biato nella reto­rica di regime, la sua opera obbli­ga­to­ria nelle scuole, «vigo­ro­sa­mente sfor­bi­ciata, pre­sen­tata in ten­den­ziose cre­sto­ma­zie». Salvo la pian­tina dello stu­dio nes­suna imma­gine reca dida­sca­lia: l’impaginazione basta a darne il sog­getto, sì da ren­dere il docu­mento visivo filo del tes­suto nar­ra­tivo, non sem­plice illu­stra­zione esor­na­tiva.
Oltre a espri­mere la gran­dezza di Maja­ko­v­skij – i versi inclusi nel mon­tag­gio già da soli sareb­bero suf­fi­cienti –, il libro di Serena Vitale, rico­strui­sce epoca e atmo­sfera, facendo pro­pria la rac­co­man­da­zione di Marina Cve­taeva citata in epi­grafe: «In primo luogo: quando par­liamo di un poeta, voglia Dio che ricor­diamo sem­pre il secolo in cui visse. In secondo e oppo­sto luogo: par­lando di Maja­ko­v­skij, dovremo ricor­dare sem­pre non sol­tanto il secolo – ci toc­cherà sem­pre ricor­dare un secolo avanti…».
Del tempo Serena Vitale inqua­dra le livide ombre dell’OGPU, la per­fi­dia di Gor’kij che lo diceva affetto dalla sifi­lide, «malat­tia del capi­ta­li­smo», il LEF e il REF, la RAPP, Asso­cia­zione russa degli scrit­tori pro­le­tari, il demo­niaco Arbu­zov, il dop­pio Agra­nov, il con­trollo della stampa, l’intellettualità mosco­vita, le ipo­cri­sie, le dela­zioni incro­ciate, il «nano san­gui­na­rio», le ese­cu­zioni. Del poeta mostra a più riprese l’intelligenza affi­lata, bril­lante (arguta finan­che nelle agi­tki, slo­gan di pro­pa­ganda poli­tica), e la lun­gi­mi­ranza, le virtù pre­cor­ri­trici, rese ancor più nitide dalla mio­pia della cri­tica, dalle pole­mi­che e dai lazzi offen­sivi di chi lo con­si­de­rava «finito» cui, a meno di una set­ti­mana dalla morte, repli­cava con ferita con­sa­pe­vo­lezza: «tra quin­dici, vent’anni, il livello cul­tu­rale dei lavo­ra­tori sarà più alto, e allora le mie opere saranno com­pren­si­bili a tutti». La rico­stru­zione muove dalla morte, dalla sen­si­bi­lità pri­vata e dalla figura pub­blica di Maja­ko­v­skij che del sui­ci­dio por­tano il peso, dalla dina­mica dei fatti, per­ché, si legge nel Bot­tone di Puš­kin, «la morte dei grandi è valle di echi, magica lente di ingran­di­mento».
Alla vivi­dezza della nar­ra­zione con­tri­bui­scono, accanto all’aura e alla pro­ble­ma­ti­cità del sog­getto, alcune solu­zioni sti­li­sti­che: d’un espres­sio­ni­smo lucente e crudo è il rapido pre­lievo del cer­vello di Maja­ko­v­skij per­ché gli scien­ziati pos­sano stu­diarlo (chissà in quali cir­con­vo­lu­zioni alberga la Musa…); senza vie di fuga, per le con­trad­di­zioni che espone, il mon­tag­gio a inca­stro ser­rato della depo­si­zione che Nora diede nell’imminenza del sui­ci­dio e delle memo­rie che stese otto anni dopo.
