sabato 20 giugno 2015
La nostalgia ideologica per un capitalismo impenditoriale immaginario
Nel 2015 il Corriere continua a scrivere cose che si scrivevano già negli anni Venti [SGA].
Chi ha paura della distruzione creativa?
Uscire dagli schemi e innovare spiazzando gli altri Dalla tecnologia alla politica, chi la esalta e chi la teme
Il segreto della «disruption» che muove la Silicon Valley. E spaventa noi europei
di Matteo Persivale Corriere 20.6.15
Gli americani chiamano disruption la capacità di innovare attraverso la
distruzione creativa dell’esistente per creare nuovo valore. Jobs e la
Apple sono l’esempio più classico di disruptive . «Rottamare», diremmo
in Italia, e nella nostra lingua c’è a partire dal vocabolo un’accezione
spiacevole che in inglese manca. La disruption è il motore che muove la
Silicon Valley e l’intero settore della tecnologia.
Una delle battute più divertenti contenute nella sceneggiatura del
film-biografia Steve Jobs (uscirà dopo l’estate, protagonista Michael
Fassbender) è una profezia: nel 1998 il fondatore della Apple vede la
figlia incollata a un Walkman e le consiglia di godersi il mangianastri
portatile perché sta per essere spazzato via. Lisa Jobs non sa — noi
spettatori sì — che papà Steve ha già in mente l’iPod, che uscirà tre
anni dopo con dentro duemila canzoni in formato digitale contro le dieci
o dodici del Walkman.
Jobs e la sua azienda sono l’esempio di quello che gli americani
chiamano l’essere «disruptive», la capacità di innovare attraverso la
distruzione creativa dell’esistente per creare nuovo valore.
«Rottamare», diremmo in Italia (vedi la forza innovativa del primo Renzi
e il disagio che creò al sistema politico). E nella nostra lingua c’è a
partire dal vocabolo un’accezione spiacevole che nella versione inglese
manca.
La tecnologia continua a essere profondamente «disruptive»: suscitando
grande orgoglio nazionale per gli americani (non è questione di soft
power ma di fatturato: nella top ten delle aziende più capitalizzate ci
sono Apple, fondata nel 1976, Microsoft, nata nel 1975, e Google, 1998).
Quando internet era ancora acerbo e i cellulari telefonavano e basta,
nel 1997, un economista americano somigliantissimo a Clark Kent prima di
trasformarsi in Superman nella cabina telefonica (classico esempio di
tecnologia rottamata da una novità «disruptive»), il professor Clayton
M. Christensen della Harvard Business School, ha cominciato a analizzare
il fenomeno dell’innovazione tecnologica. Con una serie di libri
diventati subito di riferimento ha formulato una teoria generale di
quella che ha battezzato «disruptive innovation»: un prodotto o un
servizio che inizialmente parte dal basso per crescere velocemente
spiazzando la concorrenza che fino a poco prima aveva dominato (vedi
box).
L’esempio più banale è quello del personal computer: le potentissime
aziende tecnologiche del primo dopoguerra avevano computer enormi,
costosissimi, per pochissimi utenti istituzionali che garantivano
margini molto alti e mercato chiuso. Si resero così vulnerabili
all’innovazione di computer pensati per un pubblico più vasto e più
«basso», personali, non più aziendali. Inventati in garage e prodotti da
aziende più agili. Altro ovvio esempio: i piccoli cellulari che
sconfiggono la telefonia fissa dei monopoli.
E allora diventa un po’ sterile chiedersi, come faceva ieri sul sito del
New York Times il giornalista finanziario James B. Stewart nel suo
blog, come mai l’innovazione dirompente che rottama lo status quo
entusiasma gli americani e spaventa noi europei.
Perché Stewart ha chiesto lumi a Petra Moser, economista tedesca di
Stanford, che ha parlato dei timori europei (fondati) d’essere rimasti
indietro. «Stanno cercando di ricreare la Silicon Valley in posti come
Monaco, finora con poco successo», per motivi culturali e istituzionali.
Eppure, seguendo la «curva» di Christensen — la rottamazione che parte
dal basso e allarga la base di utenti di un prodotto esclusivo — non si
può non pensare ai punti deboli dei giganti che dominano in un dato
momento storico.
Non si può non pensare ai ragazzi «disruptive» di Wikileaks: hanno preso
un «prodotto» esclusivo e con margini altissimi — le informazioni
riservate del Pentagono e della Cia — e le hanno fornite con rapidità e
convenienza a una base vastissima di utenti. Loro stanno a Berlino,
Julian Assange in territorio ecuadoregno a Londra, Edward Snowden in
Russia: dall’altra parte del mondo rispetto alla Silicon Valley e al suo
business dominante (fino a quando?) della rottamazione.
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