Alla pro­pria voce Serena Vitale riserva spesso com­menti tra paren­tesi, non privi d’ironia scre­ziata d’amaro, e di fre­quente chiusi da punto escla­ma­tivo, che marca para­dossi o enor­mità ed è spia di un approc­cio diretto, di un pen­siero sfug­gito ad alta voce, fuori dell’ortodossia acca­de­mica. L’operazione alla base del libro è storico-letteraria e nel con­tempo affa­bile. L’adesione è a volte scher­mata da parole altrui – acuta, e tra­gica, per noi molto per­sua­siva, la nota di Eize­nš­tejn sul ritmo e sulla sin­tassi della let­tera di com­miato, vicini a una can­zo­netta popo­lare, una «poe­sia della mala­vita odes­sita» di cui era pro­ta­go­ni­sta un caduto «sul campo di bat­ta­glia». Era diven­tato poli­ti­ca­mente ingom­brante, Maja­ko­v­skij, il poeta della rivo­lu­zione, e vul­ne­ra­bile. Alla vigi­lia della morte era pieno di furore e di rab­bia, e di amore – Serena Vitale insi­ste su que­sti nodi –, eppure non lo abban­do­nava l’autocoscienza: «Cono­sco la forza delle parole lo scam­pa­nare a stormo / un niente sem­bra / petalo schiac­ciato dai tac­chi delle danze / ma in anima e lab­bra e sche­le­tro l’uomo».

L’ultimo atto di Majakovskij Un suicida circondato di spie
Agenti di Stalin e donne fatali nella vita di un uomo solo e infelice Un libro di Serena Vitaledi Giorgio Montefoschi Corriere 15.6.15
Mosca, ore 10 e 16 del 14 aprile 1930. Al Pronto soccorso dell’Istituto Slifosovskij arriva una richiesta urgente di intervento. Sette minuti più tardi, un’ambulanza si ferma al numero 3 del passaggio Lubianskij. Al terzo piano, nella stanza (undici metri quadrati: un lusso per quei tempi) di una casa comune, c’è lo studio di Vladimir Majakovskij. Il poeta è in terra. Morto. Si è sparato al cuore. Il defunto odiava i pettegolezzi , l’appassionante libro, pubblicato da Adelphi, con il quale Serena Vitale ricostruisce il suicidio (ma fu vero suicidio?) di Majakovskij e, insieme, l’epoca mostruosa del terrore staliniano, e tutto un mondo che oggi ci appare ancora inaudito — perché i poeti e gli scrittori venivano giustiziati uno dopo l’altro nei sotterranei del lugubre palazzo della Lubjanka(sede della Ceka, la polizia segreta, poi chiamata Ogpu e quindi Nkvd) e però andavano all’ippodromo a vedere le corse dei cavalli, giocavano a poker, continuavano a scrivere poesie e commedie pericolose, e poteva capitare che ballassero il fox trot —, comincia così.
Lo schiocco di uno sparo e il grido di una donna — «Aiuto, aiuto… Majakovskij si è sparato!» — difficilmente possono rimanere inascoltati in una casa comune. La prima ad accorrere è Lidija Raijkovskaja, una infermiera che abita nell’appartamento numero 13. Entra e vede il cadavere al suolo con «la testa verso la porta, i piedi verso la finestra, tra i piedi una pistola». La giovane donna che ha gridato si chiama Veronika Polonskaja. Fa l’attrice. È l’ultima fiamma di Vladimir. Gliel’hanno presentata nel maggio del 1929, all’ippodromo, i coniugi Brik, Osip e Lili, con i quali in vicolo Gendrikov, consumando un rapporto ambiguo, Majakovskij abita da diversi anni.
In realtà, il rapporto è meno scandaloso di quanto possa immaginarsi, per quegli anni. Lili — che, al pari di suo marito, lavora per la polizia segreta — è una specie di Messalina, passa da un uomo all’altro, prende il sole nuda davanti ai suoi ospiti; e in Russia, da quel punto di vista, forse per reagire alla tetraggine, succede di tutto.
La scintilla, fra Lili e Vladimir, è scoppiata quindici anni prima. Appoggiato allo stipite di una porta (come Aleksandr Puškin) in una casa di Pietrogrado, il ventiduenne Vladimir sta declamando La nuvola in calzoni , il poema che va annoverato fra i suoi capolavori. Lili ha già conosciuto quel giovanotto corpulento e altissimo, scalmanato — il più scalmanato fra i poeti futuristi che vorrebbero buttare a mare Puškin, tutta la letteratura e la poesia precedenti, e cambiare il mondo — vestito in modo abominevole, i denti guasti, rozzo, arrogante, eppure maestoso. Ascolta la sua voce tonante: «Ehi, cielo,/ dico a voi!/ Toglietevi il cappello!/ Arrivo!/ Non sente./ Non sente./ L’universo dorme,/ l’enorme orecchio appoggiato alla zampa/ stellata di zecche…»; lo fissa ammaliata; di lì a poco diventeranno amanti. Ma lei sarà padrona crudele del suo destino.
Infatti lo sorveglia, in tutti i sensi. E quando Vladimir — che grazie alla sua fama e ai versi incendiari che celebrano la rivoluzione e il futuro radioso della città socialista, ha danaro, autista, e può viaggiare all’estero — torna da Parigi innamorato perso e deluso da Tatjana Jakovleva (una russa emigré , modista e mannequin da Coco Chanel), dopo aver scartato i regali che gli ha chiesto (tre paia di calzamaglie rosa, tre nere, profumo Rue de la Paix, matite per gli occhi Houbigant), organizza l’incontro all’ippodromo con la Polonskaja. Perché Vladimir continua a vivere con lei e il marito, pur non essendo più il suo amante, ma non basta: il «cucciolo», come lei lo chiama, non può stare da solo.
Ora, la Polonskaja, in cappotto e cappellino, dopo lo sparo e la richiesta d’aiuto — e già, nell’appartamento, le testimonianze contrastano: chi dice che è uscita dalla porta prima, chi dopo lo sparo — a coloro che sono accorsi sembra «tranquilla». Doveva andare alle prove della commedia La nostra giovinezza (così sostiene nell’interrogatorio e poi scriverà nelle sue memorie: ma pare che le prove si fossero svolte il giorno prima). Dopo l’interrogatorio, si dilegua.
Sono le 10 e 50. I giornali battono la notizia: Majakovskij si è ucciso. Nell’angusto studio di passaggio Lubianskij, si è raccolta una vera e propria folla: un ispettore, un medico legale, un famoso giornalista, l’impresario delle serate ultimamente sempre più rovinose del poeta, agenti segreti importantissimi (tra i quali, la vera anima nera: tale Agranov), precipitatisi dal palazzo della Lubjanka, che dista solo duecento metri, mezz’ora appena dopo lo sparo. Uno sconosciuto redige il verbale: secondo il medico legale, Majakovskij si è sparato al cuore, ha un forellino tre centimetri sopra il capezzolo sinistro; è disteso a terra con la testa verso la porta; tra le gambe, un revolver Mauser calibro 7,65.
Ore 12 e 15: la notizia si è sparsa in tutta Mosca, provocando incredulità e sgomento. La gente si accalca (c’è pure Boris Pasternak). I portantini faticano a trasportare la barella. Il cadavere arriva in vicolo Gendrikov. Da dietro la porta chiusa si sentono colpi atroci, come se stessero abbattendo un albero: gli stanno prelevando il cervello. Ore 24: viene trasportato in Via Vorovskij, al Club degli scrittori.
Passano ventiquattr’ore. Sulla «Pravda» appaiono epitaffi ipocriti. La versione ufficiale deve essere che Majakovskij si è ucciso per un dramma privato. Maksim Gorkij sostiene che lo ha fatto perché malato (forse, di sifilide). In città si intrecciano malignità e commenti di ogni tipo: si è ucciso perché era solo («Solo come l’ultimo occhio di chi va in una terra di ciechi»), per l’insuccesso della sua commedia Banja («Il bagno») critica verso la burocrazia staliniana, per lo spegnersi del talento.
Viene il giorno dei funerali. Ci sono fiumane di gente (come ai funerali di Puškin), più di centomila persone; sui balconi sono appesi drappi neri. Il cadavere di Vladimir si è gonfiato. La bara non si chiude. Un amico solerte monta sul coperchio. Altri amici spargono lacrime finte. I professori della Filarmonica moscovita suonano la Marcia funebre di Chopin. Qualcuno dice: «Majakovskij non riesce nemmeno a morire senza far casino».
Alle 19 e 35, al crematorio, il corpo brucia. E il «teppista», il grande poeta convinto di essere lui stesso un monumento, l’uomo disperato che un cattivo aveva descritto come un cavallo vestito da dama inglese, che di notte girava per Mosca prendendo a martellate il Dio che non gli rispondeva o non voleva concedergli l’eternità terrestre, e aveva scritto: «Il mio verso/ si aprirà una breccia/ nella mole degli anni/ e apparirà/ poderoso/ rozzo/ tangibile», non esiste più.
In una lettera, preparata il 12 aprile, rivolta «a tutti» ha scritto di non incolpare nessuno: niente pettegolezzi. Ma quali sono i motivi veri per i quali si è ucciso? Per l’insuccesso teatrale? Per le contestazioni e i fischi nelle letture pubbliche? Per le pressioni del partito? Per i ricatti della polizia segreta? Per il disinganno, il crollo degli ideali, l’orrore per l’avvento dei Tiranni? O davvero, come un borghesuccio qualunque, per amore, perché Veronika Polonskaja non voleva divorziare dal marito e quella mattina lo aveva definitivamente respinto? O per quella ferita sanguinosa che si portava dietro nel cuore e nessun amore, nessun progetto di futuro rivoluzionario radioso avrebbe mai potuto sanare? E infine: si era ucciso veramente da solo (usando la sinistra, lui che non era mancino); o qualcuno lo aveva ucciso usando la scala segreta che sbucava nello studio; o qualcuno, peggio ancora, gli aveva messo in mano la pistola (che forse era una Mauser, forse una Browning, forse un’altra)?
Aveva scritto: «Non inghiottirò veleno,/ e non riuscirò a premere il grilletto contro la nuca». Ma anche: «E sempre più spesso mi chiedo/ se non sarebbe meglio mettere il punto/ di una pallottola alla mia fine». Che dovesse, o potesse morire era comunque opinione diffusa. «Bisognava farlo fuori», scrisse Sergej Eiženštejn. «E lo hanno fatto fuori… Con le sue stesse mani.»
Con quale intelligenza di studiosa, con quale abilità di investigatrice Serena Vitale ricostruisce il suicidio, o l’omicidio, considerando tutte le possibili testimonianze vere o false, tutti i possibili documenti, tutti i perché ai quali fino ad ora — anche dopo la riabilitazione di Majakovskij — non è stata data una risposta. Per esempio: perché non fu mai interrogato l’autista del taxi che la mattina del 14 portò Vladimir e Veronika in passaggio Lubianskij; perché non furono conservati i verbali dell’autopsia; perché l’indagine fu chiusa il giorno stesso; e, soprattutto, «perché quello stormo di cekisti accorsi come avvoltoi subito dopo il suicidio»?
Con quale sapienza — dolorosa e asciutta — la Vitale conduce il lettore all’interno delle Tenebre dalle quali affiorano, veri e propri fantasmi in carne ossa, i volti emaciati, «normali» e orribili, dei delatori e delle spie che popolavano quel gigantesco carcere a cielo aperto, e quelli delle vittime trafitte dalla paura. Con quale finezza psicologica disegna la figura del poeta amato e vilipeso, altezzoso e tenero, impaziente e pietoso, con «quel corpo da gigante, grosso e inutile, partorito da chissà quale Golia in una notte di gelo».
Non da ultimo, con quale sapienza romanzesca l’autrice descrive il «prima» di quella mattina tragica. Perché già nella notte di San Silvestro Majakovskij era triste e non erano serviti a consolarlo i quaranta ospiti e il vino. E nei giorni precedenti il 14, dalla Polonskaja (quasi certamente la sua ultima sorvegliante) aveva ricevuto solo schiaffi in faccia, e dalla gente insulti. La sera del 13, dai Kataev — una delle tipiche serate moscovite con tè, biscotti, al massimo due bottiglie di Riesling — era taciturno e cupo; a Veronika, all’altro capo della tavola, mandava supplichevoli bigliettini. Poi il 14, col taxi, era passato a prenderla ed erano entrati nella stanza del mistero. 

Il bardo Majakovskij ucciso dai rancori 
Il suo suicidio è stato un lungo “giallo” tra amori, gelosie di colleghi e del partito 
Lorenzo Mondo tuttolibri 20 6 2015
Non c’è bisogno di avere speciali competenze sulla letteratura russa per apprezzare i libri di Serena Vitale, la qualità della sua scrittura, il suo talento critico-narrativo. Così, chi ha letto  Il bottone di Puskin o  L’imbroglio del turbante si sente sollecitato a leggere il suo ultimo saggio, intitolato  Il defunto odiava i pettegolezzi. In esso si tratta di Vladimir Majakovskij, il titolo è desunto dal suo testamento, che Serena Vitale intende rispettare liberando appunto il poeta dai pettegolezzi, e non soltanto da quelli. Il dato di partenza è offerto dalla mattina del 14 aprile 1930 quando il poeta trentasettenne si uccide in una «kommunalka» (un alloggio in coabitazione) sparandosi al petto. Pregando il «compagno Governo» di prendersi cura, oltrechè dei familiari, delle due donne cui era tempestosamente legato, Lili Brik e Veronika Polonskaja.
Nasce di qui la serrata inchiesta dell’autrice per mettere un punto fermo sul «mistero» di quella morte. Tale fu a lungo considerato, per la mole di indiscrezioni, sospetti, occultamenti che gravarono su una personalità in tutti i sensi ingombrante. Un mistero favorito dall’aggrovigliata vita sentimentale del poeta ma anche dalle gelosie e rancori degli ambienti letterari, soprattutto dal ripudio ad opera della Nomenklatura. Il bardo della Rivoluzione era diventato ormai obsoleto: gli rinfacciavano i cedimenti alle emozioni private e alle accensioni liriche, non tolleravano in particolare la sua denuncia del filisteismo imperante nella società sovietica. Dove «l’imparnassito guerriero del Futurismo» appariva un corpo estraneo. Si insinuò che fosse affetto da sifilide, «la malattia del capitalismo», di avere sacrificato la Grande Causa a meschini amorucci, di essersi distratto dal celebrare le conquiste del Socialismo. (Confidava un altro scrittore refrattario: «Che cosa si può scrivere delle patate, degli orti? Che vogliono da noi? Che cosa si può scrivere dei kolchoz?...E sui kulaki non c’è niente da scrivere. Non ce ne sono più). Il suicidio - annota Serena Vitale - è inammissibile lì dove solo lo Stato ha licenza di eliminare i propri sudditi». Il suo libro vale d’altronde, ben oltre l’assunto, per l’impressionante contesto storico, che presenta un sinistro corteo di scrittori perseguitati e fucilati.
Passarono cinque anni prima che Stalin, non potendo più reclutare alla causa nomi di prima grandezza, lo proclamasse «il migliore, il più dotato poeta della nostra epoca sovietica» e definisse un crimine l’offesa alla sua memoria. Serena utilizza nella sua indagine le testimonianze dei giornali, le confidenze di contemporanei amici e nemici, le carte emerse dagli archivi della polizia segreta. Sgombra il campo dalle troppe, abusive illazioni ma registra anche il clima oppressivo che circondò Majakovskij. Ravvisa, tra le cause della sua morte, il disinganno atroce per l’avvento dei Tiranni, la rabbia e lo sdegno contro chi aveva deturpato la «sua» Rivoluzione. Prova grande simpatia per il suo personaggio, che conserva nel corpo da gigante, nelle pose statuarie l’anima febbrile di un adolescente. Gli fa grazia di quelle che sembrano a noi poetiche intemperanze, sonore e virulente compromissioni con la propaganda, mettendo in luce il suo nativo, perenne ribellismo, il suo utopistico abbraccio al futuro. Scrive Majakovskij in una poesia rimasta incompiuta: «La notte ha imposto al cielo il tributo di stelle/in ore come questa ti alzi e parli/ai secoli, alla storia, al creato». 
Serena procede con brevi capitoli che contengono nudi referti fattuali, catene di citazioni tratte da diari e verbali, lacerti di poemi. Interviene in prima persona soprattutto nei brani racchiusi tra parentesi che si aprono ad aggiustamenti, contestazioni, libere riflessioni su Majakovskij e il tempo in cui visse. Sembra quasi corrispondere, in una sorta di affettuosa complicità, al franto discorso poetico del suo autore. Il suo libro seduce e intriga anche per questa originale, composita struttura.

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